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SAGGI

Osservazioni sulla comunicazione inter-culturale

di Franco Ferrarotti


La grande novità del secolo ventesimo, all’inizio del terzo millennio, contrariamente a ciò che sembra evidente al senso comune, non va ricercata negli straordinari successi tecnici, dalla fissione controllata dell’atomo e dallo sbarco sulla luna alla "mappatura" del genoma, bensì nell’uscita dagli scantinati della storia, per così dire, di interi popoli e culture, che fin qui erano stati tenuti ai margini, riguardati al più come combustibile inerte in attesa di iniziative esterne. Nessun dubbio che a questo esito a questa "emersione" di popoli nell’epoca post-colonialistica abbiano strumentalmente contribuito innovazioni tecniche, soprattutto nel campo delle comunicazioni di massa. Basti considerare la sovrabbondanza babelica di notizie offerte, indiscriminatamente, dalle migliaia di siti di Internet, tanto da far pensare ad una nuova Volgata, per non citare le "visibilità" ottenute dai terroristi islamici, dai loro covi segreti, mediante Internet. Per questo incessante e tumultuoso fiume di dati non si danno fonti esplicite, accertabili, criticamente documentabili. Il richiamo alla Volgata non è forse del tutto arbitrario: induce a pensare ai tempi di San Gerolamo, il grande traduttore dall’ebraico dell’Antico Testamento e dei Salmi, dal caldeo dei libri di Tobia e di Giuditta, dal testo greco dei Settanta del Nuovo Testamento. San Gerolamo non esitava a chiedere a gran voce lumi e aiuto a Papa Damasco a proposito delle migliaia di testi che letteralmente lo inondavano e travolgevano.

La condizione odierna, caratterizzata non solo dall’abbondanza, ma da un eccesso di informazioni e nello stesso tempo da un divario crescente fra gruppi sociali quanto alla loro fruizione, ha sollecitato critiche puntuali anche fra i cultori dei mezzi di comunicazione di massa. Forse si sta facendo strada la consapevolezza che l’informazione allo stato brado, per così dire, non necessariamente informa, ma spesso deforma. Per esempio: "Eccesso d’informazione significa possibilità di rumore e ostacolo alla comunicazione, eccedenza costante dei segni disponibili rispetto alla nostra capacità di attribuire loro un senso e di usarli concretamente per la nostra vita.l’eccesso comunicativo crea "in realtà disuguaglianza" (cfr. Alberto Melucci, Culture in gioco", il Saggiatore, Milano, 2000, pag. 139; corsivo nel testo). Persino il "profeta della società dell’informazione", l’ex marxista Manuel Castells, nel suo recente "The internet Galaxy", che financo nel titolo fa il verso all’opera, ben più consistente, di Marshall McLuhan, "The Guttenberg Galaxy", sembra sfiorato da qualche dubbio in proposito. Ciò che questi autori non vedono una cecità mortale per i loro pensamenti è che i media non mediano e che le trasformazioni da essi indotti nelle società umane non piovono dal cielo, ma rimandano con estrema precisione alle matrici proprietarie e alla rete degli interessi materiali di coloro che ne detengono il controllo, dei nuovi "signori dell’etere" (cfr. il mio "La perfezione del nulla", Laterza, Roma-Bari, 1995).

Oggi si può sapere tutto di tutti, ma è un sapere volatile; manca una seria critica delle fonti. I siti crescono a fungaia, ma stentano a farsi strada, caduti i vecchi canoni, nuovi criteri valutativi. Resta in piedi, e non fa meraviglia, l’antico concetto classico di cultura come concetto normativo essenzialmente elitario in quanto aperto a pochi eletti e negato ai più. Questo concetto si collega direttamente e fa da supporto alla paidéia classica, di cui perfeziona la vocazione aristocratica. E’ una cultura che non appartiene, in linea di principio, a tutti e che si basa più sull’esclusione che sull’inclusione. E’ una cultura strettamente auto-referenziale, che parla a se stessa che vieta di capire gli altri. Forse solo con il cristianesimo e l’affermata comune paternità divina per tutti gli esseri umani questa cultura viene profondamente scossa e il discorso pedagogico occidentale comincia a svolgersi tra i due opposti estremi della paidéia classica di Platone e Aristotele e dell’educazione progressista "democratica", specialmente elaborata negli Stati Uniti da John Dewey.

