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SAGGI

Nel guado della società mondiale.

Morfologia e portata

di Fabio de Nardis

 

  

1. Mondializzazione, mondialità, mondialismo

 

Negli ultimi anni siamo stati testimoni di un uso spropositato del termine globalizzazione inteso come concetto che indicherebbe un vago e diffuso cambiamento del mondo in senso omogeneizzante e unitario. La globalizzazione così intesa è stata oggetto di dibattito politico a livello mondiale raccogliendo su di sé l’attenzione apocalittica dei più critici e quella apologetica degli altri, con tutte le pericolose semplificazioni del caso. Infatti, la sua inflazione nei dibattiti politici, giornalistici, ma anche nei talk show di scarso livello culturale, ha fatto sì che il termine-concetto «globalizzazione» si svuotasse di significato e di valore scientifico riducendosi a slogan di comodo adottato nei più disparati contesti per i più disparati fini.

Come scrivono Roland Robertson e Habib Haque Khondker (1998, 26), la presente situazione riguardo la globalizzazione è il tipico esempio di come i concetti e le teorie sono elaborati e si sviluppano in contesti scientifici seri solo per essere successivamente utilizzati nel “mondo reale” in un modo che finisce col mettere in pericolo la loro capacità analitica e interpretativa. Così la globalizzazione, assunto come termine vago indicante un processo di omogeinizzazione globale, assume un carattere peggiorativo o migliorativo a seconda delle convenienze, perdendo però gran parte delle sue capacità esplicative e comprensive del reale. Così accade che un termine apparentemente ‘colto’ sia usato senza una specifica definizione, senza cioè che ne siano definiti attributi e referenti.

In questa sede, il nostro obiettivo sarà, pur nei limiti di spazio consentiti, quello di liberare il termine dall’influenza inquinante del linguaggio comune, descrivendone la morfologia e analizzandone la portata, così come indicato nel sottotitolo del saggio. Per far ciò cominceremo col prendere spunto dalla tripartizione operata da Ulrich Beck (1997, trad.it. 1999) che distingue tra globalizzazione e globalità, da un lato, e globalismo, dall’altro:

 

·        Con il termine «globalizzazione», o «mondializzazione», come preferiamo chiamarla in affetto all’etimologia latina, s’intende quel processo in seguito al quale le singole sovranità nazionali vengono differentemente condizionate da attori transnazionali, soprattutto economici, ma anche politici, culturali o semplicemente donne e uomini che, pur avendo come riferimento stabile una entità territoriale, agiscono e pensano quotidianamente in maniera globale, contribuendo alla determinazione di una crescente interdipendenza tra Stati nazionali;

·        Con «globalità», o «mondialità», invece, si indica la natura mondiale che contraddistingue da tempo le società contemporanee, tanto che nessun gruppo o paese si possa oggi isolare del tutto dagli altri; indica dunque quell’insieme di rapporti sociali non integrati nella politica di uno Stato-nazione e pertanto non determinati né determinabili da esso. In questo senso l’elemento autopercettivo gioca un ruolo fondamentale. Quando si parla di società mondiale, infatti, ci si riferisce soprattutto all’autorappresentazione che di essa hanno gli individui; entra in gioco l’elemento riflessivo della modernità rafforzato dal potere globalizzante dei nuovi media. È chiaro che senza integrazione non vi può essere società ma ciò non toglie che vi possa essere la sua percezione da parte degli individui coinvolti in un processo di costante comunicazione planetaria, da un lato, ma anche dalla mobilità sociale prodotta dai processi migratori, dall’altro. Un tempo, ‘società’ indicava una sorta di omogeneità integrata nelle norme morali e giuridiche di uno Stato-nazione; oggi, società mondiale indica molteplicità e differenziazione senza unità che produce stili di vita differenziati, forze produttive transnazionali, ma anche guerre globali e una percezione del ‘rischio’ planetario;

·        Il «globalismo», o «mondialismo», infine, non è altro che quel processo di sviluppo di un mercato globale che rimuove fino a sostituire l’azione politica nel nome di un’idea neoliberale che fonda le sue basi sul concetto di dominio dell’economico sul politico. Esso, attraverso un processo indebito di reductio ad unum, riconduce la multidimensionalità della mondializzazione all’unica dimensione economica sfociando, sovente, in ideologia totalizzante che liquida forse la più significativa distinzione della modernità, quella tra economia e politica istituzionalizzate in potere economico e potere politico, il tutto in favore di una sorta di imperialismo culturale di tipo aziendalistico. 

 

Da ciò emerge l’irreversibilità della globalità intesa come coesistenza tra diverse logiche particolari, economica, politica, ecologica, culturale, che interagiscono su scala planetaria costruendo, spesso involontariamente, una rete di interdipendenze. A rendere possibile tale irreversibilità è la concomitanza di diversi fenomeni come la crescente mondializzazione del commercio internazionale, il progresso vertiginoso delle tecnologie della comunicazione, l’attivarsi di reti di solidarietà transnazionali che girano attorno alla rivendicazione dei diritti umani, i flussi di immagini prodotti dall’industria culturale, la percezione globale del rischio, specie relativamente al pericolo ecologico o dei conflitti interculturali, infine, l’affermazione di una politica mondiale sempre più policentrica.

La questione della globalità  ha dunque una stretta attinenza con la lucida percezione che nulla di ciò che accade in un luogo potrà rimanere vincolato in quell’unica dimensione spaziale, plasmando le nostre vite e le istituzioni nazionali lungo l’asse ‘locale-globale’. In questo ambito si inserisce la mondializzazione, intesa come processo dialettico che crea spazi e legami transnazionali, non incrinando le culture locali ma dislocandole territorialmente come forme di ipostasi temporali che si distendono in una dimensione spaziale dilatata.

Per meglio specificare i termini ci soffermeremo su di essi in paragrafi specifici inserendoli nella macro-cornice istituzionale della modernità, senza naturalmente trascurare le principali teorie che pur nella frammentarietà del caso hanno cercato di interpretare questi fenomeni nella loro complessità. Analizzeremo poi il ‘mondialismo’ come ideologia totalizzante di questa nostra epoca e le critiche contro di esso mosse dai nuovi movimenti globali, intesi come prodotto e al contempo attori primari della società mondiale, spinti da un nuovo solidarismo civico e da un rinnovato bisogno di politica. 

 

 

 

2. Modernità e «mondializzazione»

 

2.1 - La mondializzazione, come integrazione graduale delle vicende di tutte le società della terra in un solo ambito di relazione, è figlia di un processo lungo che ha origini remote nell’espansione coloniale europea fin dagli inizi dell’epoca rinascimentale, anche se dalla seconda metà del XX secolo ha subito una radicale accelerazione. In questo senso, la mondializzazione non è letta, come molti studiosi contemporanei fanno, nei termini di una rivoluzione recente attivatasi sulle ceneri della società moderna nell’ambito di una presunta postmodernità, quanto piuttosto come una conseguenza della modernità stessa (Giner 2000), come il prodotto di una radicalizzazione delle condizioni della modernità (Giddens 1990, trad.it. 1994) di una sorta di seconda modernità (Beck 1997, trad.it. 1999).

