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SAGGI

 

 

 

Società civile e ordine sociale.

Delimitazione e armonizzazione di mercato, Stato e comunità*

 

di Clauss Offe

 

 

  

Ogni volta che parliamo di cambiamento sociale, giova precisare in quale dei suoi due principali significati si intende usare questo concetto; le scienze sociali hanno sempre analizzato il mutamento sociale da due angolazioni. In primo luogo, il cambiamento sociale (o ‘storico’) è visto come il risultato di una serie di forze cieche ed impersonali, di evoluzioni strutturali e di contraddizioni alle quali gli agenti sono esposti come degli oggetti, se non come vittime passive sulle cui teste il cambiamento ‘avviene’. Il cambiamento sociale di questo tipo consiste in tendenze (che vanno dal riscaldamento dell’atmosfera del pianeta ai mutevoli gusti dei consumatori) che non sono mai state iniziate da qualcuno né possono essere mai fermate da chicchessia. Secondo, esso è visto come qualcosa che è originato da iniziative volute e deliberate da agenti razionali per affrontare, singolarmente o collettivamente, bisogni e problemi che si incontrano nella vita politica, economica e sociale. Il mutamento, in questo  senso, è effettuato e ‘portato a compimento’ da agenti. Questa versione militante e finalizzata del concetto enfatizza il ruolo del soggetto, la cooperazione ed il perseguimento razionale di interessi e valori: sottolinea ‘il fare’ storia piuttosto che l’essere supinamente esposti a fatalità e forze storiche anonime.

Una sintesi di queste apparentemente inconciliabili modalità di pensare i cambiamenti sociali è classicamente suggerita da Karl Marx nel suo Il 18 Brumaio e negli scritti successivi sull’economia politica del capitalismo: le forze fatali del cambiamento storico1 di cui sono vittime gli uomini sono esse stesse causate e messe in moto dall’azione umana e dai suoi imprevisti e complessivi effetti collaterali. L’implicazione critica è che le manchevolezze dell’agire umano e del livello di razionalità ad esso sotteso sono le cause sia di queste forze fatali sia del fallimento dell’azione umana nell’affrontarle in modo sostenibile e con risultati positivi. Il sostegno teorico che collega i risultati fatali a tale cecità istituzionalmente necessitata e ad altre manchevolezze dell’agire umano è la teoria della crisi. Come è ben noto, Marx ed alcuni marxisti pensavano che le istituzioni che consentono i percorsi sbagliati dell’agire umano possono esse stesse essere cambiate attraverso un tipo molto speciale di azione: un agire concettualizzato nei termini di ‘rivoluzione’ e ‘lotta di classe’. Ma molte delle testimonianze accumulate nel corso del ventesimo secolo suggeriscono che gli esiti rivoluzionari dell’agire del secondo tipo soffrono della stessa cecità e manchevolezza che è avanzata contro le deficienze dell’agire del primo tipo.

Nonostante ciò, la problematica di come gli agenti sbagliano e di come l’agire possa essere rimodellato è ancora un tema centrale per molti teorici contemporanei della società, siano essi esponenti dei paradigmi ‘istituzionalisti’2 o della teoria dei giochi o della Scelta Razionale3. In questa tradizione di ricerca sociale e politica sono perseguiti due obiettivi fondamentali, uno di ordine pratico, l’altro di tipo normativo. Il primo è: quale è il legame tra particolari configurazioni di agenti (ad esempio quelli che troviamo nei mercati, nelle aziende, nelle relazioni internazionali) e particolari esiti del loro agire? Da ciò deriva la domanda normativa: quali cambiamenti nella configurazione degli agenti porterebbero a risultati superiori a quelli osservati alla luce di criteri valutativi come la pace, la sostenibilità o la giustizia sociale?

Questi sono i contorni di riferimento del dibattito contemporaneo sulla struttura istituzionale delle relazioni stato – società. In questa disamina delle suddette relazioni procederò come segue. Per prima cosa, riassumerò alcune traiettorie fondamentali del cambiamento sociale a cui tutti noi, quasi prescindendo dalla parte del mondo da cui proveniamo, siamo criticamente esposti . In secondo luogo, ho intenzione di adottare una modalità attiva, in luogo di una passiva, per esaminare non solo gli agenti (cioè i cittadini) ma anche le modalità di azione (cioè l’agire civico) che potrebbero affrontare e trasformare in esiti accettabili, o perfino auspicabili, le forze del cambiamento con cui dobbiamo confrontarci. Infine, basandomi sull’esame dell’agire civico, elencherò sei ragionamenti fuorvianti che devono essere evitati per permettere ai cittadini della società civile di conseguire una configurazione sufficientemente qualificata dell’agire.

 

 

1. Traiettorie attuali della transizione e del cambiamento

 

a) Democratizzazione. Permettetemi di cominciare ribadendo che il travolgente mutamento che ha avuto luogo negli ultimi venticinque anni su scala planetaria, e che ancora continua, è avvenuto nell’ordinamento politico o nella forma politica di governo di molte società. Regimi autoritari di vario tipo - dittature militari, regimi a socialismo di stato, regimi teocratici - si sono sbriciolati in maniera mai vista per dare spazio (almeno nominalmente) a democrazie liberali costituzionali. Queste sono all’incirca caratterizzate da uguali diritti di partecipazione politica per tutti i cittadini, dalla garanzia dei diritti civili e politici e dalla responsabilità delle élite di governo. Il fenomeno planetario della transizione di massa alla democrazia è stato alimentato da proponimenti ispirati dagli ideali della democrazia ed anche sollecitato da meccanismi causali. Prendiamo brevemente in considerazione ciascuno di questi fattori.

Quali sono state le ragioni che hanno spinto tante persone, élite e masse allo stesso modo, a rivendicare ed adottare qualche versione della forma di regime democratico? Che cosa induce a considerare ‘buona’ la democrazia e che cosa è capace di realizzare? Vengono in mente quattro risposte complessive. In primo luogo, vi è la conquista ‘liberale’ per cui i diritti e le libertà sono garantiti e vi è la chiara linea di demarcazione fra ciò che può essere subordinato all’esito del processo politico e ai conflitti di interessi che ne fanno parte e ciò che non può essere oggetto, o può esserlo solo in particolari circostanze, di tale conflitto poiché costituzionalmente garantito. Vale la pena notare che in una democrazia la maggior parte dei momenti di grande interesse per i cittadini (ad esempio, chi può esprimere che cosa e chi può possedere che cosa), in quanto garantiti costituzionalmente, non costituiscono normalmente un potenziale risultato dell’agire in base a decisioni collettive, seppure adottate a larga maggioranza. Come conseguenza del fatto che sia i diritti che le procedure sono in tal modo garantiti ed anche ipoteticamente attuati attraverso l’opera giornaliera del sistema giudiziario, le democrazie si avvantaggiano di un cambiamento graduale e di  un conflitto politico non violento, parziale e civile. Probabilmente è questo potenziale di civilizzazione proprio della forma di regime democratico ad attrarre prepotentemente i popoli che si sono liberati dagli orrori e dalle paure dei regimi precedenti.

Un secondo motivo dell’attrattiva normativa del regime democratico si trova nella sua realizzazione ‘internazionale’, normalmente espresso nell’ipotesi della ‘pace democratica’ che risale alla famosa formulazione del 1795 di Kant. Essa presuppone che le democrazie non faranno guerra ad altre democrazie4. In terzo luogo, la realizzazione del ‘progresso sociale’. Poiché la democrazia riposa sul potere della maggioranza e poiché normalmente la maggioranza è composta da coloro che non condividono privilegi economici e potere sociale e poiché il potere dello stato democratico è in realtà capace di alterare, sebbene vi siano limiti costituzionali, la dimensione e la distribuzione delle risorse economiche in modo più che marginale (ad esempio attraverso le politiche di crescita, la tassazione e la sicurezza sociale), la democrazia normalmente agirà al fine di servire gli interessi dei segmenti di popolazione meno privilegiati, promuovendo in tal modo i diritti ‘positivi’ o ‘sociali’ e più in generale lo sviluppo, la prosperità e la giustizia sociale.