Ma il valore dell’individuo, per i Greci, non arriva a indagarne come valore autonomo la pura soggettività. Forse siamo ancora Greci. Non abbiamo potuto, saputo essere altro. Ma i Greci non avevano alcuna idea del soggetto come valore in sé. La pòlis e il suo destino prevalevano sulle vite individuali. Greci e Romani, su questo punto cruciale, coincidono. Il cristianesimo è passato su di noi e dentro di noi. Ha creato risentimenti e contraddizioni. Ma non ha scalfito la struttura economica degli interessi individuali né le posizioni di relativo privilegio. Ha evocato l’eguaglianza, la comune paternità di Dio. Ma gli stessi cristiani, eguali in cielo, sono rimasti profondamente diseguali in terra. Il cristianesimo è vissuto dalle grandi maggioranza come un rimorso, la cattiva coscienza dell'infanzia ormai lontana, la nostalgia della fede e dell'innocenza perdute o forse come un puro rito abitudinario per cui "non possiamo non dirci cristiani". Siamo ancora Greci. Ma forse non Romani, se è vero che i Romani furono il solo popolo che potesse vivere e costruire senza una filosofia, da autentici pragmatisti, per cui è vero ciò che funziona e il giudizio di valore si confonde, e si nasconde, nel dato di fatto. Siamo ancora Greci e dunque Nietzsche, nelle "Considerazioni intempestive" e in "Umano, troppo umano", aveva ragione. Veramente? Che cosa significa? Qualche dubbio in proposito è lecito. Abbiamo già osservato che i Greci non avevano un’idea della soggettività in senso moderno. Nietzsche ha dunque ragione e torto nello stesso tempo. L’Uomo del Rinascimento è un individuo che ha valore in sé per sé. Ma l’individuo greco compiva il suo destino nella pòlis. Il rifiuto di Socrate di andarsene esule a Tebe per sfuggire alla cicuta è pieno di senso. L’individuo greco vive e si sviluppa nella sua comunità. Non è un fllâneur. E’ un individuo radicato. Non avrebbe avuto bisogno di leggere "L’Enracinement" di Simone Weil per convincersene. Ricordo la poesia di Costantino Kavafis, "Nello stesso posto", così attenta e nello stesso tempo così modesta nel rivalutare le proprie, personali "radici", quella zona vitale o Lebensraum in cui ognuno ritrova la trama della propria quotidianità:

"Casa, ritrovi, mio quartiere: ambiente

ch’io vedo, e dove giro: anni dopo anni.

Io t’ho creato nella gioia e nei dolori:

con tanti eventi e tante, tante cose.

E tutto sentimento ti sei fatto, per me".

L’idea moderna dell’individuo ibseniana più che rousseauniana che si afferma e si ribella rispetto alla sua comunità di origine è del tutto estranea al sentire greco. Anzi, è un’idea che non ha corso in tutta l’antichità classica. Catone mena vanto di non menzionare, nelle sue Origines, neppure un solo nome proprio di persona. E’ la pòlis, la res publica che conta. Si veda la "De Repubblica" ciceroniana per convincersi che il ciclo vitale di un uomo degno, di un autentico vir, si riassumeva e si concludeva tutto nel suo cursus honorum, vale a dire nelle sue cariche pubbliche. Era necessario il rifiuto di questo mondo, del "secolo", fatto valere dal cristianesimo a favore di una "miglior vita", di un mondo sovrastante rispetto a questo, in cui "non abbiamo cittadinanza permanente", per dare senso e sostanza alla interiorità soggettiva, per quanto sempre essenzialmente orientata, e giustificata, dalla trascendenza.