La modernizzazione è un processo che per quanto trovi compimento più o meno tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo con la rivoluzione industriale, in campo economico, e quella illuminista, in campo culturale, ha origini antiche nel feudalesimo (Giner 2000, 16). Non tutte le società premoderne sono state anche feudali. Il feudalesimo infatti è una specifica modalità di organizzazione sociale che trova le sue origini in Europa e in Giappone. Dunque, il rapido sviluppo della società capitalista in queste regioni del pianeta e in alcune sue antiche colonie, come gli Stati Uniti, ha dato modo agli studiosi di speculare a lungo su una presunta relazione tra sistema feudale e capitalismo.

In effetti il feudalesimo europeo presentava diverse modalità morfologiche che hanno poi consentito un elevato dinamismo evolutivo. La società feudale ha bisogno di una stretta connessione tra un potere politico-amministrativo legittimato da un’autorità signorile che trae forza da una frammentazione della sovranità in un sistema relazionale di vassallaggio e un potere economico articolato su un modo di produzione prevalentemente agricolo. Il tutto si regge su un sistema complesso di prerogative signorili e su una marcata stratificazione sociale di tipo cetuale, abbinate alla vera peculiarità del feudalesimo europeo che sta nella doppiezza secolar-religiosa dell’autorità.

Un simile sistema di organizzazione sociale impedì per secoli la formazione di grossi Stati centralizzati con potere sufficiente per gettare le basi di modi nuovi di produzione e organizzazione. Il continente europeo si convertì dunque in un mosaico di piccole monarchie, principati e signorie feudali retto da un equilibrio tanto precario da permettere però, col tempo, una rivoluzione di sistema resa possibile dall’alleanza storica tra grandi monarchie rinascimentali e post-rinascimentali e la società prospera della nascente borghesia mercantile che sfruttò proprio l’elevata frammentazione politica della ormai obsoleta società rurale per farsi strada.

L’indebolimento del sistema feudale di produzione fu presto sostituito dal più vitale sistema mercantile gettando le basi per un nuovo mondo economico dominato dalle leggi della domanda e dell’offerta e dalla concorrenza, tipiche di un modo di produzione capitalistico, seppur ancora ‘primitivo’. L’estensione di tale modo di produzione fondato sulla proprietà privata di beni determinò un cambiamento radicale anche dell’organizzazione politica e delle relazioni sociali attraverso un nuovo processo di stratificazione fondato sulla divisione tra proprietari di mezzi di produzione (fabbriche ma anche terreni) e lavoratori salariati.

Lo sviluppo tecnologico e la grande rivoluzione industriale rafforzarono la vecchia borghesia finanziaria organizzata attorno ai mercati tradizionali di Parigi, Amsterdam e Londra, contribuendo alla nascita della nuova borghesia industriale, attore primario di un sistema di produzione fondato su investimenti di capitali e sulla costante innovazione tecnica, stimolato dalle nuove attitudini della modernità (individualismo, secolarizzazione, razionalità, spirito competitivo, fiducia cieca nel progresso). Tali attitudini, indubbiamente generate da una prima fase di mutamento strutturale di tipo materiale, divennero poi elementi di consolidamento ideologico della società moderna classista e capitalista, fondata sulla massimizzazione del profitto attraverso lo sfruttamento di lavoro manuale.

 

2.2 - In quest’ambito di sviluppo si vengono a creare le condizioni per una produzione sempre più di massa che impone una ulteriore razionalizzazione del processo produttivo sull’onda dei Principi dell’organizzazione scientifica del lavoro elaborati da Taylor nel 1911 e in gran parte applicati in via sperimentale dall’industriale Ford qualche anno più tardi, per poi diventare dominanti nel secondo dopoguerra. Il Taylor-fordismo era un processo di razionalizzazione del lavoro in un sistema industriale sempre più standardizzato e rigido. E sarà proprio la sua rigidità a metterlo in crisi in un sistema di concorrenza internazionale sempre più intenso che richiedeva una continua innovazione e una produzione snella.

Si passa così, con una certa gradualità a quello che David Harvey (1990, trad.it. 1997) definisce regime di «accumulazione flessibile» di capitali contrapposto proprio alla rigidità del fordismo. Esso si poggia su una forte flessibilizzazione nei confronti dei processi produttivi, del mercato del lavoro e dei modelli di consumo, in settori di produzione nuovi, nuovi modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e “tassi molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologica e organizzativa” (ibid., 186).

 Il vecchio operaio dequalificato viene sostituito, specie grazie alla rivoluzione tecnologica, da nuovi lavoratori specializzati e da un’imprenditoria giovane e intelligente, esperta in meccanismi di marketing e alla continua ricerca di nuove nicchie di mercato a livello mondiale. L’attenzione non si rivolge più alla produzione quanto al consumo concentrandosi sulla mutevolezza delle mode, orientandole attraverso specifiche operazioni di marketing  che connettono la mondializzazione economica a una certa tendenza alla dislocazione culturale in “un’estetica postmodernista che celebra la differenza, la caducità, lo spettacolo, la moda e la mercificazione delle forme culturali” (ibid., 195).

 

2.3 – Accanto alle trasformazioni del sistema di produzione, si verifica anche la più importante trasformazione degli ultimi decenni, cioè la spettacolare espansione del mercato finanziario mondiale, elemento cardine della globalizzazione economica e del nuovo capitalismo, successivo al passaggio, nei primi anni settanta, dal regime di cambio fisso, predisposto nei postbellici accordi di Bretton Woods, a uno di cambio variabile. Probabilmente oggi non si potrebbe parlare di mondializzazione in assenza di questa crescita vertiginosa del world financial market, il primo settore a globalizzarsi e ancora oggi il maggiore e forse il solo vero mercato mondializzato. Se nel 1983 le transazioni monetarie nel mercato dei cambi erano già dieci volte superiori ai livelli del commercio mondiale, appena dieci anni dopo il rapporto era salito di 60 a 1 (Sassen 1996, 40).

In fondo, come nota Harvey (1995, 8), già quello di Bretton Woods era un sistema globale, organizzato gerarchicamente e controllato politicamente dagli Stati Uniti, che ha lasciato il passo a un altro sistema globale solo più decentrato che, smantellando gli assetti di capitalismo controllato, ha consentito una maggiore deregolazione, cioè una libera circolazione di capitali. Cambi flessibili e libertà di capitali, accanto alla rivoluzione informatica, hanno consentito la nascita di quel turbocapitalismo, per dirla con Luttwak, incontrollato e privo di ancoraggi obiettivi, come l’oro ad esempio (Ruffolo 2002).

Eppure ancora oggi gli Stati Uniti riescono a mantenere un ruolo chiave raccogliendo i frutti di mezzo secolo di leadership sul capitalismo mondiale. I segni più riconoscibili di questo processo, nota Arrighi (1998, 62) li vediamo nell’influenza che ha la cultura popolare Usa sui giovani di tutto il mondo e, in campo politico-economico, nello sviluppo di agenzie di governance mondiale variamente egemonizzate dal potere statunitense, come nel caso del UN Security Service, del G8, del IMF (International Monetary Found), del WTO (World Trade Organization), e così via; senza contare l’indiscusso ruolo di leadership militare esercitato attraverso le articolazioni della NATO.