Infine la realizzazione repubblicana della  trasformazione dei ‘ i sudditi’ in ‘cittadini’, cioè in persone capaci ed impegnate ad usare le loro risorse cognitive e morali, in modo deliberante ed intelligente, per la soluzione dei problemi politici secondo una logica di sapere collettivo ed anche eventualmente disposte a lottare per servire il ‘bene pubblico’. (…).

Nell’insieme, i risultati complessivi dei fattori contraddittori che sottostanno alla transizione di massa alla democrazia verificatasi nel corso dell’ultimo trentennio sono oggi spesso oggetto di commenti in un certo senso disincantati. Mentre la nuova ondata di democratizzazione ha virtualmente confermato ovunque l’ipotesi di pace democratica, non ha tuttavia corrisposto in modo consistente alle speranze di un’affidabile difesa di eguali diritti umani, civili e politici, di responsabilità dei gruppi dirigenti, di progresso economico, di giustizia sociale o di virtù civiche praticate dall’insieme dei cittadini. In particolare, non vi sono prove evidenti che la prosperità e la giustizia sociale (in qualsiasi delle sue varie accezioni) vengano promosse, allo stato delle cose, dalla democrazia5. Mentre il numero delle democrazie aumenta, la loro qualità sembra diminuire6 e ciò da origine a ben fondate critiche sulla degenerazione verso democrazie semplicemente ‘elettoralistiche’ o ‘delegate’7, se non verso democrazie del tutto difettose con ‘domini riservati’8, controllati come un privilegio da élite irresponsabili. In sintesi, si può affermare che la forma di regime democratico è un prerequisito indispensabile ma, evidentemente, non assicura automaticamente le qualità ad essa associate dai protagonisti della transizione alla democrazia.

b) ‘Globalizzazione’. Una spiegazione di questo variegato e spesso alquanto deludente esperimento delle transizioni democratiche proviene dall’indebolimento dello stato – nazione e delle sue capacità di governo. Si tratta del tema dell’interdipendenza globale (o, almeno, dell’interdipendenza macroregionale, come nel caso dell’Unione Europea). La condizione di intensificata connessione transnazionale modella i destini delle società, trascinando con se forze che pesano sulla vita economica e sociale e che vanno molto al di là del controllo anche delle più determinate élite politiche nazionali. Mentre i confini divengono permeabili e perforabili, la gamma di ciò che può essere collettivamente e realmente compiuto dalle forze politiche nazionali si restringe9, a causa della previsione delle dannose ripercussioni internazionali che qualsiasi ‘mossa sbagliata’ potrebbe provocare. Sembra che i confini abbiano perduto non solo la loro capacità di separare ma anche la capacità di proteggere e con essa, quindi, viene a mancare anche la possibilità di agire in modo efficace. I mezzi attraverso i quali la capacità di governo degli stati-nazione è stata parzialmente inficiata sono dovuti all’interdipendenza e la conseguente perdita di autarchia e autosufficienza può essere sintetizzata nella formula, da prendere non troppo seriamente, delle ‘sei M’: moneta, matematica, musica, migrazione, (forza) militare e meteorologia (o clima): 

La risposta classica alla minaccia di perdita della capacità di governo è l’integrazione sovranazionale e la formazione di regimi transnazionali: UE, ASEAN, NAFTA, MERCOSUR, come anche varie alleanze militari transnazionali e regimi di regolazione internazionale. Egualmente importante, tuttavia, sembra la risposta opposta alla evidente debolezza della capacità degli stati di controllare i loro destini: il rifugiarsi in unità minori, subnazionali. La globalizzazione, solo apparentemente in modo paradossale, comporta sollecitazioni a favore di comportamenti ‘da isolani’ ed a favore di una separazione subnazionale dei relativamente ricchi che, del tutto razionalmente dal loro punto di vista, lottano per difendere, sfruttare e proteggere i loro vantaggi competitivi locali o regionali, di preferenza attraverso la secessione e la costruzione di stati separati11 o almeno con forme di autonomia fiscale di ampio raggio, piuttosto che condividere i loro guadagni con le più ampie (e verosimilmente più vulnerabili) unità dello stato al quale essi appartengono.

Il poliedrico processo di globalizzazione, sommato alla duplice risposta trans e sub nazionale che esso suscita, equivale a due tipi di ‘notizie prevalentemente cattive’ riguardanti la giustizia distributiva. Una è quella che investe i paesi avanzati: si vede come la loro sicurezza sociale e l’andamento del mercato della forza lavoro siano insidiati dalla mobilità dei capitali verso i paesi del Sud con salari più bassi e si nota come una delle conseguenze sia l’accentuarsi dell’ineguaglianza sociale nei paesi sviluppati. Il fattore della mobilità è generalmente e drammaticamente rafforzato dalle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione. Troviamo anche una corrispondente cattiva notizia per i paesi più poveri e meno sviluppati economicamente: lo stile di vita e gli standard dell’Occidente che essi cercano di conquistare e di imitare costituiscono un bene di posizione che non può essere universalizzato, per ragioni ecologiche e di risorse. Poiché è ovvio che non tutti possano guadagnare il doppio del reddito medio, è evidente che il modo di vivere occidentale, di consumo e di trasporto, non può essere universalizzato a causa di limiti nelle risorse e nella sostenibilità ecologica. Ma poiché non vi è a disposizione un modello di alloggi, di trasporti e di consumi in grado di proporre un’alternativa accettabile alle modalità occidentali, le ineguaglianze della distribuzione si amplieranno ancora, perché  alcuni dei paesi non occidentali faranno in modo, con successo, di imitare l’Occidente nei suoi modelli mentre la maggior parte fallirà. Il risultato complessivo di entrambe queste due ‘cattive notizie’ è il seguente: mentre il numero dei possessori di automobili di lusso e di appartamenti con aria condizionata in ciò che era il Terzo Mondo aumenta, si accresce di altrettanto il numero di persone in cerca di cibo nei cassonetti dei rifiuti in ciò che era il Primo Mondo.

c)  Postmodernizzazione. Dopo aver accennato ad alcune delle traiettorie che guidano la transizione delle forme di governo, cioè la democratizzazione, e dell’economia, cioè la globalizzazione, mi sia lecito fare qualche breve accenno alla postmodernizzazione come alla forza che guida il cambiamento culturale.

Possono essere avanzate tre generalizzazioni riguardanti tanto il settore estetico quanto quello cognitivo e  politico – morale della cultura. In primo luogo, vi sono notevoli tendenze verso l’omogeneizzazione transnazionale della cultura. Il cinema, la musica, il vestire quotidiano, l’alimentazione e gli stili di vita stanno perdendo gran parte della loro individualità e dell’evidente radicamento nelle tradizioni regionali e nazionali tanto quanto l’inglese sta diventando la lingua globale: ciò è vero almeno per quanto riguarda i segmenti maschili ed urbani della società globale. Ma, in secondo luogo, si devono anche segnalare forti controtendenze che portano alla riscoperta ed al rinnovarsi di tradizioni locali, estetiche e religiose, che sono adottate come mezzo simbolico di resistenza all’uniformità della cultura globale e che danno origine a politiche culturali postmoderne di identità, di differenziazione e tribalismo. In terzo luogo, l’impulso morale e politico fornito dalle idee di liberazione, giustizia sociale e pace internazionale sembra aver perso molta della sua spinta propulsiva e del suo potenziale di mobilitazione politica. Ciò si applica particolarmente a qualsiasi nozione di progresso che comporti, come avveniva una volta, la teoria della modernizzazione liberale, il marxismo rivoluzionario o lo zelo missionario della cristianità: cioè, che implichi una nozione universalistica di fini desiderabili verso i quali la storia dovrebbe muoversi e potrebbe realmente essere mossa da agenti opportunamente costituiti e dalle loro strategie di cambiamento. Se si può ancora rintracciare qualcosa di questa nozione di progresso, nella misura in cui è sopravvissuta  a tutte le forze disgreganti del post-modernismo culturale, essa può essere ora così riformulata: il progresso è attualmente concepibile come il continuo evitare una ricaduta collettiva nella barbarie e in forme catastrofiche di de-civilizzazione.