Si comprende più facilmente, da questo punto di vista, la svalutazione della biografia individuale, il rifiuto di vederla come parte della storia, il timore che la storia, la grande historia rerum gestarum venga in qualche modo contaminata e immeschinita dalle vite degli uomini comuni e dalla banalità del quotidiano. Si teme per la purezza del concetto normativo ed esclusivo di cultura. Anche quando parla non più di barbari, cui contrapporsi, ma di humanitas a validità universale, si tratta di un umanesimo rigidamente delimitato, appannaggio dei vertici sociali. Martin Heidegger osserva che "è al tempo della Repubblica romana che l’humanitas viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humanus si oppone all’homo barbarus (cfr. M. Heidegger, "Lettera sull’umanismo", tr.it., Adelphi, Milano, 1995, pag.41). Ma è necessario soggiungere subito che è proprio incontrando il barbaro che dapprima i Greci divengono consapevoli della loro identità, in particolare che l’identità non è un dato fisso, immutabile, ma un processo (come credo di avere da ultimo mostrato in "L’enigma di Alessandro", Donzelli, Roma, 2000, passim). E’ curioso che Heidegger, sulla scorta di Cicerone, trovi nella romanità il primo esempio di humanitas, mentre Simone Weil scorgeva nel dominio di Roma il primo esempio di vero e proprio nazismo, al punto da ritenere che gli italiani fossero Greci, non Romani, neppure nel senso, invero alquanto derogatorio, di "vermi nella carcassa" secondo Ephraim Lessing, vale a dire che avessero la sciolta, un poco irresponsabile allegria e il "vitalismo estetico" degli antichi Greci, questo "popolo fanciullo", ma non il senso dell’organizzazione né le virtù militari, la disciplina "cadaverica", che univa, a giudizio della Weil, antichi romani e nazisti. Per Heidegger, invece, "a Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. Riguardando la romanitas, la renascentia ha a che fare con l’humanitas e quindi con la paidéia greca. Ma la grecità viene sempre considerata nella sua forma tarda e questa in modo romano. Anche l’homo romanus del Rinascimento si contrappone all’homo barbarus. Ma l’in-umano è ora la presunta barbarie della Scolastica gotica del medioevo. L’umanismo storicamente inteso appartiene perciò sempre uno studium humanitatis, che attinge in un determinato modo all’antichità, diventando così di volta in volta anche una ripresa della grecità. Ciò si vede da noi nell’umanismo del XVIII secolo sostenuto da Winckelmann, Goethe e Schiller. Il primo umanismo, cioè quello romano, e tutte le altre forme di umanismo che sono via via emerse fino ad oggi, presuppongono come ovvia la "essenza" universale dell’uomo" (cfr. M. Heidegger, op. cit., pp. 41-43). Ad uno sguardo retrospettivo, si colgono a questo proposito in Heidegger stridenti contraddizioni. O quantum mutatus ab illo! Nel "Discorso rettorale" (1933 sulla "autoaffermazione dell’università tedesca", Heidegger, dimentico evidentemente di ogni "umanismo", mette sullo stesso piano il servizio militare, quello del lavoro e quello scientifico-culturale. Come accordare questo programma con l’umanismo, sia pure romano e della tarda grecità? Che cosa si può dire del "pensiero meditante", da tenersi essenzialmente separato dal "pensiero calcolante", come richiederà, in "Gelassenheit", il filosofo di Messkirch?

Miseria del filosofo. Il pensiero puro viene posto al servizio dell’istituzione e dello Stato. Fa impressione rileggere la definizione heideggeriana dell’essenza dell’università: "missione spirituale che obbliga e incalza il destino del popolo tedesco a forgiare la propria storia" (cfr. M.Heidegger, "L’auto-affermaizone dell’università tedesca", tr. It., Il Melangolo, 1988, pag.18). Strane corrispondenze: per Lenin è l’ideologia che "forgia" le armi per il proletariato. Asservimento del pensiero alle esigenze politico-pratiche. Per l’università l’autonomia si risolve per Heidegger in una masochistica presa di servizio. "Autonomia sentenzia significa porci il compito e determinare modo e maniera della sua realizzazione al fine di essere ciò che siamo chiamati ad essere" (Ibidem). Ma non è forse questa la strada che porta alla pragmatizzazione del pensiero e quindi alla sua finale vanificazione? Heidegger risponde chiamando in causa, ancora una volta, i Greci: "Ma che cos’è per i Greci la theoria ? Si risponde: la pura contemplazione...Questo richiamo ai Greci è inesatto e errato. La teoria infatti non accade in primo luogo neppure una volta per se stessa, ma solo per pathos che coglie chi si trova in prossimità dell’essere in quanto tale e preda del suo incalzare...Il suo senso vero non consiste nel ridurre la prassi alla teoria, ma al contrario nel comprendere la teoria come la suprema realizzazione di una prassi genuina... (M. H., op. cit., pag.21).

