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NOTE

Considerazioni da un campus californiano

di Massimiliano Ruzzeddu


    Nell’estate del 2001 ho partecipato a un corso di metodologia della ricerca sociale al l’Università di California a Los Angeles. Molto elementare, il corso in sé non è stato particolarmente formativo, tuttavia si è trattata di una esperienza interessante da altri punti di vista. Inondati come siamo da prodotti dell’industria culturale statunitense, abbiamo nutrito numerosi luoghi comuni sulla vita di oltreoceano. ho provato ad affrontare con una esperienza diretta "sul campo" il luogo comune della differenza di approccio alle scienze sociali fra Europa e Stati Uniti. È chiaro che tali note, essendo frutto di osservazione e di interpretazioni personali, soffrono del limite tipico di ogni osservazione sul campo, la limitata generalizzabilità.

Chiunque si sia occupato, anche a livello elementare, di scienze sociali sa che, nata con la scuola di Chicago, la sociologia di oltreoceano si occupa di questioni "concrete", dei problemi tipici di una società eterogenea come quella nordamericana, dai conflitti razziali alla criminalità (Izzo, 1994) laddove la sociologia in Europa è una disciplina prevalentemente "teorica" e spesso confusa con la filosofia sociale.

Dalla mia esperienza mi sento di condividere tale affermazione, ma è necessario puntualizzare due questioni: 1) il fatto che negli Stati Uniti la sociologia abbia dei fini pratici non significa, naturalmente, che lì non si faccia teoria, né che questa sia sconosciuta. 2) il differente ruolo delle scienze sociali è correlato a notevoli differenze di status del sociologo nei due sistemi culturali. È quindi il caso di fare un brevissimo inciso su quello che è il sociologo oggi nel nostro Paese.

Ridotta al silenzio per decenni dall’idealismo crociano e dal fascismo, la sociologia non ha offerto un contributo significativo allo sviluppo industriale e sociale italiano degli anni ’50 e ’60, contributo che ne avrebbe fatto lo strumento atto a guidare una società che inesorabilmente si allontanava dall’ossequio alle "grandi tradizioni". Il ruolo marginale che le scienze sociali hanno giocato in Italia sarebbe quindi una delle cause dell’ambigua transizione alla modernità in Italia, per cui "si vive con i piedi nell’epoca industriale, ma la testa e il cuore sono ancora al "paese mio"" (Ferrarotti, 1997, pag. 198). Tuttora il ruolo della sociologia rimane vago, non tanto in termini di prestigio della disciplina, quanto in termini della figura professionale dello scienziato.

Ferrarotti individua tre ruoli che il sociologo potrebbe ricoprire nelle moderne società industriali: ‘scienziato sociale’ vero e proprio, in ambito accademico; ‘ricercatore sociale’, dedito principalmente alla ricerca sul campo; ‘operatore sociale’, inserito nei contesti più vari ed in grado di contribuire ai processi decisionali mediante "dati offerti dall’analisi sociologica". (ibidem, pp 202-3) .

All’inizio del terzo millennio, il sociologo come operatore sociale, soprattutto in ambito di assistenza e sicurezza sociale, gode di un certo mercato professionale, che probabilmente sarà sempre più in espansione, grazie anche all’introduzione della sociologia come materia di studio nelle scuole medie superiori.

Il sociologo, però, almeno nella sua figura più visibile, resta un docente, un accademico che studia la società nel suo insieme e risponde a domande di portata generale. Quel che ci si aspetta che egli (ella) faccia è di intervenire sul senso comune (funzione peraltro non poco importante).

Garfinkel e gli etnometodologi (paradossalmente statunitensi) mostrano come gli individui quotidianamente costruiscano interpretazioni della realtà al fine di orientarsi in essa e darle un senso. Ovviamente tali rappresentazioni, che potremmo anche definire come idealtipi e che costituiscono il "senso comune" (Corsale, 2000) sono grossolane e spesso ingenue e costituiscono una semplificazione eccessiva della realtà in cui uomini e donne quotidianamente si muovono. Il ruolo del sociologo dovrebbe essere appunto quello di individuare i limiti degli idealtipi della vita quotidiana, fornendo alla collettività strumenti di analisi che chiariscano cosa sia dato per scontato nei ragionamenti di tutti i giorni.