Sebbene gli Stati Uniti continuino a giocare un ruolo centrale, la peculiarità dell’attuale fase di espansione finanziaria del capitalismo mondiale sembra comunque quella di una concentrazione del potere finanziario su un variopinto aggregato di organizzazioni territoriali  e non territoriali: da un lato, abbiamo le grandi corporation multinazionali che da sole accumulano più capitale della maggior parte degli Stati nazionali del mondo; dall’altro, assistiamo alla crescita del potere asiatico, con uno Stato semi-sovrano, come il Giappone, due quasi-Stati, come la Corea del Sud e Taiwan, due città-Stato, come Singapore e Hong Kong, accanto alla rapida crescita di potere economico-finanziario della Cina.

 

2.4 - Chiaramente la modernità non può essere ridotta al regime economico di tipo capitalistico anche se storicamente la modernizzazione è un processo inscindibile dal capitalismo, così come ebbe modo di notare lo stesso Marx. Eppure esistono diversi sistemi economici, che prevedono forme di interventismo statale, di economia altruista, come le varie forme di economia socialista, che sono pure fondamentali per esplicitare gli ordini economici della società moderna. Naturalmente abbiamo diverse forme di modernità espresse in società distinte dove risaltano alcuni aspetti del processo di modernizzazione anziché altri. Dunque, avremo società di capitalismo perlopiù sregolato, dove prevale l’attitudine all’individualismo e alla concorrenza; avremo poi società dove l’attitudine individualista è mitigata da uno spirito solidarista che si concretizza nel principio redistributivo che anima le società di welfare; o avremo ancora società ad economia pianificata dove prevale una sorta di egualitarismo burocratico e razionalizzante, e così via.

Quindi non è altro che la generalizzazione delle condizioni della modernità ad aver posto la questione incipiente della mondializzazione, tanto che oggi nessun paese scappa dall’interdipendenza politica, culturale, e soprattutto economica. Naturalmente il processo di mondializzazione non è né lineare né unitario così come la società mondiale non è né unitaria né tanto meno omogenea e, come è noto, non si ha varietà senza disuguaglianza. Dunque, il processo di mondializzazione ha reso evidente la discrepanza economica tra paesi opulenti e paesi poveri spesso contribuendo al processo di pauperizzazione dei paesi più periferici, alimentando dunque le tensioni tra le diverse regioni del mondo.

Tutte le società moderne formano entità complesse in cui la presenza di un centro e una periferia diventa un fatto strutturale che produce una continua tensione tra i due poli. Si tratta essenzialmente di un problema di comunicazione fondato sulla consapevolezza di vivere in un sistema sociale le cui frontiere vanno bene al di là degli interessi dei singoli individui o gruppi (Giner 2000, 25). Il contatto del centro con la periferia e la paradossale decentralizzazione prodotta dallo sviluppo repentino dei mezzi tecnici di comunicazione, anche nell’ambito dei trasporti, conferisce a tali società una struttura marcatamente reticolare dove la tradizionale frattura centro/periferia perde valore di fronte ai nuovi processi di razionalizzazione della produzione  e di conseguente interdipendenza economica del mondo.

La razionalizzazione che ha contribuito a ridurre lo sfruttamento di manodopera in seno al sistema industriale di produzione in favore di una nuova schiera di lavoratori altamente specializzati, perlopiù destinati ai servizi, ha reso possibile la nascita di società sempre più ricche, accanto ad altre sempre più povere, con un elevato sistema di interdipendenza economica interna. Tali società intrecciano poi rapporti prevalentemente economici con altre società creando un sistema transnazionale e transtatale che abbiamo chiamato mondializzazione e che non possiede un unico centro decisionale di natura politica.  

 

 

3. Sociologie della mondializzazione

 

3.1 - La sociologia nasce come scienza ‘moderna’ della società ‘moderna’ intesa come schema di articolazione dello spazio sociale all’interno di confini territoriali precisi in genere coincidenti con i confini geopolitici degli Stati-nazione. La teoria sociologica si sviluppa nell’ambito di una schema teorico e interpretativo che vede la società come una sorta di container all’interno del quale diversi rapporti sociali si verificano in una logica di dominio degli Stati sul loro spazio formale di riferimento. Sono i confini politici degli Stati-nazione che moltiplicano gli spazi di relazione culturale, politica ed economica creando società singole. Questa architettura concettuale o schema ordinativo guarda all’esterno solo in termini di confini da rispettare dentro i quali l’azione sociale è pensata in termini di identità collettive (ceti o classi, gruppi etnici e religiosi, categorie socio-professionali) proiettate nelle dimensioni particolari della politica, del diritto, dell’economia, della scienza, della famiglia, e così via. L’omogeneità interna diventa una costruzione sociale e contemporaneamente uno strumento di controllo politico.

È dunque lo Stato, come struttura politica sovrana, a definire dei criteri stabili di autosservazione che diventano anche i criteri osservativi delle scienze sociali empiriche nell’ambito di una unità territoriale simulata con gli strumenti della politica. Ma sono proprio tali categorie interpretative che oggi vengono messe in discussione insieme all’assioma di una sociologia orientata sulla sola dimensione nazionale. Ne fuoriesce una sociologia della mondializzazione ancora in buona parte disorganica e contraddittoria che però, rompendo il “muro del suono del pensiero nazional-statale” (Beck 1997, trad.it. 1999, 44), crea nuove sbocchi investigativi che tengono conto della possibilità di spazi sociali sopranazionali.

 

3.2 - Si aprono prospettive di ricerca in contesti culturali e tematici vastissimi, dall’analisi delle migrazioni, alla disposizione internazionale delle classi sociali, dai nuovi paradigmi della politica internazionale fino a una riconsiderazione in chiave tardomoderna della stessa teoria democratica. Qualcuno, come Wallerstein (1988, 1997), si spinge ben oltre preconizzando la nascita di un sistema-mondo in cui l’azione sociale si verificherebbe all’interno di un quadro generale rappresentato dal sistema capitalistico mondiale, dove la divisione planetaria del lavoro progredisce insieme al sistema delle disuguaglianze. È infatti il capitalismo ad essere globale per sua stessa logica interna, composta da tre elementi: un unico mercato mondiale guidato dal principio del profitto; un insieme di strutture statali di differente forza che ostacolano il libero sviluppo dei mercati per favorire uno o più gruppi; e un regime di sfruttamento che non comprende due classi ma si articola sui tre livelli degli spazi centrali, spazi regionali e spazi periferici. Questo ultimo elemento è necessariamente fonte di nuovi conflitti integrati nel sistema-mondo e radicalizzati nei diversi fondamentalismi antioccidentali, nelle forme di neonazionalismo, o nei poliedrici movimenti ecologisti. Dunque, per Wallerstein, la mondializzazione non è altro che l’istituzionalizzazione del mercato mondiale, un’idea senza dubbio affascinante per quanto difficilmente verificabile sul piano empirico.

 

3.3 - Tale sguardo d’insieme sul sistema-mondo viene poi relativizzato da studiosi come James Rosenau (1990) che parla dei «due mondi della politica mondiale», da un lato, la società degli Stati; dall’altro, la molteplicità delle organizzazioni transnazionali che intrecciano relazioni reciproche ponendosi in una situazione concorrenziale con il primo mondo. Secondo l’autore, la cui formazione politologica è evidente, globalizzazione non è altro che quel processo in cui l’umanità si è lasciata alle spalle l’epoca della politica internazionale dominata dal sistema degli Stati, in favore di una nuova politica che chiama post-internazionale in cui gli attori politici tradizionali, come gli Stati, devono dividersi lo scenario globale con nuovi attori politici, economici, culturali, come le organizzazioni economiche multinazionali ma anche i tanti movimenti sociali transnazionali.