 

 

2. Rinnovamento e progettazione delle relazioni tra stato, società e comunità.

  

Se queste sono le ambigue forze storiche, al loro interno intensamente contraddittorie, in cui l’agire politico è situato e con cui deve confrontarsi, il problema consiste nel delineare quali tipologie di istituzioni siano più adatte ad affrontarle. In tutta sicurezza, il nostro non è il problema di Lenin, come espresso nel suo famoso interrogativo ‘Che fare?’. Al contrario, il nostro problema può essere formulato riconoscendo una priorità logica alla domanda ‘Chi?’, cioè quale configurazione di agenti potrebbe essere affatto capace di realizzare ogni cosa che ‘debba essere fatta’. I quesiti di riforma istituzionale sono convenzionalmente formulati nei termini di quali settori della vita dovrebbero essere governati dalle autorità politiche, quali da scambi contrattuali di mercato o quali da comunità ed associazioni autogovernantesi e responsabili12. Per quanto riguarda questa ripartizione dei poteri, sempre oggetto di dispute, gli scienziati della società sulla base della loro specializzazione professionale hanno poche letture privilegiate da offrire. Nei casi migliori, essi possono elaborare, sulla base dell’osservazione empirica e dell’analisi dei meccanismi causali come anche della fattibilità e pregnanza delle valutazioni, alcune argomentazioni critiche che possano guidare la valutazione di questi problemi. È più ovvio ciò che si deve evitare di quanto lo sia ciò che si deve realmente fare. Le opzioni dei vecchi progetti sono obsolete, sia nel caso in cui siano già conosciute sia nel caso in cui lentamente si stia arrivando a comprenderle. Le opzioni dei vecchi progetti sono monistiche, poggiando sullo stato, il mercato o la comunità come garanti definitivi dell’ordine e della coesione sociale.

Le soluzioni più promettenti sono essenzialmente ‘impure’: non si può fare affidamento esclusivo su nessuno dei tre principi dell’ordine sociale ma a nessuno si può negare un qualche ruolo nel composito e complesso ‘mix’ di configurazioni istituzionali. Questi tre componenti settoriali dell’ordine sociale si trovano in una relazione precaria: da un lato, essi poggiano l’uno sull’altro poiché ciascuno dipende dal funzionamento degli altri due; dall’altro, la loro relazione è antagonistica poiché il predominio di uno  rischia di minare la vitalità degli altri due13.

Esaminiamo ora, di volta in volta, i tre componenti. Stato, mercato e comunità rappresentano modalità tipiche ideali in cui le persone vivono ed agiscono collettivamente, le modalità di coordinazione degli individui e delle loro azioni14. Ciascuno, per così dire, mette in funzione e poggia su una delle tre rilevanti abilità collettive attraverso le quali gli esseri umani possono forgiare il mondo sociale: ragione, interesse e passione.

Si può pensare allo stato, ed infatti i teorici del diciassettesimo secolo così facevano, come a una creazione della ragione umana, sia per quanto riguarda la sua esistenza attraverso un contratto razionale sia in funzione del suo operato quotidiano ‘razional-formale’ attraverso la norma burocratica (Weber). La ragione è intesa come la capacità degli individui di trovare e riconoscere ciò che è bene per tutti; in questo senso Hegel poteva persino equiparare lo stato alla ragione.

Il mercato, ovviamente, è spinto dall’interesse degli operatori finalizzato all’acquisizione di beni personali senza alcuna o ben poca considerazione di, o controllo su, ciò che il perseguimento di finalità di acquisizione comporterà per gli altri o per noi stessi nel futuro, sia in senso positivo (come la ricchezza delle nazioni è promossa da una ‘mano invisibile’) sia in senso negativo (con crisi, ingiustizie, conflitto sociale o danni ambientali quali risultato globale che, come la logica del mercato implica, nessuno è in grado di prevedere e di cui nessuno è responsabile).

Infine, vi è l’idea che l’ordine sociale presupponga, o ad ogni modo tragga beneficio, dai diritti e dai doveri che sono connessi ai membri delle concrete comunità di persone. L’amalgama che tiene uniti i membri di tale comunità è costituito dalle passioni umane (come amore, onore, orgoglio o senso di lealtà e legami di fedeltà). Da queste comunità, siano esse famiglie, gruppi religiosi oppure definite da tradizioni etniche condivise, noi deriviamo la nostra identità, il nostro senso di appartenenza e l’impegno verso un modello etico che informi i nostri progetti di vita.

Ciascuno di questi tre tipi di capacità umane, generando modelli corrispondenti di ordine sociale, si specializza nel massimizzare un valore distintivo. Questo valore è l’eguaglianza dello status legale, comprendente diritti e doveri, nel caso degli stati, la libertà di scelta nel caso dei mercati e l’identità e la sua preservazione (attraverso l’impegno, la solidarietà e la lealtà) nel caso delle comunità. Mentre la giustizia è considerata importante in tutti e tre questi modelli d’ordine sociale, il suo significato operativo differisce in modo rilevante15. Nel caso degli stati moderni il segno distintivo della giustizia sta nell’estensione con cui i diritti, il più delle volte diritti uguali di tutti i cittadini, sanciti da una costituzione e dalla norma di un principio legale, sono difesi e garantiti dai poteri dello stato. La giustizia del mercato, al contrario, enfatizza il diritto dei soci delle transazioni di mercato ad ottenere ciò su cui si è concordato tra di loro in contratti stipulati volontariamente, cioè ad ottenere ciò che è dovuto sulla base degli accordi contrattuali. Infine, la giustizia per la comunità è uno standard definito secondo i criteri del bisogno riconosciuto. Gli esponenti di una comunità sono tenuti, in nome della giustizia specifica di quella comunità, ad attivarsi nell’assistenza dei membri bisognosi anche se essi in nessun modo si sono ‘guadagnato’ il diritto a questa assistenza attraverso contributi da essi effettuati o attraverso il titolo legale loro attribuito dalle autorità statali; è il gruppo che decide, secondo i propri parametri e le proprie tradizioni, chi si trova nel legittimo bisogno e di che cosa necessita.

Ciò che questa breve esercitazione sugli elementi di base della sociologia può aiutarci a capire è la verità di due proposizioni. Primo, i provvedimenti istituzionali per la stabilità e l’ordine sociale non possono poggiare su uno solo di questi modelli: stato, mercato, comunità. Qualsiasi progetto istituzionale ‘monistico’ tende ad ignorare (a livello teorico) e a distruggere (nelle sue implicazioni concrete) i contributi che gli altri due componenti dell’ordine sociale devono realizzare. Secondo, esso non può neanche contare su una combinazione di qualcuno dei due modelli (escludendo, cioè, il terzo), sia esso una sintesi di stato – mercato, di comunità – stato, o di mercato – comunità: abbiamo bisogno di tutte e tre i fondamenti dell’ordine sociale e in una percentuale che impedisca loro di indebolirsi a vicenda16. Il problema di escogitare istituzioni appropriate consiste nel conservare un distacco opportuno dall’estremismo di soluzioni ‘pure’ e contemporaneamente nell’evitare un uso ‘troppo ridotto’ di qualsiasi componente. Questa demarcazione delle componenti dell’ordine sociale, questa correzione, conservazione ed armonizzazione dell’insieme nei limiti di un equilibrio complesso è ciò di cui, io penso, si deve occupare la società civile. (…).