Così viene anche liquidata l’involontarietà del pensiero. Con ciò non si vuol certo confondere una filosofia con le preferenze individuali o con i principi ideologico-politici del singolo filosofo. E’ però difficile passar sopra disinvoltamente a certi episodi biografici, che gettano una loro ombra specifica e indelebile sul filosofo Heidegger, come quando, introducendo lo studio di Hugo Ott ("Martin Heidegger: sentieri biografici" tr. It., SugarCo, Milano, 1990), Carlo Sini commenta "l’immagine, non si sa se più grottesca o oscena, del rettore Heidegger che, all’atto del suo insediamento costringe i colleghi docenti a intonare un ridicolo coro politico-militaresco, contesto di idiozie verbali, il tutto accompagnato da un saluto con il braccio levato che, fratello gemello del saluto nazista, venne nondimeno fatto accettare ai colleghi riluttanti con motivazioni ridicole e penose". Anche Giorgio Penzo, nella sua acuta analisi intorno al "tramonto del mito del super-uomo"(cfr. G. Penzo, Nietzsche e il nazismo, Rusconi, Milano, 1997), riconosce che "Heidegger come rettore dell’Università di Friburgo al tempo del nazionalsocialismo era considerato con una certa benevolenza dalla cultura reazionalsocialista, anche se nei suoi scritti filosofici è assente un possibile riferimento alla cultura politica del suo tempo" (p.335).

Il fascino di Sein und Zeit non ha certo bisogno di essere, ancora una volta, sottolineato. In "Partire, tornare" (Donzelli, Roma, 1999) non ho, anzi, potuto esimermi dal richiamare in proposito, il dialogo platonico del "Fedone", là dove Socrate, parlando a Critone e agli altri amici chiarisce le ragioni per cui i veri filosofi aspirano a morire e ad ogni modo non hanno paura della morte. Vi trovavo un’anticipazione suggestiva del Sein zum Tode, o "essere per la morte", heideggeriano, per non parlare della vita come esercizio di morte, la famosa meléte tou thanàtou, che dalla Grecia classica e dagli Stoici rivive nella tradizione patristica, soprattutto in certe modernissime pagine di Sant’Agostino, in cui vibrano l’ansia e l’angoscia di quello che sarà, secoli dopo, l’esistenzialismo.

La modernità di Agostino, tuttavia, forse più che nelle incertezze della conversione e nei traumi determinati dall’abbandonare la madre del figlio Adeodato per vivere in castità e penitenza secondo gli insistenti richiami della propria madre, Monica, è da cogliersi nell’ambivalenza che ne segna in profondità il destino. Da una parte, il forte richiamo della teoria pura, dello studio solitario e della meditazione non turbata né interrotta dalle cure quotidiane; dall’altra, il fervore attivistico dell’organizzatore religioso e politico, immerso nelle contraddizioni di un’epoca storica tempestosa, con l’impero che crolla e i Vandali di Genserico che premono alle porte di Ippona.

In un contesto radicalmente diverso, le perplessità angoscianti di Agostino mi fanno pensare a quello straordinario politico manquè che fu, a cavallo fra Otto e Novecento, Max Weber, analista finissimo e acuto interprete dei fenomeni del potere, in grado di comprendere e elaborare i complessi meccanismi che avrebbero probabilmente potuto garantire alla Germania post-guglielmina la guida politica razionale con riguardo alla sua smisurata, crescente potenza economica e industriale, che peraltro non riuscì mai a convincersi ad apporre la firma di accettazione della candidatura politica. L’anno della conversione e del battesimo, il 386 dell’era volgare, era stato per Agostino l’anno del congedo dalla donna che gli aveva dato un figlio. In quell’anno, con pochi amici, si era isolato in una casa di campagna nei pressi di Milano per dedicarsi in pieno, senza impegni mondani o organizzativi, allo studio e alla meditazione. Tornato in Africa nella nativa Tagaste, pochi anni dopo, aveva nuovamente tentato un esperimento di vita claustrale, isolato dal mondo, teso alla realizzazione di quell’otium creativo che gli era stato suggerito dalla lettura dei classici, in particolare di Cicerone. Ma la sua natura di attivista doveva ben presto avere il sopravvento. Il vescovo di Ippona si affermava, nella sua vocazione apostolica e apologetica, pronto anche a difendere, nel libro Quinto del "De Civitate Dei", i romani antichi e quindi il loro Impero, perché "erano avidi di lode e prodighi di denaro, insaziabili di gloria ma paghi d’una modesta fortuna".