Rosenau pone dunque al centro del processo di mondializzazione una ‘politica globale policentrica’ in cui tutti gli attori in gioco, seppur con evidenti differenziali di potere, hanno modo di proporre ed imporre i propri interessi sulla scena planetaria, dove l’ordine del giorno è condizionato dai diversi problemi transnazionali come i mutamenti climatici, i conflitti etnici, le eventuali epidemie, ecc., mentre eventi particolari come una guerra, ad esempio, provocano turbolenze attivando interessi conflittuali riconducibili, sovente, a nuove comunità transnazionali, religiose, come l’Islam, intellettuali, come nel caso della comunità scientifica, economiche, come nel caso delle grandi multinazionali, politiche, come nel caso dei movimenti ecologisti, o semplicemente culturali, nel senso lato del termine, esprimenti quindi nuovi stili di vita che non riposano su una dimensione geosociale specifica.

 

3.4 - In quest’ambito concettuale, ben più ampio delle poche teorie e dei pochi autori menzionati, Ulrich Beck (1986, trad.it. 2000) propone la sua idea di società mondiale del rischio che, mettendo in discussione l’idea ancora dominante di azioni unitarie e consapevoli orientate a fini, pone l’accento sulle conseguenze collaterali e non volute di quelle stesse azioni, che l’autore identifica nei nuovi rischi globali e nella loro percezione sociale e politica. Si tratta delle grandi questioni che determinano la minaccia di un comune destino, come nel caso della questione ecologica o della guerra nucleare, che risveglierebbe, secondo l’autore, una coscienza quotidiana cosmopolitica che non si limita a superare i confini tra gli Stati ma sovente anche quelli tra uomini, animali e vegetali.

Le minacce globali, infatti, mettono in discussione i sistemi di sicurezza nazionali e internazionali, si pensi anche all’attentato alle Torri gemelle nel settembre del 2001, che avrebbe beffato il più imponente sistema di intelligence dell’intero pianeta o la fobia collettiva nata dal successivo timore sulla diffusione di armi batteriologiche apparentemente non ostacolabili (si pensi alla questione del Carbonchio e dell’Antrace). Tutti elementi che contribuirebbero a scalfire la fiducia verso quei sistemi esperti di cui parlava Giddens (1990, trad.it. 1994) e su cui in parte si è retta la coesione sociale all’interno delle società nazional-statali nel corso della modernità.

Sarebbe proprio questa lucida percezione di pericolo che costantemente pervade l’animo degli individui ad alimentare una involontaria politicizzazione di tutti i campi di azione sociale (Beck 1997, trad.it. 1999, 62), intesa come momento di rottura con i tradizionali automatismi della decisione sociale che sfocia in desiderio di chiarezza, in volontà di partecipazione, aprendo inevitabilmente nuovi spazi per l’azione politica.

 

3.5 - Suggestiva è la posizione dei teorici della globalizzazione culturale, secondo i quali la mondializzazione dell’agire economico comporterebbe anche una ondata di trasformazione culturale. Si tratta di un processo di convergenza della cultura mondiale che George Ritzer ha chiamato «mcdonaldizzazione» (1983; 1996; 2001). L’autore costruisce tale concetto prendendo spunto dalla teoria weberiana della razionalizzazione dell’occidente (1921) e in ultima istanza anche del mondo restante (Kalberg 1980). Secondo Ritzer, che assume in questo una posizione apocalittica, la razionalizzazione sarebbe progredita “drammaticamente” per tutto il secolo XX fino a trasformare il mondo sociale in una gabbia d’acciaio dalla quale sembra quasi impossibile fuoriuscire (1996, 291).

Il modello burocratico descritto da Weber avrebbe lasciato il passo al fast-food che, combinando principi di efficienza burocratica con altri percorsi di razionalizzazione (come l’assembly line, il scientific management, ecc.), avrebbe creato un nuovo paradigma di organizzazione manageriale e culturale; esso, partendo da uno specifico settore della cultura occidentale e statunitense in particolare, si sarebbe espanso ben oltre quel settore coinvolgendo tutti gli aspetti della vita sociale sulla base di cinque dimensioni strutturali: l’efficienza, possibile attraverso l’adozione di norme e procedure snelle;  la calcolabilità, che ha spinto ad enfatizzare la quantità e la velocità di produzione rispetto alla qualità; la prevedibilità, attraverso specifiche norme comportamentali; il controllo, grazie all’utilizzo di tecnologie non umane e, infine, ciò che l’autore chiama l’irrazionalità della razionalità, fatta di tutte quelle distorsioni del processo di razionalizzazione che portano a una de-umanizzazione del cliente così come del lavoratore, ciò che Braverman (1974) descrive con il termine di “degradazione”.

In questo senso, la globalizzazione rappresenta la nascita di un mondo unico non inteso però come riconoscimento della molteplicità culturale ma come un mondo di merci dove le culture locali e il pluralismo cosmopolita verrebbero soppiantati dai nuovi simboli del consumismo universale, dove l’essere si trasforma in design. Gli uomini sarebbero ciò che comprano e l’essere nel mondo si esaurirebbe nel consumo, dove le nuove forme di discriminazione si verificherebbero tra chi può consumare adeguandosi alla nuova equazione della vita sociale, veicolata da una “rete informativa globale che ricopre la terra come una tela di ragno” (Ramonet, Le Monde Diplomatique, 11 aprile 1997), e chi non può.

 

3.6 - Tale tesi di una sempre crescente omogeneizzazione culturale intesa, de facto, come americanizzazione della vita sociale si scontra con la posizione di chi, come Roland Robertson (1992; 1997), riconosce nella mondializzazione elementi per molti aspetti ambivalenti e paradossali frutto di complessi processi dialettici. Il discorso sulla globalizzazione ne dovrebbe comportare sempre uno speculare sulla localizzazione. Mondializzazione non è solo de-localizzazione unilineare ma anche, e spesso soprattutto, ri-localizzazione, intesa come nuova accentuazione del locale, anche sotto il piano economico, nel senso che nessuno può limitarsi a produrre su un piano globale se non mantiene un legame con i diversi mercati locali. ‘Globale’ in questo senso vuol dire ‘in più luoghi contemporaneamente, ossia ‘translocale’ (Beck 1997, trad.it. 1999, 66). Una sorta di clash of localities che spinge Robertson a sostituire il termine globalizzazione con quello di «glocalization», concetto debole sotto il profilo scientifico ma efficace sotto quello della sintesi logica.

Si tratta di un fenomeno articolato che condiziona anche i processi individuali di rappresentazione del sé in un contesto di densità e complessità globale, ponendo non pochi problemi analitici (Robertson 1997, 72-73) prodotti dal contrasto tra i due aspetti che dividono la comunità scientifica: il relativismo culturale, che copre una molteplicità di segni nei quali si riconosce la nuova ideologia postmoderna così come quella di un nuovo pragmatismo in un contesto anti-totalistico, e il mondialismo, che al contrario assume una connotazione ‘fondazionale’ che rivendica e auspica di “afferrare” analiticamente il mondo come una totalità (to grasp the world as a whole).