Tuttavia, se la progettazione delle istituzioni non può più essere realizzata da filosofi ed ideologi, ne segue una sorta di contrario, nel senso che il ruolo fondamentale della progettazione e della preservazione dell’ordine sociale deve, in un’epoca che ha superato gli schemi degli ideologi, risiedere nei cittadini stessi e nelle loro associazioni civiche. In un mondo istituzionale essenzialmente ‘mixed’, noi abbiamo bisogno di un giudizio pubblico informato e di un impegno civico deliberante piuttosto che della conoscenza autoritaria degli esperti. Non vi è la necessità di sottolineare che tale capacità di giudizio si produrrà sempre come risultato di forti conflitti d’interesse, di ideologie ed identità che la forma di regime democratica è capace di far emergere ed attuare in forme civili. Sembra che, attualmente, sia gli egalitari socialstatalisti sia i comunitari socialconservatori siano arrivati a riconoscere e a prendere atto del bisogno di autolimitare l’applicazione degli originari principi guida dell’ordine sociale; tuttavia la maggior parte dei sostenitori del mercato libero stanno restando indietro nella capacità di riflettere sul bisogno di relativizzare il proprio credo. Molti di questi devono ancora superare la loro superficiale fede, spesso quasi “rivoluzionaria”, nel potenziale salutare del togliere, sempre più e con sempre minori scrupoli, il guinzaglio alle forze del mercato. (…).

 

 

3.  Sei ragionamenti erronei

 

Se noi continuiamo a seguire un’idea di ‘mix civico’ in sviluppo dei diversi elementi dell’ordine sociale, opposta all’imposizione sostenuta da un’élite di uno solo fra questi elementi, giungiamo ad una lista di sei approcci patologici o errori per la costruzione delle istituzioni politiche e sociali. Tre derivano dalla fiducia semplicistica in ciascuno dei tre grandi blocchi da costruzione e gli altri tre dalla premessa che qualcuno di essi possa essere completamente tralasciato nell’architettura dell’ordine sociale. Mi preme aggiungere che tali diversi errori probabilmente differiranno per la gravità della loro influenza e per la frequenza con la quale si manifesteranno nell’attuale Zeitgeist. A dispetto di tali differenze nella gravità e nella frequenza, permettetemi di esaminare brevemente ciascuno dei sei errori.

a) L’errore dello statalismo estremo. Potrebbe sembrare che, dopo lo sfacelo del socialismo di stato che regnava nell’impero sovietico così come dopo il collasso, nel corso degli anni ’80, di gran parte dell’egemonia intellettuale del keynesismo, l’ortodossia di uno statalismo estremo sia diventata una calamità decisamente inverosimile. L’insuccesso del socialismo di stato ha reso obsoleto un modello di protezione assolutista e statalista e di dirigismo produttivista, lasciando dietro di sé in molte fra le società post-socialiste il forte desiderio di ‘un’economia di mercato senza aggettivi’. (Tale è la ricetta dell’ex primo ministro cecoslovacco Vaclav Klaus che propose di evitare che l’economia di mercato si caratterizzasse come ‘sociale’).

In ogni caso, appare molto importante ricordare la differenza tra un grande stato (in termini di bilancio o di numero degli impiegati statali) e uno stato forte, per esempio uno stato il cui governo ha un’influenza significativa sul livello e sulla distribuzione delle chances di vita nella società civile18. Può ben accadere che uno stato sia allo stesso tempo troppo grande ed anche inefficace e che perciò i beni che produce non siano beni pubblici ma beni categoriali (o di ‘club’) goduti dalla così detta ‘borghesia di stato’, che può manifestarsi tanto in una versione militare quanto in una versione civile. In ogni caso, stati ‘grandi’ spesso pretendono di essere anche stati ‘forti’. Invece di servire in qualche modo la società civile, essi esercitano un controllo oligarchico sui suoi attori. C’è un dibattito in corso nelle società avanzate su quali sfere della vita e quali provvedimenti riguardanti la collettività dovrebbero essere adottati o mantenuti dalle autorità statali, oppure abbandonati e trasferiti ai mercati o alle comunità.

Un robusto antidoto alla patologia della fiducia nello stato ‘forte’ (o piuttosto ‘grande’) è esaminare a fondo se le pratiche di governo attualmente in vigore siano all’altezza della versione statale dell’ideale di giustizia, cioè dell’eguaglianza delle opportunità legalmente garantita19. L’eguale godimento da parte dei cittadini delle forniture di elementi basilari quali l’accesso ai tribunali, la tutela legale, la fornitura dei servizi sanitari, dell’istruzione, delle abitazioni e del trasporto è accresciuto in modo dimostrabile da un incremento marginale della capacità dello Stato? O si può ipotizzare che lo stesso obiettivo potrebbe meglio essere raggiunto con una diminuzione marginale nel peso dell’apparato statale? Se le cose stanno così, potremmo anche ottenere ‘di più con meno’. L’onere della dimostrazione nel rispondere a queste questioni deve spettare a chi parteggia per una maggiore spesa statale e per l’occupazione nel settore pubblico.

Si deve concedere ai critici liberali del governo ‘grande’ che uno statalismo eccessivo spesso instilla tendenze alla dipendenza, all’inattività, alla ricerca di rendite, alla lungaggine burocratica, al clientelismo, all’autoritarismo, al cinismo, all’irresponsabilità fiscale, alla fuga dalle responsabilità, alla mancanza di iniziativa, e all’ostilità all’innovazione se non direttamente alla corruzione - e ciò su entrambi i lati della demarcazione amministrazione-cliente. Per frenare queste tentazioni, connaturate a responsabilità dello Stato e delle autorità pubbliche nel caso in cui esse siano particolarmente ipertrofiche, si deve irrealisticamente presumere un ethos e un impegno, oltre ad una competenza professionale del personale statale, altamente sviluppati. Tutte queste considerazioni tendono ad essere messe da parte indebitamente da coloro i quali (con tutta evidenza in rapido declino) ancora credono che maggiori spese statali e maggiore occupazione nel settore pubblico siano necessarie e che effettivamente contribuiranno a migliorare la produzione ed a ripartire più equamente i beni pubblici.

b) L’errore di una capacità di governo ‘troppo piccola’. Dovremmo comunque prestare eguale attenzione alle patologie che iniziano a manifestarsi quando lo stato si ‘inaridisce progressivamente’ sotto l’assalto di forze politiche libertarie o sotto l’impatto di severe crisi fiscali. Allo stato, come tutti sappiamo, è richiesto come minimo di proteggere la vita, la proprietà e la libertà dei cittadini, dando per scontato che, nelle società moderne, la maggioranza dei cittadini  che offrono il loro lavoro sul mercato non vedranno mai protetta la loro ‘proprietà’ (cioè la loro forza-lavoro) né la loro libertà in mancanza di un’organizzazione statale della sicurezza sociale, di una legislazione sul lavoro individuale e collettivo, di abitazioni, di formazione professionale e di istruzione. Il mercato del lavoro, in assenza di tali servizi e della certezza dello stato di diritto che associamo al moderno welfare state, regredirebbe a ciò che Polany (citando Blake) aveva definito un ‘macchinario diabolico’. Analogamente, i mercati delle risorse finanziarie, dei beni e dei servizi non potrebbero essersi affermati o, una volta in vita, continuare ad esistere senza la costante produzione e correzione delle norme del diritto civile, come anche senza l’applicazione di tali norme, garantita ed organizzata dallo stato attraverso il sistema giudiziario e all’interno dei vincoli posti dal governo della legge; per non menzionare poi le politiche industriali ‘mirate’ che puntano alla crescita di particolari settori dell’industria. Gran parte di quanto affermato riguarda anche la protezione della ‘vita’ che gli stati devono assicurare con la difesa militare, ed anche la fornitura dei servizi sanitari di base e la protezione dei cittadini dalla violenza ‘civile’ commessa contro di loro da altri cittadini e, a fortiori, dagli stessi rappresentanti dello stato. Gli stati, per realizzare tutte queste funzioni essenziali, devono pur essere in grado di ottenere le risorse necessarie per il loro adempimento, attraverso un regime di tassazione20 che è, ed è percepito, giusto e positivo. Una riforma dello stato che punti al rinnovamento della sua fatiscente capacità, sia nel mondo avanzato che in America Latina, è attualmente considerata come tema centrale della politica interna21. Ad oggi si sono diagnosticate deficienze nelle realizzazioni statali in relazione a tutti gli aspetti appena citati: protezione sociale, diritto civile, legge e ordine nonché il potere di prelevare le tasse. Se vi è una minaccia, tuttavia, a noi sembra risiedere più nella patologia di gravi carenze statali che nell’ipertrofia dello stato, sebbene i liberali sostenitori del mercato sottolineino continuamente quest’ultima: con più precisione, è forse opportuno sostenere che soffriamo del malessere giustapposto di uno stato insieme ipertrofico ed inefficiente.