La paradossale, imprevedibile "attualità" di Agostino non è sfuggita a studiosi documentati, ma soprattutto sensibili alle sottili comparazioni inter-culturali. Si tratta per lo più di operazioni intellettuali ardite, che richiedono conoscenze specifiche e approfondite. Hanno anche bisogno di fantasia evocativa e di immaginazione. Louis Dumont, fra gli altri, nota che "Agostino è un uomo dei suoi tempi, eppure prefigura e addita immancabilmente ciò che verrà. Per questo la sua influenza, la sua eredità intellettuale, si estenderanno sul Medioevo e ben al di là di esso. Si pensi a Lutero, ai giansenisti, perfino agli esistenzialisti (cfr. L. Dumont, "Saggi sull’individualismo", tr.it. Adelphi, Milano, 1993, pag.59). Forse è vero che Agostino è un anticipatore eccezionale e che in lui si può scorgere "una sottile avanzata dell’individualismo", ma sembra difficile sostenere che per Agostino l’individuo è un valore in sé. Secondo il vescovo di Ippona, l’individuo ha certamente un valore, ma solo in quanto stabilisce un rapporto con Dio. Persino un popolo, preso nel suo insieme, che cos’è per Agostino? Senza Dio, non è nulla. E’ solo un dato empirico. Ma allora la caduta in una prassi e in un concetto teocratici, che annullano la libertà, pur condizionata, dell’individuo, sembra inevitabile.

C’è da temere che in Heidegger l’ "essere per la morte" non sia disgiunto da quella funerea, cupa pedagogia nazista che consisteva essenzialmente nell’educare i giovani al sacrificio supremo per il "capo". Il canto della Hitlerjugend non lascia dubbi in proposito: Wir marschieren für Hitler/ Durch Nacht und durch Not/ Mit der Fahne der jugend/ für Freihet und Brot Vorwärts, vorwärts, schmettern die hellen Fanfaren / Vorwärts, vorwärts, Jugend Kennt Keine Gefahren /Deutschland du wirst leuchtend stehn / Mögen wir auch untergehn". Noi marciamo per Hitler / attraverso la notte e la sofferenza / con la bandiera della gioventù / per libertà e per pane... Avanti, avanti squillano le splendenti fanfare /avanti, avanti, la gioventù non conosce pericoli /Germania, resterai fulgida / anche se noi dovremo perire).

E’ vero che la morte per Heidegger è il momento di essenziale autenticità di contro alla mediocrità del mondo di ogni giorno, ripetitivo ed inautentico, del "si dice" un mondo abitato dai più, dalla massa dei comuni mortali, dai pollòi, per i quali il filosofo non riesce a celare un certo grado di fastidio, se non di disprezzo: "La morte è la possibilità più propria dell’Esserci... La morte non "appartiene" indifferentemente all’insieme degli Esserci nel suo isolamento ... L’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si presentano casualmente. ... La morte isola L’Esserci. ... L’analisi dell’anticipazione, esistenzialmente progettata, ha mostrato la possibilità ontologica di un essere-per-la-morte esistentivamente autentico" (cfr. M.Heidegger, "Essere e Tempo", tr. it. Di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1969, pagg. 394-399).

Come occasione di autenticità, la morte è alla base della cultura dei pochi, che alla grande maggioranza degli iloti o schiavi, prigionieri della casualità, affida il quotidiano soddisfacimento delle cure pratiche. Con l’autenticità della morte anticipata, non si risolve soltanto il senso della finitudine umana. La morte è per tutti, ma nessuno muore allo stesso modo. C’è nelle prime pagine dei "Quaderni di Malte Laurids Brigge" di Rainer Maria Rilke la grande figura del vecchio che sta per morire, ma che non vuole una morte qualsiasi, ma la sua morte, quella che spetta a lui e soltanto a lui. La cultura di élite non accetta l’egualitarismo implicito nella morte come equanime esito per tutti i viventi, la gran falce manzoniana che pareggia tutti: ricchi e poveri, belli e brutti, potenti e deboli, don Rodrigo e fra Cristoforo, l’innominato e la monaca di Monza, i "bravi" e Renzo e Lucia.

