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Editoriale

Il terrorismo, la guerra e l’erosione della fiducia.

di Fabio de Nardis


   Dall’uscita dell’ultimo numero della nostra rivista, diversi fatti sono accaduti in Italia e nel mondo, alcuni dei quali particolarmente significativi e potenzialmente devastanti per i nostri animi e la nostra rappresentazione simbolica del futuro. Purtroppo, la cadenza quadrimestrale del ‘dubbio’ è un ostacolo per il momento insormontabile che non ci consente di seguire gli eventi con meticolosità analitica come si converrebbe per una qualsiasi rivista che abbia la presunzione di svolgere una importante funzione di critica sociale. Questo però non ci ha impedito nel corso della nostra ancora breve esperienza editoriale di rivestire un altrettanto importante ruolo di approfondimento culturale su tematiche spesso scottanti, come la bioetica ad esempio, e di avanguardia, fondamentali alla comprensione delle società contemporanee. Non possiamo rincorrere la cronaca, è vero, ma non essendo comunque una rivista neo-platonica non possiamo non soffermarci su ciò che è avvenuto nel mondo negli ultimi mesi.

L’11 settembre del 2001 , il giorno dell’attentato terroristico alle Torri gemelle di New York, è una data che rimarrà nella storia come il momento del più profondo attacco frontale sferrato contro l’occidente. Ce lo ricordiamo bene, tutto il mondo è rimasto inchiodato ai teleschermi ad osservare attonito i due aeri colpire e abbattere, a una distanza temporale di quindici minuti l’uno dall’altro, il simbolo della modernizzazione economica e del capitalismo occidentale. I media hanno subito afferrato il fatto e l’hanno catapultato in un gioco di rimbalzo da una parte all’altra del globo, per settimane. La portata delle conseguenze di un simile evento sono tutt’oggi visibili. Una città colpita al cuore dalla follia omicida dell’estremismo religioso, una guerra ancora non completamente conclusa, migliaia di morti civili, lo sconvolgimento di un ordine mondiale che sembrava ormai saldo e consolidato. Per la prima volta gli Stati Uniti sono stati colpiti nel loro centro simbolico, economico, politico e militare sballando completamente l’immagine della loro assoluta intangibilità.

Il mondo intero è stato sconvolto da un simile evento che ha evidentemente aggravato la percezione sociale del rischio, relativamente al pericolo di lesione della nostra ‘sicurezza ontologica’, ossia di quella sicurezza che ha a che fare con la stessa esistenza, con l’atteggiamento di confidenza in un certo grado di continuità della propria identità e nella stabilità delle condizioni materiali e immateriali in cui si verifica il nostro sistema di azioni. La fiducia collettiva nei ‘sistemi esperti’, per usare una nota definizione di Anthony Giddens, specie quelli adibiti al mantenimento dell’ordine pubblico e alla sicurezza individuale e collettiva (esercito, forze di polizia, sistemi di intelligence) si è profondamente indebolita dopo il palese raggiramento dei più potenti servizi segreti del mondo. E questo non può non creare disorientamento e angoscia, due stati mentali profondamente affini e determinati da un sentimento antitetico a quello della fiducia, dalla grande delusione di fronte alle pretese competenze e alle rassicuranti richieste di deresponsabilizzazione che alcuni sistemi incorporano.

Il fatto è che una simile erosione della fiducia finisce con l’essere lesiva dell’intero assetto istituzionale degli Stati moderni, la cui stabilità trova fondamento proprio su meccanismi di fiducia nei sistemi esperti. La fiducia è alla base del vivere collettivo perché solo chi la possiede può assumere un atteggiamento aperto e rispettoso rispetto all’alterità, che si tratti di un’alterità individuale o culturale. Gli stessi Almond e Verba negli anni sessanta del ventesimo secolo, pur nei limiti della strumentazione metodologica adottata, svolgevano una ricerca sul grado di cultura civica di alcuni paesi assumendo il livello di fiducia nelle istituzioni come principale indicatore del livello di consolidamento democratico. L’assenza di fiducia, lo si è detto, crea ansia e angoscia, prodromiche, è chiaro, di un senso di insicurezza cronica che si tramuta spesso in sospetto e diffidenza verso la diversità, passando per una fase più o meno lunga di fobia collettiva (vedi la questione dell’antrace). E si torna alla percezione sociale del rischio che, si sa, è ben più rilevante dell’effettiva verificabilità del rischio stesso. Io sono cosciente del rischio di un incidente stradale, anche mortale, sono cosciente della possibilità di morire mentre pratico uno sport estremo, ma mi riesce difficile immaginare la mia morte all’interno di un supermercato mentre faccio la spesa, o di una metropolitana mentre torno tranquillamente a casa dopo una giornata di lavoro o dopo una passeggiata con gli amici, o su un aereo mentre vado in vacanza, a causa della follia omicida di un kamikaze che si fa esplodere insieme al tritolo con cui si è riempito gli abiti.