Siffatto approccio alla sociologia implica due conseguenze:

Poiché non ci si aspetta che il sociologo contribuisca alla risoluzione di problemi concreti all’interno della comunità di appartenenza, la sociologia italiana raramente individua le dimensioni patologiche della vita sociale, o meglio, è tesa alla individuazione della patologie sociali prescindendo da sforzi concreti per il loro trattamento. Vorrei che fosse chiaro: non si sta criticando questa prospettiva epistemologica, anzi, essa ha una fortissima utilità sociale, in quanto nelle scienze sociali un errore di classificazione del genere è frequentissimo e può provocare gravi effetti (Durkheim 1996). La seconda conseguenza riguarda l’importanza e la natura del dato empirico: il teorico della scienza sociale non usa dati raccolti scientificamente. La dimensione empirica privilegiata dal teorico è la stessa del cosiddetto uomo della strada (Corsale, 2000): l’osservazione quotidiana della realtà circostante e i mass-media. Questo ovviamente non significa che in Italia non si abbiano raccolte sistematiche di dati, anche se più per iniziativa di enti quali EURISPES o CENSIS che delle Università; tuttavia tale attività ha una visibilità meno forte di quel che meriterebbe, senza contare che una raccolta sistematica di dati è affidata più che al sociologo allo statistico.

In realtà in Italia la dimensione deficitaria è rappresentata dalla figura professionale di sociologo come ricercatore sociale, come professionista autonomo dedito al field-work.

Vediamo invece che cosa succede negli Stati Uniti. Come ho già detto ho frequentato un corso di metodologia, il cui programma comprende tecniche di campionamento e di rilevazione, le linee guida per condurre un’intervista e le principali tecniche di trattamento dei dati, nonché rigidi protocolli di esposizione dei risultati di una ricerca. Insomma, un corso abbastanza elementare.

L’aspetto interessante, tuttavia, sono gli esempi dati dal docente, dai testi e dalle letture, quasi sempre ispirati ad uno dei seguenti argomenti: violenza e criminalità, discriminazione di minoranze, comportamenti a rischio.

Questi sono anche gli argomenti trattati in misura maggiore nelle riviste di sociologia, sia in quelle generali, come l’American Journal of Sociology o l’American Sociological Review, senza contare le numerose riviste specialistiche dedicate a uno di essi.

L’attenzione conferita a violenza e criminalità conferma anche il luogo comune per cui questi siano problemi che affliggono la società nordamericana in misura molto maggiore che in Europa. Ho avuto occasione, durante il corso, di sentir citati molti esempi di ricerche in merito, esempi di cui ci si aspettava che riferissimo poi in sede di esame. In tal senso uno dei lavori più citati è quello di Sherman e Berk (1984), in cui si misurano empiricamente, attraverso un esperimento condotto a Minneapolis con la collaborazione del locale distretto di polizia, gli effetti deterrenti dell’arresto per violenza domestica. Quando era segnalato un caso del genere, alle pattuglie chiamate veniva ordinato, secondo un’assegnazione casuale, di adottare una delle seguenti strategie: arrestare l’autore della violenza, tentare una mediazione informale, o ordinare al responsabile di allontanarsi dalla casa per almeno otto ore. I nuclei familiari contattati venivano poi seguiti per un periodo di sei mesi al fine di misurare i casi di recidività. L’interrogativo di base della ricerca, infatti, era quello di testare quale fosse il deterrente alla violenza domestica più efficace. Venivano testate due ipotesi concorrenti: se l’arresto diminuisse i casi di recidività, o li aumentasse, in base a quella che viene definita labelling theory (teoria dell’etichettamento) (Shutt, 2001). Nonostante gli autori stessi ammettano che numerosi fattori di distorsione sono avvenuti nel corso dell’esperimento, la conclusione dell’esperimento è stata che l’arresto del sospetto è un deterrente più efficace degli altri. L’articolo di Sherman e Berk è un tipico esempio del ruolo della funzione che la teoria assume negli studi sociologici: la labelling theory, ipotizza che, se una persona ha commesso dei reati e viene pertanto considerata come criminale dal resto della società, questa continuerà a comportarsi come tale (Hagan, 1994). È chiara l’influenza dell’interazionismo simbolico, il quale tuttavia non viene trattato come teoria coerente ed autonoma: si informa il lettore semplicemente che essa " si concentra sui significati simbolici che la gente conferisce al comportamento". Anche se un’affermazione del genere richiederebbe un’analisi più approfondita, si può ipotizzare che fra Stati Uniti ed Europa esista una differenza paragonabile a quella fra approccio scientifico e approccio umanistico alla sociologia (Merton, 1992). Il primo infatti accumula le scoperte del passato senza memoria dei loro autori, lasciando "la commemorazione dei classici alla storia della disciplina" (ibid., pag. 50), mentre nell’approccio umanistico la conoscenza diretta dei classici è parte integrante della formazione di ogni generazione di studiosi. Se il primo esempio evidentemente si adatta perfettamente alla definizione di Merton, credo che nel secondo approccio si riconosca chiunque abbia studiato scienze sociali in un Paese dalla forte tradizione umanistica come l’Italia.