Per i Greci sono i poeti a sconfiggere la morte e a dispensare l’immortalità, a sottrarre il morto illustre all’oblio. L’uomo muore, scompare, ma vive per sempre nella sua gloria, cantata dai poeti. Già praesente cadavere, viene declamato l’encomio, a edificazione dei superstiti. La coscienza soggettiva in termini personali è estranea ai Greci. Figure come Montaigne, che si autoascoltano quotidianamente e annotano i propri movimenti interiori con la precisione di un sismografo, o auto-cronisti come lo Stendhal dei "Souvenirs d’égotisme" o ancora come, più tardi, l’Amiel del "Journal intime" non sono concepibili. La pura soggettività introspettiva non ha valore agli occhi dei Greci. L’individuo non si realizza in sé, ma nella comunità. In questo senso, l’individuo greco appare assetato di onore e di riconoscimento. Come Alessandro Magno, è animato e mosso febbrilmente dal pòthos, dal desiderio bruciante di autoaffermazione coram populo, di gloria da tutti riconosciuta. Non però in termini personali, ma secondo la definizione dell’eroe di Ralph Waldo Emerson, ossia come "colui che di fronte al suo compito non è nulla". Ciò che per il cristianesimo è vanità disdicevole, se non orgoglio luciferino e sommamente peccaminoso, è per i Greci la somma virtù.

Sant’Agostino, pur così suggestivo con quell’idea di un ego superior che fin letteralmente sembra anticipare il super-Ego di Freud, è pre-moderno. Le sue "Confessioni" sono un tormentato monologo o, meglio, un serrato dialogo fra l’ego inferior e l’ego superior, ma con Dio in ascolto. E’ lui, Dio, l’interlocutore segreto, ma decisivo. Lo sviluppo dell’individuo nel Rinascimento sembra prescindere dagli insegnamenti morali del cristianesimo. Quell’acuto osservatore che è Burckhardt lo nota con precisione: "Gli italiani del XIV secolo conoscevano assai poco la falsa modestia o l'ipocrisia in qualsiasi forma; nessuno di loro aveva paura della singolarità, di essere e di sembrare diverso dai suoi vicini" (J.B., "The Civilisation of Renaissance in Italy", Oxford, Phaidon Press, 1945, pag. 82). Ma non per questo lo sviluppo dell’individuo nel Rinascimento può dirsi una riscoperta o quasi un ritorno, sic et simpliciter, alla grecità. L’individuo comincia a valere in sé per sé, indipendentemente dal destino della comunità, dalla sua collocazione in essa e dagli uffici resi alla res publica.

E’ probabile che lo stesso Nietzsche, abbandonata polemicamente la strada mistico-teutonica di Richard Wagner, sia caduto in una semplificazione insostenibile, abbia visto nell’italiano del Rinascimento la prefigurazione, se non l’incarnazione, del suo "Oltre-uomo", o "Ubermensch". Nel difficile distacco da Wagner, non mancano in Nietzsche espressioni di elitarismo puro: "Non sciogliere il nodo gordiano della civiltà greca come fece Alessandro, sicché le sue estremità volarono in tutte le direzioni del mondo, bensì rifarlo dopo che è stato sciolto questo è oggi il compito. Io riconosco in Wagner un tale contro-Alessandro (corsivo nel testo; citato nell’eccellente saggio di Giuliano Campioni, "Il Rinascimento in Wagner e nel giovane Nietzsche" in "Rinascimento", 2.a serie, vol.XXXVIII, pag. 84). Ma nel mio "Enigma di Alessandro" ho potuto notare la posizione più matura di Nietzsche, là dove riconosce come il compito più urgente sia quello di riannodare i rapporti fra Occidente e Oriente in una prospettiva in cui lògos e sentimento, ragionamento e passione trovino il punto della loro fecondazione reciproca. Leon Battista Alberti è forse in proposito l’uomo rappresentativo, svetta come una palma nel deserto, grandeggia rispetto al "popolaccio", al "popolo minuto", al "popolino". Incarna l’individuo superiore di contro alla massa dei mediocri, degli antropoidi che appartengono al genere umano solo in senso zoologico, quelli che per Benedetto Croce, grande proprietario terriero, erano i "cafoni", assunti dal "caporale" per la giornata e non a caso chiamati "braccianti", ossia braccia da lavoro, "piedi d’uomo" e " macchine parlanti", come già li avevano definiti Platone e Aristotele.

 

  *Questo articolo fa parte di uno studio di ampia portata cui l'autore viene da tempo attendendo sull'incontro fra culture, per cui si veda anche, L'enigma di Alessandro, Roma, Donzelli, 2000.

 


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