Ciò che disorienta, che fa perdere sicurezza, è chiaramente l’imprevedibilità di un simile evento, perché essere sicuri vuol dire, sostanzialmente, essere immersi all’interno di un certo margine di prevedibilità, se vogliamo, vuol dire conoscere le circostanze di un certo rischio e non registrare la sua caratterizzante indeterminatezza. Inoltre, ciò che disorienta è la sua palese ‘medievalità’, nota Ulrich Beck (La Repubblica, 17 ottobre 2001), perché essere moderni vuol dire, in primo luogo, aver paura di morire, anzi la costruzione delle istituzioni moderne è in parte motivata dalla necessità di ridurre un simile rischio, mentre questi, gli attentatori, si lasciano morire in nome di una presunta causa metaterrena, si uccidono uccidendo per andare in Paradiso. Niente di più incomprensibile e pre-moderno per chi si è formato sugli ideali illuministi di tutela della vita come diritto inalienabile dell’uomo e/o su quelli cristiani che, nel bene e nel male, influenzano comunque il sistema assiologico delle società occidentali con una dottrina che valorizza la sacralità ecumenica della vita umana.

E purtroppo una situazione di alta percezione del rischio finisce col contribuire alla reificazione del pericolo che più ci spaventa, secondo la nota ‘profezia che si autoadempie’ di mertoniana memoria, perché, lo si è detto, "noi valutiamo i rischi sulla base delle nostre paure e non sulla base della teoria della scelta razionale" (Legrenzi, Il Mulino, 6/2001, p.1025) ed è spesso proprio una sovrastima eccessiva di quella paura a contribuire all’accadimento di ciò che più temiamo. Basti pensare al tanto temuto ‘clash of civilization’ profetizzato da Hungtington; il timore di giungere a una guerra tra civiltà contrapposte rischia di portare il conflitto proprio su questo piano, quando l’emotività e la passione prende il sopravvento sulla ragione. Lo si è visto chiaramente nei toni che hanno assunto alcune dichiarazioni da parte di alte figure istituzionali e del mondo della cultura nelle settimane successive all’attentato alle Twins. Ricordiamo perfettamente il comprensibile quanto, a nostro avviso, assolutamente incondivisibile moto di passione della giornalista/scrittrice Oriana Fallaci che, rompendo un silenzio di anni, ha scritto un articolo esplosivo sul Corriere della Sera (29 Settembre 2001), intitolato, appunto, ‘La rabbia e l’orgoglio’, poi ripubblicato dalla Rizzoli in forma di panphlet con l’aggiunta di un’ampia presentazione.

Nel suo lunghissimo articolo la Fallaci cerca proprio di riportare il discorso sul piano dello scontro tra civiltà, sostenendo la presunta e incontestabile superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica; e su questo punto fu chiarissima, rivolgendosi così a chi invece avrebbe ancora qualche difficoltà a guardare la situazione in questo modo: "Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar controcorrente [...] non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia [...] Non capite, non volete capire che qui è in atto una guerra di religione [...] Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà [...] A me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura".