Roberston risolve la disputa mediando tra i due ambiti di analisi e  proponendo un approccio teorico che, da un lato, valorizzi ‘particolarità’ e ‘differenza’, dall’altro, ‘universalità’ e ‘omogeneità’, in linea con le dinamiche sociali che egli definisce di “universalizzazione del particolarismo e particolarizzazione dell’universalismo”, sulla scia di ciò che Arjun Appadurai chiama “la tensione tra omogeneizzazione culturale e eterogeneizzazione culturale” come aspetto centrale delle attuali interazioni globali.      

 

3.7 – E proprio Appadurai (1989; 2000) introdurrà il concetto di scape (‘paesaggio’ in senso metaforico) e in particolare di ethnoscapes per indicare quell’insieme di individui che popolano un mondo sempre più inquieto e frammentato (turisti, immigrati, profughi, individui in movimento), accanto ai quali è possibile distinguere i technoscapes, come movimenti di tecnologie che superano ogni confine; i financescapes, come i movimenti valutari, le borse nazionali, le operazioni speculative che si attivano in modo transnazionale con una rapidità mai vista; i mediascapes, che rappresentano i movimenti di immagini prodotte dai mezzi elettronici; gli ideoscapes, che indicano quelle stesse immagini mediatiche spesso poste al servizio di ideologie varie.

Tutti questi flussi di immagini metterebbero in discussione la tradizionale distinzione tra centro e periferia producendo ‘mondi immaginari’ che vengono visti e interpretati ovunque con diversi significati. Si tratta di nuove culture senza contesto, una mescolanza di componenti veicolate dal sistema di comunicazione globale, stimolando l’immaginazione degli individui che assumerebbe un ruolo fondamentale nel processo di rappresentazione del sé ma anche di un futuro possibile, sempre mosse però dal motore centrale dei mass media. 

 

3.8 - Quindi, i diversi autori, specie se di formazione anglosassone, tendono a rifiutare la tesi della mcdonaldizzazione che conduce a una reductio ad unum della cultura. I nuovi scenari globali, o ‘glocali’, per dirla con Robertson, vengono piuttosto intesi come una immaginazione delle vite possibili che consentono una pluralità di combinazioni. Come scrive lo stesso Bauman (1998, trad.it.1999; 1999, trad.it. 2000) i mercati globali di merci e informazioni impongono una selezione da parte degli individui che avviene al livello delle comunità locali senza per questo, però, escludere un quadro drammatico di disuguaglianze sociali dispiegate in ambito planetario. È proprio il nesso locale/globale ad essere oggi la fonte di nuove disuguaglianze. Globalizzazione e localizzazione sono infatti due forze motrici che impongono una polarizzazione planetaria, una sorta di neo-stratificazione mondiale che divide ricchi globalizzati e poveri vincolati entro i confini delle comunità locali.

Per Bauman, infatti, la mondializzazione è un fenomeno che coinvolge tutti ma che divide anche. Insieme al processo globalizzante della finanza, dell’informazione, del commercio e dell’economia, è possibile individuare un parallelo e contrario processo di localizzazione. E nella cultura del caduco e della mobilità, essere “locali” rappresenta un segno d’inferiorità, di a-storicità, perché si pone in contrapposizione con le dinamiche del mondo globale.

In campo economico la natura dello scambio è profondamente mutata e la mobilità assume una forte connotazione sovra-nazionale, facilitata dalla nuova liquidità delle risorse. Lo spazio viene completamente riorganizzato in virtù delle nuove scoperte della tecnica, specie nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni. Esso si annulla quasi, come il tempo, in seguito a transazioni planetarie effettuabili in un centesimo di secondo, premendo un pulsante. Accanto allo spazio fisico dell’ingegneria e dell’architettura, nasce un’altra dimensione spaziale che è quella dello spazio cybernetico, privo delle tradizionali dimensioni spaziali. Più che rendere omogenea la condizione degli individui, l’annullamento tecnologico delle dimensioni spazio-temporali, ne produce una drastica polarizzazione: consente ad alcuni di emanciparsi dalla comunità territoriale, relegando altri nella dimensione locale e territoriale insufficiente oggi a produrre una identità completa; questo produce un forte stato di confusione e ansietà nell’animo di chi si trova immesso in un simile, complesso processo. Chi non è al passo con i meccanismi della globalizzazione viene tagliato fuori violentemente, in una logica concorrenziale marcatamente darwiniana, nella spietata guerriglia urbana per il superamento delle barriere spaziali e temporali. La città, ovvero il principale campo di battaglia, si divide nelle aree “elette”, globalizzate e in quelle “tagliate fuori”, ghettizzate. E la violenza stessa diventa una reazione eccentrica contro l’esclusione.

In questo modo si ripropone in chiave tardomoderna l’antica dialettica servo-padrone senza più quei vincoli di necessità che rendevano possibile la solidarietà tra uomini, oggi caduti nel non-luogo della società mondiale.

 

3.9 - Beck contesta la posizione di Bauman che, perdendo ogni quadro di riferimento categoriale, a cominciare da quello nazional-statale entro cui la tradizionale dialettica di sfruttamento si è verificata, non consentirebbe di comprendere a pieno i contrasti esistenti “tra poveri senza confini e ricchi senza confini” (1997, trad.it. 1999, 79). L’autore pone l’accento sulla questione del lavoro, o meglio sull’assenza di lavoro. Il capitalismo, infatti, sotto la spinta tecnologica e delle nuove forme di articolazione economica si sbarazza del lavoro almeno nella sua forma tradizionale di lavoro salariato, tanto che la disoccupazione, un tempo pericolo per pochi, oggi riguarda potenzialmente ogni individuo inserito nel sistema produttivo globale. Questo mette in discussione i principi primi della democrazia che, afferma l’autore (ibid., 83), nasce come “democrazia del lavoro”. Il capitalismo globale cessando di assicurare occupazione e incrinando i principi di democrazia perde la sua propria legittimità che si fondava proprio sui concetti di lavoro e democrazia.

Quando il capitalismo contribuisce alla dissoluzione dei valori centrali della società del lavoro, infatti, rompe l’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e processo democratico. Lo stesso principio di cittadinanza democratica si è fondato sulla convinzione che solo donne e uomini con un lavoro sicuro, quindi inseriti pienamente in un sistema produttivo che possa loro garantire un futuro materiale sereno, possono diventare cittadini di una democrazia vitale. Per intenderci, un capitalismo globale contrapposto a una politica locale equivale a un modo di produzione senza legittimazione politica, causa dell’impossibilità di rinnovare quel contratto sociale su cui in passato si sono strutturati i principali sistemi democratici.   

 

 

4. «Mondialità» come società mondiale di fatto

 

La parola «mondializzazione» indica quindi l’intensificarsi di spazi, problemi, conflitti ed esistenze transnazionali; non è un processo lineare ma contingente e dialettico. La «globalità», o «mondialità», invece, è un dato di fatto e indica l’esistenza di una società mondiale multidimensionale, quindi policentrica e, nello stesso tempo, contingente e politica.