c) L’errore di una fiducia eccessiva nei meccanismi del mercato. I mercati, cioè l’allocazione competitiva sia dei fattori che dei risultati della produzione mediati dai segnali dei prezzi, sono configurazioni istituzionali molto particolari. I mercati, a quanto si dice, rispondono ai desideri individuali espressi dalla domanda reale. Tuttavia è ben documentato che anche i risultati individuali, realizzati sul mercato e altamente propizi, non contribuiscano molto alla soddisfazione dei desideri della gente22. Questo perché, ad eccezione di categorie di reddito molto basse, la soddisfazione di vita e la percezione della propria felicità sono solo molto debolmente correlate con la crescita nei redditi di mercato e con la conseguente domanda effettiva in termini di beni e servizi che tale reddito consente di appagare. Più alti sono i redditi, meno essi sono ricercati per la soddisfazione di bisogni diversi  dalla necessità –  questa sì interamente provocata dal mercato e percepita quindi come negativa – di evitare una relativa perdita di reddito. Pochi sarebbero in disaccordo sul fatto che desideri non mercificabili rivestano un ruolo in una complessiva soddisfazione di vita, includendo presumibilmente la soddisfazione che deriva dalla percezione di vivere in una società giusta. Ancora, si ritiene che il mercato premi l’efficienza; ciò a patto che i vantaggi dati dalla competizione siano il risultato di un premio per i migliori metodi di produzione o semplicemente per i migliori prodotti, piuttosto che come un premio per i migliori metodi di evadere le tasse, di imbrogliare i consumatori o di scaricare parte dei costi di produzione sul bilancio statale o generalmente pubblico. Ma l’efficienza è presa in considerazione quasi esclusivamente in un ambiente, cioè il mercato, dove la pigrizia è punita. Questa è una delle ragioni per cui il mercato è stato paragonato ad una ‘prigione’ in cui siamo costretti a svolgere attività che sono sconnesse dai nostri bisogni, mentre al contrario veniamo ostacolati nel realizzare quelle attività che ad essi corrispondono23. Eccettuati i mercati, non vi è traccia altrove di un valore assoluto ed incontestabile attribuito ad una maggiore efficienza: le società non di mercato, in realtà, si sono sostenute per secoli senza alcuna rilevante crescita di efficienza. I mercati premiano quei risultati che sono considerati superiori in termini di efficienza. È importante rimarcare la logica circolare dei mercati perché, in questo caso, saremo meno colpiti dall’abituale argomentazione secondo cui le configurazioni di mercato sono preferibili ad altre poiché assicurano una maggiore efficienza: tale argomentazione appare potenzialmente tanto efficace quanto l’asserzione per cui gli alberi di ciliegio sono preferibili a tutti gli altri alberi perché producono ciliegie.   

Si suppone, inoltre, che i mercati ‘liberino’. Ma le stesse condizioni, molto speciali, che rendono tollerabile il mercato del lavoro come configurazione sociale24, cioè i diritti sociali dei lavoratori e la regolazione protettiva del posto di lavoro (cui ci si riferisce in breve con l’espressione ‘demercificazione’), impediscono la liberalizzazione del mercato del lavoro ed escludono un crescente numero di potenziali lavoratori dalla possibilità di diventarlo veramente, in particolare dopo che il livello di efficienza produttiva è stato elevato attraverso una trasformazione tecnologica ‘labor-saving’. Comunque, tale esclusione dal lavoro, provocata dal mercato, è una delle maggiori cause riconosciute del declino della soddisfazione di vita e della percezione della propria felicità.

È noto, inoltre, un ulteriore aspetto dell’autodistruttività dei mercati. Quando essi vengono lasciati a se stessi, gli attori razionali cospireranno, al fine di accrescere i propri profitti, per sfuggire alla minaccia che proviene dagli altri concorrenti, formando cartelli o monopoli e sovvertendo così l’ideale di ‘libertà di scelta’ nel cui nome i mercati vengono spesso difesi. In altre parole, non vi sono ragioni per supporre che i mercati, una volta in moto, rimangano concorrenziali in assenza di alcuni agenti non di mercato che facciano rispettare la competitività. Per di più, i mercati sono noti per essere sordi e ciechi: sordi alle attuali esternalità negative di cui sono la causa, ad esempio quelle di tipo ambientale, ed anche ciechi verso le conseguenze di lungo periodo che le transazioni di mercato comportano per chi ne è coinvolto.

Infine, non solo i mercati sono decisamente privi di un meccanismo autoriproduttivo poiché tendono costantemente a trasformarsi in accordi di potere monopolistico, ma necessitano anche di un meccanismo di controllo. Poiché essi non dispongono di una modalità per distinguere tra ciò che è ‘commerciabile’ e ciò che non lo è, tendono ad invadere l’intero universo della vita sociale e a mercificare ogni cosa, a meno che la distinzione sia loro imposta ancora una volta dall’esterno attraverso un’interdizione legale sulla ‘commerciabilità’ (ad esempio, con alcuni limiti, delle droghe che danno assuefazione o della prostituzione) e/o attraverso standard di buon gusto e di comportamenti appropriati che l’etica delle comunità instaura ed impone. Vi è qualcosa di ironico nel constatare come i sostenitori del mercato, fiduciosi come sono nella competizione e nella libertà di scelta da esso garantita, siano tendenzialmente riluttanti nel valutare con equità la legittimità di una competizione di secondo livello tra il mercato e altri metodi di produzione e di distribuzione di articoli importanti. (…).

Poiché i mercati sono strutturalmente intolleranti verso metodi diversi di produzione ed allocazione di articoli importanti, essi possono causare ciò che è stata chiamata una ‘trappola al minimo livello’. Paesi come gli USA, in cui le forme di forniture private e commerciali sono ampiamente considerate come la risposta usuale alle condizioni di bisogno sociale e dove qualsiasi espansione del bilancio statale e federale è abitualmente vista con allarme, sono proprio quei paesi dove i provvedimenti complementari statali del welfare, nella loro assai limitata estensione, sono distrutti più facilmente – il che costituisce una generalizzazione piuttosto paradossale: più ridotto è il welfare state, più precari e vulnerabili sono i  suoi provvedimenti residui e più facilmente risulterà frustrato ogni tentativo di sua espansione25.