La risposta di molti colleghi della Fallaci è stata, fortunatamente, altrettanto tempestiva. Ricordiamo in questa sede la bella lettera rivoltale su La Repubblica (5 Ottobre 2001) da Dacia Maraini che le ricorda come sotto i grattaceli di New York siano morti centinaia di musulmani e che non sono stati gli islamici in generale a fare l’eccidio così come non furono gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca dell’Agricoltura o alla stazione di Bologna. Lo stesso giorno anche Umberto Eco pubblica sullo stesso giornale un bellissimo articolo, da cui sarebbe scaturito anche un dibattito on-line, che funge da efficace apologia della ragione, affermando che tradizionalmente tutte le guerre sante non sono state altro che il frutto di un’adesione passionale a semplicistiche contrapposizioni dogmatiche, incapaci di guardare con occhio antropologico alle culture altre e ricordando che non solo Leonardo da Vinci è parte della civiltà occidentale ma "anche Hitler che bruciava i libri e condannava l’arte degenerata", e noi aggiungeremmo che anche il Cardinale Bellarmino che si rifiuta di guardare dentro il cannocchiale di Galilei, costringendolo all’abiura, è parte della cultura e della storia dell’occidente.

Inoltre, c’è da sottolineare, come evidenzierà successivamente Piero Sansonetti (l’Unità, 2 gennaio 2002), il sostanziale antioccidentalismo del saggio della Fallaci. Carattere anomalo e paradossale per chi, come nel caso della nota scrittrice, intenda invece proporre un’apologia della civiltà occidentale. Ma in realtà, l’impostazione di una simile operazione editoriale non fa altro che smontare i capisaldi della cultura occidentale e cioè l’egualitarismo cristiano, il liberalismo illuminista e il solidarismo socialista. E senza cristianesimo, illuminismo e socialismo, con i loro propositi di tolleranza e rispetto dei diritti individuali e collettivi e delle diversità, dell’Occidente non resta che la barbarie xenofoba e nazi-fascista o, al limite, l’oscurantismo clericale e intollerante della Santa Inquisizione. Ed è infatti proprio in un manifesto e un apologia del razzismo e dell’intolleranza che, volente o nolente, il saggio della Fallaci si trasforma.

Ma finché i toni da Crociata sono assunti dai soli giornalisti allora il rischio di incappare nel pericolo di una devastazione ben più ampia rimane contenuto a un dibattito tra colti; tale rischio accresce però quando Capi di Stato e di Governo sembrano cadere nello stesso tragico errore. E, almeno all’inizio, questo sembrava il possibile sbocco. Lo mise intelligentemente in luce Furio Colombo (l’Unità, 16 Settembre 2001), quando, appena cinque giorni dopo il terribile evento terroristico portava all’attenzione del lettore un esempio di quanto potesse essere facile farsi coinvolgere all’interno di un simile drammatico circolo vizioso. Il Direttore dell’Unità citava due frasi, una di Bush, Presidente degli Stati Uniti, l’altra del Mullah Omar, capo politico e spirituale dei Talebani, mettendone in evidenza l’affinità dei toni. Vale la pena riproporle:

1) "Crediamo in Dio perché con la grazia di Dio i missili americani falliranno il bersaglio e noi saremo salvi. Islamici del mondo uniamoci nel nome di Allah potente e misericordioso" (Mullah Mohammad Omar); 2) "Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo siamo certi. Né la morte né la vita né gli angeli né i prìncipi né le cose presenti né le cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio. Possa Egli benedire e guidare questo paese" (George W. Bush). Due frasi quasi perfettamente sovrapponibili in un tragico e mortale gioco che confonde religione e politica e che se applicato alla lettera non potrebbe che portare ad un vero conflitto tra religioni radicalmente distruttivo perché in ballo non vi sarebbero interessi materiali ma valori metafisici mutualmente esclusivi. E poi, nota giustamente Colombo, in un simile momento, ammesso che un Dio esista, piuttosto che riflettere su da che parte stia, se dalla parte dei musulmani (fondamentalisti) o dei cristiani (occidentali), dovremmo altresì soffermarci a registrare la sua tremenda, tragica assenza.