L’esistenza della società mondiale, si è detto, è un dato di fatto, un fenomeno ineludibile che ha comportato non solo una mobilità transnazionale di beni materiali ma di donne, uomini, stili di vita, anche attraverso l’intensificazione dei processi migratori. Questi determinano la formazione di realtà sociali e culturali sempre più plurali tanto che oggi la società multiculturale è un fenomeno globale che può sfociare in atteggiamenti xenofobi che, nota Beck (1997, trad.it. 1999, 113), non rappresentano necessariamente “il segno del fallimento dell’esperimento sociale multiculturale, ma forse dell’inizio di una nuova epoca sociale, nella quale forme di vita transnazionali, transculturali divengono la normalità”.

Lo si nota in diversi ambiti, dalla percezione globale del rischio, di cui si è parlato, figlia della consapevolezza sociale di un destino comune che si manifesta spesso in forma minacciosa (disastri ecologici, nucleari, povertà globale, esplosione demografica, ecc.), alla trasformazione di alcuni fenomeni un tempo tipicamente locali o tutt’al più interstatali, come la guerra, che oggi diventa globale anche nelle manifestazioni apparentemente più particolaristiche e interetniche, grazie a un popolo mondiale di spettatori che assistono alla rappresentazione dell’atto bellico elaborata dagli storyteller mass mediatici.

Ma cosa si intende veramente con l’espressione di ‘società mondiale’? Perché si è detto che essa rappresenta un fenomeno ‘politico’? In realtà, seguendo la logica tradizionale secondo cui non può esistere società senza Stato e la società diventa politica solo quando inserita entro una cornice istituzionale nazional-statale, è indubbio che quella che noi chiamiamo società mondiale non è altro che una forma sovversiva della politica così intesa. Ma in realtà lo stesso Beck (ibid., 125) ammette che sta proprio qui una delle più lampanti differenze tra prima e seconda modernità; non si tratterebbe tanto di un’altra epoca della società, ma di un’altra concezione della società.

Da tempo ormai si vive all’interno di una società mondiale, nel senso che la quasi totalità dei rapporti sociali si articolano in maniera non statale, consentendo esperienze esistenziali e di azione che oltrepassano ogni confine formale. Si dissolve insomma quel nesso inscindibile Stato-società-individuo che ha connotato la prima modernità determinandosi una società mondiale senza Stato mondiale quindi, se si vuole, non legittimata politicamente ma non per questo impolitica, anzi, alla costante ricerca di vie di legittimazione attraverso il pubblico consenso. 

Gli attori di questa nuova società sono vicini socialmente anche se distanti geograficamente, anche e soprattutto grazie alla potenzialità coesiva e mobilitante dei nuovi mezzi di comunicazione informatica; agiscono a livello transnazionale superando il principio territoriale dello Stato-nazione; essi sono attivi contemporaneamente in più Stati (vedi i militanti di Greenpeace o anche i partecipanti ai diversi Social forum mondiali), spesso con un’efficacia operativa che supera di gran lunga le capacità attuative espresse rispetto alle istanze nazional-statali. Essi, infine, si procurano una propria ‘sovranità inclusiva’ alleandosi periodicamente con Stati territoriali e contrastandone altri su questioni vertenziali di interesse sociale. Tanto più si rafforza la capacità organizzativa di questi settori della società mondiale tanto più viene condizionata e si indebolisce l’autorità degli Stati territoriali. Per questa ragione si afferma che la società mondiale rappresenta una nuova forma del politico; essa si politicizza depoliticizzando gli Stati senza per questo auspicandone la dissoluzione.

 

 

5. «Mondialismo» e dominio dei mercati

 

Se la ‘mondializzazione’ è un processo e la ‘mondialità’ è un fatto sociale, entrambe fenomeni irreversibili, il ‘mondialismo’ è l’ideologia del primato economico sul politico. Esso prefigura una società mondiale ridotta all’unica dimensione economica e al dominio transnazionale dei mercati. Gli attori principali di tale ideologia sono le moderne corporation multinazionali, ma essa ha sostenitori quasi ovunque anche paradossalmente tra i politici nazional-statali che in questo, nota Beck, agiscono da becchini di se stessi, ignari evidentemente degli effetti disgreganti di una simile ideologia anarchico-mercantile.

La società mondiale diventa società mondiale di mercato dove tutti e tutto, cultura, scienza, ambiente, individui, sono sottomessi al primato dell’economico e al profitto. In questo senso il mondialismo neoliberale è una particolare manifestazione politica che si esprime in modo apparentemente impolitico riducendo al minimo il ruolo dello Stato e le capacità normative della democrazia.

I processi di mondializzazione consentono alle imprese organizzate su scala planetaria di riconquistare un potere d’azione prima addomesticato dalle politiche nazionali convertite in Stato sociale. Rendono possibile ciò che il capitalismo è sempre stato in modo più o meno latente ma ingabbiato dallo schema socio-statale di controllo democratico.

L’economia globale governata dalle grandi multinazionali ha oggi il potere di sgretolare i fondamenti stessi delle economie nazionali. Già Marx, nel suo manifesto, riferendosi alla crisi degli antichi ordinamenti sociali affermava che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Oggi quest’area di dissolvenza è rappresentata dalla crisi dell’organizzazione del lavoro socio-statale, dall’incrostarsi dei privilegi burocratici e delle pressioni fiscali dello Stato. Ecco perché i processi di mondializzazione mirano ad incrinare ogni vincolo politico-sindacale degli Stati al suo libero dispiegarsi e lo fanno intervenendo nella struttura stessa delle moderne società nazionali senza bisogno di alcun mutamento legislativo.

Le nuove imprese dribblano i vincoli costituzionali degli Stati spostando posti di lavoro laddove il costo del lavoro è più basso, come nei paesi del terzo mondo, e dove le condizioni dei lavoratori non sono tutelate da alcuno statuto dei diritti. Esse, grazie alle capacità delle nuove tecnologie dell’informazione, possono dividere prodotti e servizi smembrandosi e spalmandosi geograficamente su tutto il globo terrestre, mantenendo un flebile legame con lo Stato d’origine rappresentato dalla semplice nazionalità formale del ‘marchio’. In questo modo, possono servirsi di uno o più Stati nazionali in modo da assicurarsi le condizioni fiscali più convenienti nella possibilità di distinguere tra luogo di investimento, luogo o luoghi di produzione, sede fiscale, e sede di residenza. Per intenderci, le moderne imprese multinazionali possono produrre in un paese, in genere a condizioni di sfruttamento allucinanti, pagare le tasse in un altro, dove le condizioni per il prelievo fiscale sono più vantaggiose, e richiedere contributi pubblici in un altro paese ancora, in forma di interventi infrastrutturali di sostegno all’economia. 

Addirittura, Nota Noreena Hertz (2001, trad.it. 2002), tra le cento maggiori economie del mondo cinquantuno sono multinazionali e solo quarantanove nazionali; la vendita di una grande azienda multinazionale come la General Motors può superare il Prodotto Interno Lordo dell’intera Africa sub-sahariana, mentre una catena di supermercati negli Usa può superare gli introiti di interi Stati, come la Polonia o l’Ungheria. In tutto ciò la politica dei governi nazionali, pressata dalle corporazioni con metodi leciti o illeciti, perde completamente il controllo degli eventi non riuscendo neanche a generalizzare alcuni criteri democratici di tutela dei consumatori.