Considerate tutte queste caratteristiche del mercato e dei suoi dispositivi, difficilmente si può invocare un suo contributo eccezionale ed incontrovertibile all’ordine sociale. Al contrario, il mercato è stato giustamente considerato, da Marx a Schumpeter ed oltre, come un modello ‘anarchico’, ‘sovversivo’, ‘rivoluzionario’ e disgregante le configurazioni sociali. Il contributo del mercato alla creazione dell’ordine sociale, al massimo, è strettamente contingente, nel suo essere saldamente circoscritto in vincoli, costrizioni, controlli, limiti, diritti sociali e norme sociali informali imposte dall’esterno, sia dallo stato che dalla comunità.

d) L’errore di un’eccessiva restrizione alle forze del mercato. Ciò nondimeno e come nel caso di molte sostanze velenose, i mercati risultano indispensabili come potenti medicine se somministrati in dosi ragionevoli. Tale è  il caso di mercati vincolati e controllati in maniera appropriata. Un’interdizione ideologica dei meccanismi di mercato da ogni sfera della vita sociale potrebbe privarci delle salutari funzioni che essi possono realizzare. Sebbene oggi questa scomunica sia raramente suggerita, è tuttora utile ricordare per un momento ciò che i mercati sono in grado di fare. Quattro punti vengono in mente. In primo luogo, lo scambio di mercato, se opportunamente diretto e controllato, è generalmente pacifico e non-violento, come erano ben consapevoli gli economisti politici del diciottesimo secolo quando lodavano le virtù del doux commerce26. Mentre tale difesa ‘pacifista’ dei mercati ove applicata alla storia del ventesimo secolo, con la sua esperienza di conquista e difesa dei mercati attraverso potenze imperialiste, potrebbe ben essere messa in discussione, essa conserva gran parte della sua validità ad un livello microeconomico. Coloro che si considerano l’un l’altro come attuali o potenziali attori nello scambio di mercato hanno normalmente poche ragioni per prendersi alla gola. Al contrario, essi possono anche sviluppare una certa ‘simpatia’, come Adam Smith osservò per primo, l’uno per l’altro. Ciò avviene poiché gli esiti del mercato, cioè le condizioni del commercio dei fattori della produzione e dei prodotti (ad esempio, il reddito guadagnato per ogni ora di lavoro), non possono essere credibilmente attribuiti alle intenzioni ostili di alcun attore ma sono dovuti a qualche anonima causalità in base alla quale ‘Io non ho nessuno da biasimare tranne “me stesso”’. I mercati sono  ambienti di apprendimento che favoriscono l’auto attribuzione sia degli esiti propizi che di quelli sfavorevoli e che, come conseguenza, sviluppano una struttura cognitiva responsabile.

Un ulteriore effetto formativo del ‘curriculum nascosto’ dei mercati risiede nel favorire l’apprendimento. Si è asserito che i mercati, attraverso la loro continua imposizione di sanzioni negative e positive sui partecipanti alle transazioni, rendano le persone più intelligenti di quanto potrebbero esserlo al di fuori di simili contesti. Ma si deve precisare che tale affermazione è valida solo nel caso in cui le ricompense positive e negative si materializzino in forma di guadagni o perdite relativamente moderate. Al contrario, se le ricompense si trasformano in salti quantitativi, le persone smettono di imparare ed iniziano o a confondere il mercato con una lotteria27 (nel caso di grandi guadagni che non possono essere giustificati con un comportamento prudente da parte del beneficiario) oppure a reagire fatalisticamente in preda al panico nel caso di ‘enormi’ perdite, le cui disastrose proporzioni superino la capacità individuale di intelligente correzione28. Infine, il mercato ha un forte potenziale di liberazione, poiché permette al proprietario di risorse smerciabili di sfuggire al controllo sia delle comunità che delle burocrazie statali29. Nella misura in cui si può dimostrare che i mercati possano effettivamente riscattare il loro spirito potenziale di interazione pacifica e civilizzata, di responsabilità, di intelligente correzione, e di liberazione dal controllo di poteri autoritari e paternalistici, allora sicuramente essi possono non essere abbandonati come componenti elementari ed essenziali della struttura istituzionale della vita sociale.

e) L’errore di un comunitarismo eccessivo. Una potente rappresentazione delle realtà attuali è il multiculturalismo. Questa dottrina del post-modernismo politico tende a codificare le persone non attraverso la cittadinanza ma ricorrendo all’‘identità’. Viene posta in evidenza una ‘politica della differenza’, differenza non sempre concepita come un ponte o una riconciliazione con i comuni interessi nazionali, civici o di classe. Essa risponde al fenomeno di massa, sia attuale che storico, di migrazioni trans-nazionali volontarie ma anche coatte. Nell’Occidente Nord-Atlantico, la politica della differenza e dell’identità è una risposta filosofica all’esteso disincanto verso le costruzioni dell’individualismo liberale e del concomitante universalismo socialista. Per diventare consapevoli di se stessi, si devono scoprire, riconoscere e coltivare le specifiche ‘radici’ che ci legano alla nostra famiglia di origine ed, inoltre, alle comunità etniche, linguistiche e religiose nonché alle loro forme di vita. Il femminismo ha prodotto un’ulteriore topografia cognitiva che pone in evidenza le identità di genere mentre la ‘politica del corpo’ (età, cibo, stato di salute, orientamento sessuale) è invocata nella costruzione di una differenza fondata su preferenze, abitudini e caratteristiche fisiche30.

Seguendo il modello di diritti di gruppo riconosciuti agli Afroamericani in virtù delle durevoli discriminazioni verso i loro diritti di cittadinanza e le loro chances di vita, la politica dell’identità è diventata una vasta strategia imitata da ‘gruppi’ autonominatisi tali per accedere a privilegi culturali o di altro genere. Allo stesso modo assistiamo, nei paesi post-comunisti, ad una drammatica crescita di una politica dell’identità etnica, religiosa e linguistica e di un nazionalismo etnico che non si limita, nella sua potenzialità violentemente separatista, al mondo post-comunista; l’Irlanda del Nord e i Paesi Baschi, e non soltanto la Cecenia o la Bosnia, mostrano il potenziale di terrore ed orrore insito nella politica dell’identità. Le dottrine del nazionalismo etnico, in Oriente come in Occidente, hanno raramente mancato di rivelare tendenze repressive e minacciose che si scontrano con i ‘cittadini dissidenti’ e con i diritti civili e politici degli ‘stranieri’. La politica comunitaristica dell’identità e della differenza, anche nelle sue vesti più benigne (come nel Quebec), tende ad essere esclusiva, anti-egualitaria, notoriamente restia a riconciliarsi con i principi civici di imparzialità e di tolleranza e ‘daltonica’ al colore della pelle. Pure nel caso in cui la chiusura non sia completa, l’enfasi posta sull’ascrittività e sulla solidarietà di gruppo infrange i modelli egualitari a causa del fatto che non tutti fanno realmente parte oppure si identificano con un gruppo così definito. Anche coloro che condividono caratteristiche ‘ascrittive’ che presumibilmente formano un ‘gruppo’ possono desiderare di ‘distaccarsi’ dalle sue reti di solidarietà a causa dei modelli spesso autoritari e paternalistici che tali gruppi quasi tribali tendono a sviluppare.

Le tensioni esistenti tra politica dell’identità e principi della cittadinanza egualitaria possono essere chiarite dalle particolari difficoltà incontrate, rispetto alla composizione del conflitto di classe, dal tentativo di una civile soluzione di conflitti identitari31. L’identità, o la veemente identificazione con qualche comunità, è quasi per definizione inalienabile e non  negoziabile. Mentre il conflitto di classe è posto in essere da attori collettivi che, seppure tanto asimmetricamente, dipendono l’uno dall’altro e che per tale ragione condividono, almeno implicitamente, un certo interesse al benessere dei loro avversari, i protagonisti dei conflitti identitari, almeno nelle loro versioni più radicali, tendono a considerare i non appartenenti come persone la cui stessa assenza dalla nostra ‘comunità’ o dal nostro territorio nazionale costituisce la condizione per la soddisfazione delle ‘nostre’ aspirazioni alla ‘purezza’ – aspirazioni che anche troppo spesso hanno condotto alla pratica e alla giustificazione della pulizia etnica.

f)  L’errore di trascurare le comunità e le identità. Ma, d’altra parte, questo è solo un aspetto della discussione. D’altro canto, è stato sostenuto con una certa plausibilità che le comunità e le identità in cui ‘siamo nati e radicati’ sono le fonti più efficaci delle nostre capacità e dei nostri impegni morali. Le comunità così come le famiglie, le associazioni religiose e le nazioni etnicamente omogenee forniscono agli individui la capacità di darsi un senso e un obiettivo, così come assicurano la trasmissione di tutti i sentimenti di orgoglio, fede, amore, colpa, onore, responsabilità ecc. che possono forse essere acquisiti soltanto nelle comunità: esse svolgono, così, un ruolo importante ed eccezionale nella riproduzione delle tradizioni culturali e dei valori morali. Solo le comunità sono in grado di produrre, o almeno così sostengono le argomentazioni comunitarie, individui ‘forti’ che siano capaci di essere ritenuti responsabili dei loro pensieri e delle loro azioni contrariamente agli opportunisti privi di spina dorsale. E questo non è il solo ed unico contributo, degno di riconoscimento e tutela attraverso le politiche statali, che esse possono presumibilmente offrire alla soluzione dei problemi dell’ordine e dell’integrazione sociale. Le comunità sono meritevoli anche perché esse, quasi come riserve genetiche e culturali della società, non possono essere costruite o prodotte artificialmente. La necessità di proteggere le culture comunitarie si manifesta in particolare, o così si sostiene, nel caso in cui esse siano considerate esposte ad una minaccia di estinzione derivante dalla modernizzazione delle forze politiche o di mercato.