Fortunatamente gli esiti del conflitto sono stati, almeno per il momento, diversi. Gli Stati Uniti, superato l’impatto emotivo dell’11 Settembre, sono riusciti ad attivare un’operazione di diplomazia internazionale capace di costituire un’alleanza che unisse la totalità degli Stati Occidentali, la Russia, la Cina addirittura, con la parte più consistente e significativa della Lega Araba, contro il terrorismo e contro Osama Bin Laden, che del terrorismo islamico è considerato il principale ispiratore e finanziatore, scongiurando ogni rischio di guerra mondiale che da più parti molti già paventavano. Forti di una così ampia alleanza si è attivato un conflitto bellico verso il quale diversi frangenti della società civile e politica mondiale si erano dimostrati scettici e che ha avuto però il merito di sconfiggere (peraltro con centinaia di vittime civili) il regime fondamentalista e oscurantista che opprimeva l’Afghanistan da diversi anni.

Si è molto discusso, a tal riguardo, se si trattasse di una guerra o di una semplice operazione, in grande stile, di polizia internazionale. Su questo ci sentiamo di concordare con Angelo Panebianco ( Il Mulino,6/2001) che sulla questione è abbastanza categorico. Che si trattasse di una guerra non c’è alcun dubbio anche se di una guerra anomala perché, almeno ufficialmente, non si è trattato di un conflitto tradizionale tra Stati o coalizioni di Stati, ma l’obiettivo dell’attacco alleato era piuttosto un’entità per lo più invisibile. Ciò non toglie che si sia trattato di un conflitto bellico a tutti gli effetti. La guerra, infatti, non è altro che un conflitto armato tra organizzazioni politico-militari, e non necessariamente tali organizzazioni devono andare a coincidere con uno o più Stati nazione.

Fino ad ora è andato tutto abbastanza bene. L’Afghanistan ha un nuovo governo per il momento pacifico e che tende ad equilibrare il variegato contesto tribale che caratterizza uno Stato che non è nazione, senza cioè un’identità politico-culturale unitaria. Ma Osama Bin Laden ancora non è stato catturato. C’è chi afferma che sia morto sotto i bombardamenti angloamericani, chi si dice convinto che sia ancora nascosto tra le montagne di Tora Bora al confine con il Pakistan, chi lo dà già al riparo in un altro Stato amico, magari con i connotati cambiati da una strategica operazione di plastica facciale. Sta di fatto che il capo del terrorismo internazionale è ancora probabilmente libero in una fase politica mondiale già abbastanza tesa per via della situazione mediorientale che vede tragicamente in lotta Palestinesi e Israeliani, e per il possibile conflitto che sembrerebbe configurarsi tra Pakistan e India per la conquista del Kashmir.

Nel frattempo, in settori rilevanti e influenti dell’establishment statunitense c’è già chi parla, con una certa insistenza, di allargare il conflitto ad altri Stati sospettati di rapporti collaterali con il fondamentalismo islamico; e tra questi vi sono la Somalia, lo Yemen e l’Irak di Saddam Hussein. A nostro avviso, sarebbe un errore gravissimo che rischierebbe di far vacillare la già precaria alleanza con gli Stati che si riconoscono nella Lega Araba. A quel punto si riaffaccerebbe il pericolo di una guerra totale fondato sulla tragica convinzione di voler affermare una superiorità culturale. Simili idee, lasciamole ai politici di piccola taglia, goffi interpreti di un sentimento parziale e xenofobo, peraltro vivo in settori rilevanti delle gerarchie vaticane, ma non facciamolo diventare il criterio guida di una strategia politica internazionale, con l’unico, drammatico risultato di soddisfare l’obiettivo ultimo dei signori del terrore, ossia quello di arrivare a una guerra santa che veda contrapposti due mondi inconciliabili.

Non permettiamo che i terroristi l’abbiano vinta producendo una involuzione neo-comunitaria delle società occidentali, oggi caratterizzate da un marcata apertura e da una volontà di estensione al di fuori dei confini statali. Non permettiamo che venga interrotto il processo più bello di una globalizzazione per molti aspetti ingiusta ed elitaria, ossia l’apertura dei confini nazionali che è anche apertura alle diversità, accresciuta e potenziata dai sistemi di comunicazione transnazionali. Non mettiamo in crisi le risorse proprie di questa globalizzazone, che si chiamano fiducia, rispetto, pace, facendo prevalere l’odio bellico, la sfiducia e, di conseguenza, una cronica e devastante instabilità sistemica.

F.d.N

 


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