 

 

6. La società mondiale in movimento

 

È proprio contro questi aspetti del globalismo liberista che da anni si scagliano diversi studiosi da varie parti del mondo (Burbach et al 1996; Sassen 1998; Flores Olea/Mariña Flores 1999; Hertz 2002) dando di fatto materiale teorico di confronto a quella fetta consistente della società civile mondiale che da alcuni anni ha dato vita al cosiddetto movimento «no-global», anche se sarebbe più corretto a questo punto definirlo «anti-globalista». Diversi studiosi hanno già subito il fascino di questo movimento inedito nelle forme e nelle modalità di espressione (Ceri 2002; Della Porta et al. 1999; Della Porta/Reiter 2002; Held/McGrew 2002; Smith/Johnson 2002).

Un movimento particolare per la sua eterogeneità interna che vede uniti nelle ragioni della piazza da esponenti della destra nazionalista e antimodernista (pochi a dire il vero) all’estrema sinistra anarchica o anarcoide, passando per i diversi movimenti del cattolicesimo di base, varie organizzazioni non governative, associazioni della sinistra democratica, le diverse anime del movimento ecologista, e così via. Diverso inoltre per la sua convinta transnazionalità: tale movimento, che non a caso è stato definito “movimento di movimenti” proprio ad indicare la poliedricità delle posizioni e degli interessi che vi si articolano agisce a livello mondiale avendo come obiettivi primari i grandi vertici internazionali indicati come momenti simbolici di conflitto contro un sistema antidemocratico.

Ecco allora che nel 2000 li si trova  a Colonia per il summit del G7, poi a Seattle in occasione del vertice dell’Organizzazione mondiale per il commercio, poi a Davos al Fondo economico mondiale, quindi a Waschignton e a Praga alla riunione di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, e così via anche nel 2001, ancora a Davos, poi a Cancun, a Napoli, a Quebec City, a Gotemborg, fino alle imponenti manifestazioni di Genova del 19-20-21 luglio in occasione del G8. Tutte manifestazioni caratterizzate da una dose elevata di violenza sia da parte di alcuni manifestanti che da parte delle forze dell’ordine, specie in Italia, dove le pressioni internazionali hanno imposto al Governo di centro-destra di attivare una Commissione parlamentare d’indagine sui fatti di Genova e sulla morte per mano di un carabiniere di un giovane manifestante di 23 anni.

Eppure il focalizzarsi sui soli momenti, peraltro minoritari, di violenza, sempre al centro della spesso macabra attenzione mediatica, rischia, come le stesse organizzazioni di movimento ammettono, di offuscare le ragioni vere di un movimento tanto innovativo, che coinvolge giovani e giovanissimi, in genere considerati parte di una generazione apatica e politicamente disinteressata. In realtà, come descrivono i dati di una ricerca recentemente anticipati dalla Della Porta (2002, 125), gran parte del movimento è consapevole, rispetto ad altri movimenti del passato, dei rischi legati all’uso della violenza di piazza optando quindi per metodi di protesta non violenta.

Circa il 90% dei manifestanti intervistati a Genova dichiara di non aver mai fatto uso di tattiche violente. Anzi, proprio a Genova, i gruppi organizzatori appartenenti al Genoa Social Forum hanno formalizzato in una sottoscrizione comune la propria posizione di rinuncia e rifiuto di strumenti di violenza offensiva, optando al limite per gesti simbolici e solo apparentemente violenti come alcune azioni di disobbedienza civile sul tipo del superamento della ‘zona rossa’ di protezione, considerata sintomatica dell’illegittimità del vertice. La violenza e il vandalismo sono invece espressi dai gruppuscoli legati al blocco nero che si trova ai margini del movimento accusato anzi di voler limitare, attraverso la scelta non violenta, le possibilità di radicalizzazione del conflitto.

Il movimento anti-globalista mette insieme soggetti diversi nella denuncia al pensiero dominante del capitalismo mondiale, contro lo strapotere delle multinazionali causa dell’impoverimento del terzo mondo (Klein 2001) e dell’inquinamento atmosferico. Si lotta dunque per un mondo solidale e per uno sviluppo sostenibile. Lungi dall’essere espressione della retorica antipoltica, il movimento globale esprime un forte bisogno di politica e di istituzioni sovra-nazionali e transnazionali che possano farsi garanti di un nuovo sistema di solidarietà diffusa senza più guerre e sfruttamento, promuovendo ‘quell’altro mondo possibile’ sovente invocato negli slogan di movimento.

Un movimento che, nella scelta innovativa dei social forum indica la propria predisposizione al confronto dialettico e alla discussione, come a indicare l’esigenza di una nuova agorà globale, quella tanto invocata arena pubblica dove la dimensione degli interessi privati entra in contatto e si integra con la dimensione pubblica dell’interesse generale, in uno spirito di fratellanza e solidarietà globale.

 

 

7. «Democrazia cosmopolitica» come utopia positiva di medio raggio

 

La presenza di una società civile globale pone però il problema della mondializzazione dei diritti e delle condizioni democratiche. Essa, si diceva, ha difficili possibilità di realizzazione in assenza di uno Stato mondiale, perché democrazia e conseguente tutela dei diritti di cittadinanza hanno sempre avuto bisogno di una cornice istituzionale che ne assicurasse il riconoscimento, facendosene garante. Oggi, sulla questione dei diritti umani concorrono e spesso confliggono diversi attori, dalle organizzazioni intergovernative alle delegazione dell’ONU, dai singoli Stati in collaborazione autonoma con altri alle tantissime ONG (organizzazioni non governative) che si occupano intensamente della questione, anche solo limitandosi a una funzione di forte condizionamento delle decisioni politiche.

Per risolvere la questione è possibile adottare un approccio per così dire realpolitico che si fonda sulla sovranità degli Stati e sulla convinzione che la questione dei diritti sia un fatto di competenza nazionale, dove le ONG possano al limite assumere un ruolo consultivo; oppure si può guardare al problema sotto una prospettiva internazionalistica, che in parte rappresenta uno sviluppo del primo approccio, dove gli Stati mantengono un ruolo centrale sotto il controllo però di un consenso transnazionale sulle norme dei diritti fondamentali in cui le ONG assumono una funzione di condizionamento decisiva; infine, è possibile adottare un approccio che David Held definisce cosmopolitico (1995; 2000), ponendo al centro dell’analisi non più gli Stati ma gli individui nel loro rapporto diretto con le organizzazioni internazionali e le ONG.

Held (1995, 271-283) parla espressamente di democrazia cosmopolitica dove l’ordine globale si articola in reti di potere multiple che intervengono globalmente su questioni come la salute, il benessere, la cultura, l’economia, in un contesto dove gruppi e organizzazioni godano di una discreta autonomia basata sui principi del diritto cosmopolitico democratico, enunciati per ogni campo d’azione della sfera sociale, politica, economica; questi principi sarebbero garantiti e legittimati da Parlamenti e Tribunali connessi a livello sopranazionale, sul tipo del Parlamento europeo e della Corte di Giustizia europea, con la naturale conseguenza di una parziale cessione di sovranità degli Stati a tali organismi.