In ogni caso, è dimostrato con particolare evidenza che le collettività ‘ascrittive’, fondate su identità etniche, territoriali, regionali, di genere e di età e su altre identità di cui ‘alla nascita’ sono dotate le persone, hanno fornito le energie morali che hanno spinto innovazioni collettive e progressi politici e sociali. La stessa cosa può essere affermata in relazione ad identità, meno ‘ascrittive’ ma tuttora relativamente stabili, fondate su appartenenze a comunità locali o a categorie professionali32: i nuovi movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 ne sono un esempio33. In molti luoghi, i movimenti studenteschi, femminili e di minoranze etniche o razziali così come le comunità locali sono stati gli iniziali promotori dei diritti civili e di una acuta consapevolezza morale e politica relativa ai temi dell’emancipazione, della tolleranza, della giustizia sociale e delle preoccupazioni ecologiche e ambientali. Accordare e garantire il dovuto spazio per l’azione politica e sociale di queste comunità e promuovere le loro pratiche associative (piuttosto che snaturarle con un’azione statale paternalista e/o repressiva) dovrebbe perciò apparire come la necessaria premessa per un’ulteriore, collettiva e benefica utilizzazione di tali forze e modalità di azione.

 

 

4. Conclusioni

 

Le tre antinomie dell’ordine sociale e politico che ho affrontato non devono essere risolte con grandiosi sistemi che tanto i filosofi che gli ideologi politici potrebbero avanzare. Ciò che ci rimane è un insieme di riflessioni ed osservazioni, parzialmente complementari e parzialmente contraddittorie, che possono essere avanzate per sostenere la critica e la ricostruzione delle attuali configurazioni istituzionali. Non esistono  relazioni stato-società e istituzioni totalmente ‘razionali’. Queste antinomie e rivalità ideologiche, al contrario, devono (e, credo, possano) essere risolte attraverso prassi di civiltà e deliberazione che dischiudano i vertici del nostro triangolo concettuale di ‘pure’, anche se ampiamente obsolete, soluzioni.

Le tre forze, o alternative per la costruzione istituzionale, che ho qui trattato in una maniera piuttosto schematica tendono ad escludersi l’un l’altra34. Esse sono anche reciprocamente dipendenti; poiché nessuna di loro è superflua, l’esigenza di auto limitazione dei loro proponenti appare evidente. Infatti, le forme emergenti istituzionali dell’agire riguardante la collettività accentuano con forza, anche se solo in maniera negativa, i necessari limiti. Ad esempio, noi parliamo di organizzazioni ‘non-governative’ oppure di settore ‘non-profit’. Potremmo, con le stesse buone ragioni, appellarci al ‘non – settarismo’, cioè a tipi di comunità non discriminatorie e non esclusive. La combinazione di queste tre istanze ‘negative’ è, o sembra essere, una buona approssimazione concettuale all’idea di un’associabilità civica e a quella di un capitale sociale che consenta alle persone di impegnarsi in pratiche associative.

L’uso civico del capitale sociale e le pratiche associative attraverso le quali si manifesta possono essere giudicate una via d’uscita, eccessivamente idillica e armoniosa, dal dilemma dell’ordine sociale. I sostenitori di tali pratiche sembrano spesso ignorare o sottovalutare le realtà del potere sociale e della sua mancanza. Le categorie degli attori sociali possono avere un interesse razionale nel propagare discorsi egemonici che favoriscano versioni dell’ordine sociale fondati sulla comunità, sul mercato o sullo stato. Gli scienziati sociali non dispongono di una soddisfacente interpretazione concernente quali strategie, circostanze ed intuizioni guidino i discorsi egemonici che ora hanno successo nel privilegiare un modello di ordine sociale a spese delle sue alternative efficacemente screditate. E neppure comprendiamo i cambiamenti, qualche volta bruschi, che di quando in quando permettono l’ascesa di nuovi discorsi egemonici, come l’ortodossia del libero mercato, e causano l’improvvisa destrutturazione dei modelli precedentemente istituzionalizzati dell’ordine sociale. Tutto ciò che forse possiamo affermare è che le lotte di classe semantiche che conducono alla diffusione e al consolidamento di intuizioni morali e strutture cognitive egemoniche sono da subordinare, per quanto riguarda i loro esiti, alla formazione di un giudizio, ad un confronto autonomo di esperienze e di standard di valutazione ai quali l’associazionismo civico può contribuire con forza. Il capitale sociale, in questo senso, non è neutrale in relazione al potere, ma rappresenta l’essenza stessa della capacità della società civile di trasformare e contenere la sua portata.

É un’ovvietà sostenere che tale cultura civica non possa emergere automaticamente con la scomparsa dei regimi autoritari e con la transizione, o anche il consolidamento, alla forma democratica di regime. La ricombinazione continua, armonica, flessibile, critica e fantasiosa dei tre diversi componenti dell’ordine istituzionale è guidata dal ‘capitale sociale’35, disponibile nella società civile e ampiamente trattato dalla scienza sociale contemporanea come la fonte di energia che ‘obbliga la democrazia a lavorare’. Ci  riferiamo al termine ‘capitale sociale’ come ad un complesso di inclinazioni morali e cognitive dei cittadini che li conduce a dare fiducia ad altri singoli cittadini eguali ed anonimi (così come alle autorità politiche che, dopo tutto, hanno conferito il potere politico a ciascuno di essi), che li spinge a praticare ‘l’arte dell’associazione’36 e a prestare attenzione alle problematiche e agli avvenimenti pubblici (in opposizione ai loro singoli, e rigorosamente circoscritti, problemi e avvenimenti di gruppi specifici). Delle giuste e trasparenti istituzioni di governo, la prosperità che mercati regolati attentamente possono generare e la vita delle comunità, moderata da un principio di tolleranza, possono e devono tutte contribuire, giovandosene, alla formazione e accumulazione del capitale sociale all’interno della società civile, le cui forze associative sono meglio in grado di definire e costantemente perfezionare il ‘giusto mix’ di modelli istituzionali, più di quanto non lo siano alcuni auto dichiaratisi ‘esperti’ o intellettuali, esponenti di qualche dottrina ‘pura’ dell’ordine sociale.

 

 

 


 


* Questo scritto, tradotto da Emiliano Bevilacqua, è basato sulla conferenza (Present historical transitions and some basic design options for societal institutions) tenuta dall’autore al Congresso sul tema ‘Società e Riforma dello Stato’ (San Paolo, 26 – 29 Marzo 1998). Utili osservazioni furono avanzate da David Abraham, John Ballard, Robert E. Goodin, Sthepen Holmes e Osvaldo Sunkel.


 


1 Invece di quelle chiaramente auspicabili causate dalla ‘mano invisibile’ di Smith!

2 Cfr. Hall P., e Taylor R., Political Science and the Three New Istitutionalisms, in <<Political Studies>>, XLIV, 1996, pp. 952 – 973.

3 Cfr. l’efficace titolo della raccolta edita da Barry B., Hardin R., Rational Man in Irrazional Society?, London, Sage, 1982.