Esempi legati alla criminalità sono frequenti nel libro di testo e la questione è stata affrontata a più riprese dal docente durante il corso. Per esempio è stato proiettato di un video, lungo 90 minuti, sulla creazione di un’Associazione per la lotta contro la criminalità giovanile, dedicata alla vittima e al colpevole di un omicidio. Dopo il fatto, avvenuto fra l’altro per futili motivi, i parenti sia della vittima che dell’aggressore hanno costituito un’associazione che testimonia nelle scuole di tutta la California le conseguenze della violenza. La discussione in aula, nell’ultima mezz’ora di lezione, verteva sui possibili effetti deterrenti della proiezione del video, ma esso era talmente scioccante che probabilmente tutti noi partecipanti al corso avremmo potuto essere testimoni involontari della situazione di assurda tensione dei sobborghi californiani, indipendentemente dalla nostra preparazione professionale sull’impatto dei mass-media in questo tipo di politiche.

La discriminazione e gli studi su di essa riguardano a loro volta tre sottosettori: ovviamente la discriminazione razziale, poi la discriminazione di genere e la discriminazione della minoranza omosessuale. Durante il corso si è parlato abbastanza anche di questo, ma soprattutto ho registrato una grande attenzione al problema sulle riviste specializzate: ad esempio, l’American Sociological Review dedica alla discriminazione razziale e di genere più di un quarto degli articoli pubblicati fra il 1998 e il 1999.

Gli studi sulla discriminazione razziale, molto numerosi, riguardano prevalentemente ricerche sulle correlazioni fra appartenenza razziale ed accesso alle risorse economiche e professionali. Interessantissimi sono gli studi di genere: non solo c’è un’attenzione grandissima ad ogni tipo di discriminazione nei più diversi ambiti, ma gli studi di genere compiuti in america sono considerati un vero e proprio paradigma di ricerca (Punch 1978). Anche gli studi sulla discriminazione degli omosessuali e della cultura gay costituiscono un settore importante di ricerca e sul tema si trovano riviste specialistiche, così come sugli studi di genere.

Il comportamento a rischio di salute è quello che più di tutti evidenzia il carattere "clinico" della sociologia americana; il sociologo diventa una specie di ausilio, di supporto nelle politiche di salute pubblica e frequentemente può avere a che fare con aspetti medici o psicologici della vita sociale. Anche qui, il numero di riviste specializzate sul tema confermano la centralità dell’argomento nel dibattito pubblico americano: American Journal of Public Health, Journal of Health and Social Behavior ne sono solo alcuni esempi. Inoltre, una prova fondamentale per passare il corso che ho frequentato era scrivere una relazione proprio sui comportamenti a rischio di salute nei college americani. Comportamenti a rischio erano considerati: ubriacarsi (si badi bene: non alcolismo, "alcoholism" ma proprio l’ubriacarsi ,"binge drinking"), la violenza, il tabagismo, l’uso di droga, pratiche sessuali non sicure e disordini alimentari. Naturalmente ciò va associato ad un intento pedagogico nei confronti degli studenti stessi, tutti residenti nei college della UCLA. Sorvolo sul carattere leggermente offensivo di una simile politica rivolta ad individui maggiorenni, è importante invece soffermarsi su questa ulteriore conferma sulle aspettative legate al ruolo di (futuro) scienziato sociale: la società civile riconosce dei comportamenti o delle situazioni sociali come patologiche ed ad essa non solo è richiesto di acquisire gli strumenti atti a curarle, ma anche di apprenderne le dimensioni e i caratteri; discutere del carattere patologico attribuito a determinati fenomeni non fa parte delle sue competenze né delle sue funzioni sociali. Sempre secondo la distinzione di Ferrarotti, il sociologo nordamericano assolve allora al secondo dei ruoli sociali che gli competerebbero: quello di ricercatore sociale "interessato alla ricerca come lavoro sul campo (field-work), circoscritta a problemi sociali specifici e guidata da un quadro concettuale e da ipotesi di lavoro esplicito da verificare empiricamente" Tale orientamento è confermato dal tono degli articoli che io ho stesso ho letto per la mia relazione sul consumo di alcool: ne ho letti dieci e di questi nove introducevano il problema con accenti simili a questi:

"il consumo di alcol da parte degli studenti nei college, specialmente il binge drinking, continua a essere un serio problema per le istituzioni di istruzione superiore. Gli studi riferiscono regolarmente che gli studenti consumano alcool in una percentuale che va dall’86% al 95%. (…). Il binge drinking è identificato come il rischio numero 1 per gli studenti. Altre ricerche suggeriscono che la notevole reperibilità e disponibilità di alcool fa di esso una "droga d’ingresso" che conduce all’uso di altre pericolose droghe"(Wechsler e.a., 1997) (corsivo nostro). Ancora abbiamo:

"il consumo di alcool e il binge drinking, in particolare, sono visti come i maggiori problemi in molti campus.(…). Le conseguenze del binge drinking sono fisiologiche e comprendono lesioni, problemi epatici e neurologici, suicidi, e il rischio di malattie a contagio sessuale. Le conseguenze sociali includono reati violenti, comportamento antisociale, scarso rendimento scolastico, e conseguenti problemi sociali" (Smeaton e.a., 1998).

D’altra parte la sbronza del venerdì o sabato sera è un’abitudine comune molti paesi Europei, e non solo fra i ragazzi, senza destare toni così allarmistici. Sicuramente non mancano problemi di alcolismo e altre forme di disagio sociale in Europa come negli Stati Uniti, ma la superficiale stigmatizzazione di comportamenti che solo in una minoranza di casi, ed in concorso con altri fattori, si traducono in patologie è un segnale dell’assenza negli Stati Uniti della figura del sociologo come scienziato sociale "in senso proprio" (Ferrarotti, ibid., pag. 202). Nella sociologia americana manca, per quanto ho visto, un personaggio che tenti di tracciare un quadro complessivo della società in un dato momento (pur con tutti i limiti che un simile sforzo implica) e che lavori per fornire alla gente comune nuove e diverse chiavi interpretative della realtà.

Mi chiedo come sarebbe accolto, per esempio, negli USA il rapporto sull’alcolismo di EURISPES del ’93, il cui preambolo presenta uno studio critico sul consumo di alcool nel corso della storia, non solo, ma anche sulle radici sociali, culturali ed ideologiche che hanno determinato gli atteggiamenti di tolleranza o di avversione nei confronti del consumo stesso.

Riassumendo, se accettiamo la distinzione di Ferrarotti sui ruoli pubblici del sociologo, possiamo ipotizzare che se in Italia il sociologo è uno scienziato sociale "puro", un interprete globale della realtà, negli Stati Uniti esso è un professionista autonomo, dedito alla ricerca sul campo su questioni specifiche legate alle forme di disagio delle società in cui vive. Questo implica una profonda differenza nell’approccio teorico alla materia: in Italia e in Europa in genere, essa è approcciata "umanisticamente", con una attenzione particolare alla conoscenza diretta dei classici e alla storia evolutiva del pensiero, laddove negli Stati Uniti essa, avendo una funzione pratica, simile alla medicina o all’ingegneria, è presentata da una prospettiva "scientifica" , cumulativa, e al di fuori di una prospettiva storica e sistematica.

 

Bibliografia

Corsale Massimo (2000): L’identità del sociologo Edizioni goliardiche, Trieste

Durkheim Emile (1996): Le regole del metodo sociologico Editori Riuniti, Roma

Eco Umberto (1983): Diario Minimo, Mondadori, Milano

EURISPES (1993): Rapporto sull’alcolismo (A cura di Alessandra Fagioli)

Ferrarotti Franco(1997): Introduzione alla sociologia (2° ed.) Editori Riuniti Roma

Hagan John (1994): Crime and disrupte citato da Shutt R. 2001

Izzo Alberto (1994): Storia del pensiero sociologico Il Mulino Bologna

Merton Robert. K (1992): Teoria e struttura sociale (8° ed.) Il Mulino Bologna

Punch Maurice (1978): Politics and Ethics in Qualitative Research American Sociologist. Vol 13

Sherman Lawrence W, Berk Richard A. (1984): "The specific deterrent effect of arrest for domestic assault" American Sociological Review Vol. 49 Aprile

Shutt Russel K. (2001): Investigating the social world (3° ed.) Pine Forge Press Thousand Oaks Ca

Smeaton George e.a.(1998): College Students’ Binge Drinking at a Beach- Front Destination During Spring Break students in " Journal of American College Health" maggio

Wechsler Henry e.a., (1997): Binge drinking among college students in " Journal of American College Health" maggio




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