Se lo Stato-nazione manifesta una continua vitalità, ciò non vuol dire che la struttura della sua sovranità non sia intaccata dall’intersezione di forze nazionali e internazionali. Held propone di riconsiderare il fine e la natura dell’autorità sovrana degli Stati osservando le disgiunture ‘interne’ ed ‘esterne’ tra il dominio formale degli Stati attraverso la loro rivendicazione di autorità, da un lato, e la pratica concreta che oggi dà struttura al sistema economico e degli Stati-nazione a livello regionale, nazionale e globale, dall’altro (2000, 319). A livello esterno, che è quello che consideriamo in questa sede, si rileva la frizione tra la pretesa degli Stati di determinare il proprio futuro e il sistema economico mondiale, oltre alle tante organizzazioni e istituzioni internazionali, che operano quotidianamente per condizionare l’attività dei singoli Stati nazionali. L’autore propone quattro disgiunture particolari:

 

·        la prima ha a che fare proprio con l’economia mondiale, intesa come tensione che si crea tra sistema di produzione e autorità statuale. In questo senso, due aspetti sono centrali: l’internazionalizzazione della produzione e l’internazionalizzazione dei movimenti finanziari organizzati dalle grandi multinazionali. Tali corporazioni economiche agiscono a livello planetario anche se traggono origine da solide basi nazionali. La mondializzazione delle relazioni economiche ha fortemente limitato la possibilità da parte delle istituzioni nazionali di predisporre sistemi di policies specifici in materia economica rendendo obsoleto in buona parte il sistema di organizzazione pubblica della produzione di stampo keynesiano. In questo senso si assiste a una marcata riduzione dell’autonomia degli Stati nel quotidiano svolgersi della loro funzione di controllo su un dato territorio;

·        la seconda disgiuntura analizzata da Held ha a che fare con il ruolo crescente delle organizzazioni internazionali che sono nate proprio per operare un controllo stretto su ogni attività transnazionale. Lo sviluppo di questi nuovi corpi istituzionali non può non incidere sul sistema di decision-making della politica mondiale. Si tratta di vere e proprie “internazionali” della politica che condizionano gli Stati su politiche specifiche, si pensi ad esempio alla Universal Postal Union, all’International Telecomunication Union, alla World Metereological Organization e altri organismi analoghi o addirittura ancora più influenti come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Unesco, l’Onu e la stessa Unione Europea;

·        La terza disgiuntura ha a che fare con il diritto internazionale ancora scarsamente incisivo ma che comunque sottomette alla propria influenza individui, Stati, ONG, raccogliendosi in genere all’interno di dichiarazioni generali sottoscritte dagli Stati, come la Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, stipulata nell’immediato dopoguerra, ma anche la successiva Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e le Libertà Fondamentali, e così via. Il diritto internazionale è composto dunque da un insieme vasto di norme o quasi-norme che gettano le basi per un sistema ordinato di cooperazione internazionale;

·        Infine abbiamo la quarta disgiuntura che Held (ibid, 325) chiama poteri egemonici e blocchi di potere che spesso colpiscono l’autonomia e l’integrità politico-decisionale degli Stati; si pensi ad esempio al conflitto storico USA/URSS e alle rispettive sfere di autorità internazionale sancite dal patto Atlantico, da un lato, e da quello di Varsavia, dall’altro, che hanno determinato la politica mondiale per oltre mezzo secolo; ma si pensi ancora oggi al preteso ruolo di leadership politico-militare mondiale degli Stati Uniti all’interno della Nato.

 

Held per ovviare alla natura potenzialmente frammentaria e antidemocratica di questi sviluppi propone di ricorrere al suo ‘modello federale di autonomia democratica’ (ibid, 327), dove il concetto di autonomia serve ad articolare la fondazione del consenso come principio di legittimazione e di limitazione del potere sovrano degli Stati. Il fatto che gli individui dovrebbero godere di eguali diritti e doveri implica necessariamente la condivisione di una comune struttura di azione che consenta loro di perseguire un progetto individuale e collettivo senza rischi di subalternità a una struttura di potere oppressiva e arbitraria.

Oggi perché questo si verifichi occorrerebbe un doppio processo, da un lato, di riforma del potere dello Stato, dall’altro, di ristrutturazione della società civile (Held 1989). Una sorta di doppio processo di democratizzazione che gira attorno al concetto di «autonomia democratica», ponendo l’enfasi sull’esaltazione del principio di autonomia nell’ambito di una carta dei diritti. Tale concetto di autonomia in un mondo globalizzato può essere implementato però solo attraverso la relazione tra reti di Stati e reti di organizzazioni della società civile. La questione dell’autonomia individuale oggi può essere posto solo prendendo in considerazione una serie di centri istituzionali che fungano come nodi di interconnessione di poteri e autorità. Chi oggi sceglie la democrazia come forma di governo non può non optare anche per l’operazionalizzazione di un sistema radicale di diritti saldato a una struttura complessa di potere intergovernativo e transnazionale.                 

L’analisi di Held, che per quanto particolarmente suggestiva, manca forse di realismo sociologico, nasce dalla valutazione comunque esatta che proprio nel momento in cui i diritti dell’uomo vengono posti al centro del dibattito internazionale, la democrazia come forma nazionale di organizzazione politica viene messa in discussione (2000, 310). L’autore, e in questo ci sentiamo di concordare con il suo pensiero, addebita la questione ai limiti della teoria moderna della sovranità democratica che presupporrebbe l’idea di una ‘comunità nazionale di destino’ che si autogoverna determinando il proprio futuro.

Tale modello entra inevitabilmente in crisi di fronte ai nuovi sviluppi delle interconnessioni politiche globali che producono un’articolazione delle decisioni politiche, sovente estendendosi (stretch) ben oltre le frontiere nazionali, stravolgendo dunque sia il concetto di ‘consenso’ che i due concetti conseguenti di ‘legittimità’ e ‘sovranità democratica’. Una nuova teoria politica deve necessariamente fare fronte alle dinamiche attivate da quella fitta rete di relazioni e comunicazioni transnazionali tra Stati, gruppi e individui che abbiamo definito con il termine di ‘mondializzazione’ e che, attraverso la crescita di organizzazioni e istituzioni sopranazionali, ha gettato le basi per un sistema di governance globale.

Si diceva che l’analisi di Held manca di realismo sociologico nel senso che l’autore, nel prefigurare un nuovo assetto istituzionale su scala planetaria, non fa i conti con l’egoismo degli Stati nazionali che difficilmente potrebbero accettare l’idea di derogare ad autorità superiori una parte tanto consistente del proprio potere, che si tratti dell’ONU, della Corte internazionale o di qualsiasi altro Corpo politico transnazionale. Ciò non toglie, comunque, che la sua ipotesi possa fungere da importante utopia positiva diversa dai tradizionali «senza-luogo» imbrigliati nella campana d’acciaio dei dogmi ideologici di un secolo passato. Si tratta di un’utopia di medio-raggio difficile da realizzare ma non impossibile, capace di orientare l’azione dei diversi attori, oggi immersi nel guado della società mondiale, nella direzione di un nuovo ordine politico transnazionale che si fondi su un sentimento rinnovato di solidarietà globale contro la ‘mano invisibile’ del mercato mondiale e lo strapotere individualistico delle multinazionali.

 

 

 

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