4 Potremmo, tuttavia, osservare che in un mondo di istituzioni internazionali e di alleanze militari, la democrazia è una condizione sufficiente ma non necessaria per prevenire guerre internazionali. La Guerra del Golfo ha mostrato che persino i dittatori possono essere fermati nei loro attacchi ed occupazioni di territori vicini.

5 Da parte della scuola ‘strutturalista’ è consuetudine sostenere che un’economia avanzata è prerequisito determinante della democrazia e che quest’ultima, a sua volta, valorizza il potenziale di sviluppo e prosperità. Né l’uno né l’altro aspetto di questo modello a retroazione è confortato da molte evidenze. 

6 Cfr. Beetham D., Defining and Measuring Democracy, London, Sage, 1994 e Diamond L., Is the Third Way Over?, in <<Journal of Democracy>>, 3/1996, pp. 20 – 37.

7 Cfr. O’Donnel G., Delegative Democracy, in <<Journal of Democracy>>, 1/1995, pp. 55 – 69.

8 Cfr. Linz J., Stepan A., Problems of Democratic Transiction and Consolidation. Southern Europe, South America, and Post – Communist Europe, Baltimore, John Hopkins University Press, 1996.

9 Come alcuni hanno sostenuto, al punto da privare di senso la democrazia. Cfr. Guéhenno J., M., La fin de la démocratie, Paris, Flammarion, 1993.

10 Vale la pena notare, di passaggio, che da questa lista manca una voce: la settima M. Le idee e i principi morali che guidano particolari comunità nazionali si sono mostrati estremamente resistenti a processi ‘globalizzanti’ di diffusione e convergenza

11 Ad ogni modo, dal Katanga, ricca provincia mineraria del Congo dei primi anni ’60, all’affermarsi delle richieste di indipendenza della Catalogna negli anni ’80 fino all’indipendenza degli stati baltici come della Croazia e della Slovenia in epoca post - sovietica nei primi anni ’90, sono state prevalentemente le più ricche sub-unità regionali di stati istituzionalizzati che hanno avuto i più forti motivi per separarsi dalle comunità che le contenevano.

12 Cfr. Streeck W., Schmitter P., C., Community, Market, State – and Associations? The Prospective Contribution of Interest Governance to Social Order, in <<European Sociological Review>>, 2/1985, pp. 119 – 138.

13 Streeck W., Schmitter P., C., op. cit., pp. 119 – 138.

14 Cfr. Etzioni A., A Comparative Analysis of Complex Organizations, New York, The Free Press, 1961 per una concettualizzazione simile delle modalità di coordinazione attraverso norme sociali, potere coercitivo ed incentivi materiali. Vedere anche Schuppert G., F., <<Assoziative Demokratie. Zum Platz des Organisierten Menschen in der Demokratirtheorie>>, in Klein A., Schmalz – Bruns R. (a cura di), Politische Beteiligung und Bürgerengagement in Deutschland, Baden – Baden, Nomos, 1997, pp. 114 – 152.

15 Cfr. Miller D., Social Justice, Oxford University Press, 1979.

16 I casi esemplari di tale indebolimento e reciproco disturbo sono, da una parte, lo ‘stato dipendente’ la cui capacità regolatrice e di governo è limitata dai mercati monetari nazionali ed internazionali e dalle decisioni degli investitori e, dall’altra parte, l’economia ‘iper regolata’. Cfr. anche la nozione di ‘esaurimento dell’eredità morale’ da parte della modernizzazione politica ed economica rintracciabile in Hirsch F., Social Limit to Growth, Cambridge, Harvard University Press, 1976 (trad. it., I limiti sociali allo sviluppo. Milano, 1981).

18 Cfr. World Bank, The State in a Changing World. World Development Report 1997, New York, Oxford University Press, 1997.

19 Si può dimostrare facilmente, ad esempio, che il sistema di istruzione di terzo grado in Germania, un sistema quasi completamente statale, giova molto di più alla classe medio-alta dei professionisti e alla loro prole che a qualsiasi altro ceto sociale. Al contrario, i sistemi universitari privati potrebbero facilmente essere regolati in modo da dare un peso maggiore a considerazioni riguardanti l’eguaglianza sociale.

20 Cfr. Holmes S., Sunstein R., C., The Costs of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, New York, Norton, 1999.

21 Cfr. Kaufman R., The Politics of State Reform: A Review of Theoretical Approaches and idem, The Next Challenges for Latin America, Working Papers N. 98 e n. 108, Madrid, Istituto Juan March, 1997.

22 Cfr. Lane E., R., The Market Experience, Cambridge, Cambridge University Press, 1991; anche Oswald A., J., Happiness and Economic Performance e Frank R., H., The Frame of Reference as a Public Good, in <<The Economic Journal>>, vol. 107, 1997, pp. 1815 – 1831 e pp. 1832 – 1847.

23 Lindblom C., E., The Market as Prison, in <<Journal of Politics>>, vol. 44, 1982, pp. 324 – 336.

24 Cfr. l’argomento del ‘macchinario satanico’ in Polany, K., The Grat Trasformation. The Political and Economic Origins of our Time, Boston, Breacon, 1944 (trad. it., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, 2000).

25 In modo abbastanza plausibile, possiamo riscontrare anche il paradosso contrario di una ‘trappola di alto livello’ negli stati con un forte welfare (come i Paesi Bassi), i quali sfidano una sua revisione ‘verso il basso’ e continuano ostinatamente per il sentiero già percorso.

26 Hirschmann A., O., The Passion and the Interests, Political Arguments for Capitalism before its Triumph, Princeton, Princeton University Press, 1997.

27 Le economie post-socialiste, con il loro improvviso e notevole affermarsi dei nouveaux riches, illustrano ampiamente questo punto di vista.

28 Ciò è soddisfacentemente illustrato da una storia che era raccontata nella Polonia della transizione economica. Supponete che il prezzo del carbone raddoppi durante un freddo inverno e che la gente, in risposta, economizzi sul riscaldamento, lavorando di più (il che già la riscalda) per guadagnare il reddito addizionale necessario a comprare il carbone. Ora, se il prezzo del carbone aumenta di un fattore cinque, come si comporterà la gente? Rinuncerà a lavorare e rimarrà a letto. 

29 È l’esperienza dello sfuggire ai detentori del potere che il giovane esperimenta  quando entra nel mercato del lavoro e quindi, per la prima volta, si guadagna ‘i propri soldi’, sfuggendo in tal modo al controllo dei genitori; oppure, è l’esperienza che i clienti di società telefoniche recentemente privatizzate provano con piacere quando hanno la possibilità di mettere insieme il proprio pacchetto di servizi, invece di essere costretti a pagare per ciò che il precedente stato di monopolio aveva da offrire come singolo pacchetto standard. Si deve notare, tuttavia, che simili sensazioni entusiastiche di liberazione sono frequentemente fenomeni transitori piuttosto che stabili ed inerenti alla consueta routine del mercato. Ciò nondimeno, la spinta sia degli stati sia delle comunità ad estendere il controllo paternalistico o autoritario sugli individui può essere ostacolata solo lasciando permanentemente aperta l’opzione di scelta dei mercati. 

30 Heller H., Biopolitics. The Politics of the Body, Race and Nature, Aldershot, Avebury, 1996.

31 Cfr. Offe C., ‘Homogeneity’ and Constitutional Democracy: Coping with Identity trought Group Rights, in <<Journal of Political Philosophy>>, 2/1998, pp. 113 – 141.

32 Tendler J., Good Government in the Tropics, Baltimore, John Hopkins University Press, 1997.

33 Cfr. Marwell G., Oliver P., The Critical Mass in Collective Action: a Micro-Social Theory, Cambridge, Harvard University Press, 1993.

34 Streeck W., Schmitter P., op cit.

35 Putnam R., A., Making Democracy Work, Princeton, Princeton University Press, 1993.

36 Tocqueville A. (de), Democracy in America, New York, Schocken, 1961 (trad. it., La democrazia in America, Torino, 1968).

 

 

 


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