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NOTE

Il piccolo principe deve essere re
Sovranità collettiva e comunicazione alla prova della modernità

di Flavio Silvestrini

Quali sono i possibili punti di convergenza tra lo studio della comunicazione e lo studio dei processi politici, in particolar modo democratici? In qualsiasi modo si vogliano fornire risposte plausibili a tale quesito, crediamo sia imprescindibile partire dall’assunto fondamentale che la democrazia è prima di tutto un insieme di modalità comunicative poste in essere nella società politica.

Viene proposta allora una convergenza obbligata fra le forme della comunicazione e le forme con cui si sono espresse le categorie del Politico, soprattutto nella peculiarità del processo Democratico: l’occorrenza storica della democrazia segna, in maniera netta, un passaggio paradigmatico nei confronti dei sistemi politici non democratici, ma, come lo studio della comunicazione chiarisce, le occorrenze sociali sono molte di più e molto più contaminate rispetto a una semplice organizzazione binaria.

Infatti, prendendo in considerazione lo specifico delle teorie riguardanti la comunicazione, in un’ottica informazionale viene messa in risalto una dinamica che proceda in un’unica direzione, basata sul concetto di "trasmissione"; il modello comunicativo che ne deriva pone in evidenza flussi di comunicazione molto semplificati, in cui si può sempre distinguere chi ha la titolarità del processo e chi solamente lo riceve,(1) e deve in ogni caso presupporre un’asimmetria dei rapporti di forza visibile. Diametralmente opposto è l’approccio relazionale, in cui la comunicazione si ricongiunge alla radice etimologica di creazione della koiné, intesa come "luogo" della comune volontà, costituirsi di una comunione di cultura. Chiaramente, risulta che l’accostamento della comunicazione con la comunità restringe molto il campo d’analisi, rendendo "comunicativi" solo fenomeni sempre più specifici, che si rifanno a un grado di socializzazione intrinseco del comunicare niente affatto trascurabile. D’altronde, segnando le differenze fra i due paradigmi in ordine al grado di complessità accettato, l’orientamento relazionale della comunicazione "tollera" un maggior grado di complessità, tentando di legarsi a dinamiche sociali difficilmente semplificabili; il paradigma informazionale è basato invece su processi più generici, in cui le dinamiche comunicative si applicano su schemi configurati in maniera non "composita".

Questa divisione, tuttavia, non costituisce altro che una sistematizzazione funzionale, retaggio probabilmente di una dialettica rifluente che governa le speculazioni scientifiche e filosofiche: posizionandoci all’interno dell’uno o dell’altro paradigma, possiamo distinguere processi comunicativi latu sensu "informazionali" o "relazionali", mentre nell’occorrenza empirica è riscontrabile la fluidità del concetto di "comunicazione", la convivenza di aspetti più orientati verso la relazione o l’informazione. In altri termini, correndo il rischio di generalizzare, le sfere dell’esperienza attorno a cui la società tardo- moderna si costituisce e si ridefinisce in continuazione sono oltremodo irriducibili in un monoscopio sempre valido.

Ora, è da ritenere, che anche le forme politiche che organizzano il territorio siano il prodotto più o meno bilanciato di fenomeni opponibili, che riteniamo spiegabili attraverso lo studio delle modalità attraverso cui una società comunica(2). Per affermare il grado ultimo di democrazia(3) (ideale poi nemmeno tanto auspicabile), deve prevalere in toto un processo comunicativo relazionale, basato cioè sul confronto ostentatamente perequativo di una società politica. Nella realtà, però, le democrazie si sono affermate come feed-back nei confronti di un potere che solamente informava, per poi entrare effettivamente nel processo della decisione politica: uno dei più delicati equilibri delle democrazie, di quelle che abbiamo visto realizzarsi, è, non a caso, il suo essere, secondo una nota definizione, il sistema politico che toglie il potere all’avente diritto (il cittadino sovrano) nella misura minima per consentire una forma di governo. Paradossalmente allora, volendo dettare delle precauzioni di metodo, non è possibile spiegare fenomeni sociali complessi con un monoscopio deciso e fisso, anche quando si abbia l’intento di rendere appieno ragione della inusitata quotaparte di socializzazione liberata odiernamente esperibile. Sul versante opposto, qualora prevalga totalmente un paradigma informazionale, siamo di fronte all’organizzazione politica del potere assoluto. Anche quest’ultima, come si può evincere analizzando il pensiero di Hobbes, sebbene basata sulla politica della realtà, è più da vedere come ideale regolativo che come regime politico realizzabile nella sua interezza, perlomeno in un contesto moderno.

I due esempi considerati devono essere intesi come "estremi teorici" che, in analogia ai paradigmi sulla comunicazione, vanno da un livello di accettazione della complessità totale, e per questo, come visto in precedenza, metodologicamente spiazzante, ad una sua totale negazione. Ma, fra queste due polarizzazioni, vi sono molteplici sfumature di grigio, rappresentate dalle forme di governo del territorio che storicamente si sono avvicendate: l’occorrenza comprovabile storicamente è molto spesso un "inquinamento" delle prospettive teoriche. Per tutti i teorici della "Democrazia", il problema è stato capire dove cominciasse quest’ultima e dove ci si trovasse nella zona dell’ "Altra forma di governo". Questa speculazione riveste un particolare significato, poiché tutti dovrebbero avere in mente, anche traendo dalla propria esperienza politica, qual è l’insieme delle differenze "sensibili" che distingue un sistema democratico da uno che non lo è; ciò senza dover ricorrere a teorie di "grande respiro", ma con la semplice "storia di vita"(4)

È allora possibile unire percorsi scientifici in maniera fruttuosa, cercando di legare, in modalità auspicabilmente condivisibili, lo studio della comunicazione con lo studio della politica, due processi che nella società complessa difficilmente possono essere valutati separatamente. Si tratta di un importante passaggio, che consente di rimettere in discussione le varie teorie sulla democrazia, evitando quindi quel "bisogno" tassonomico che mal si concilia con una realtà sociale basata sul Soggetto, à la Touraine(5): crediamo più calzante riferirci a livelli diversi di democrazia, quali esiti di processi più o meno bilanciati fra due paradigmi politico-comunicativi nettamente differenziabili. Lo studio dei sistemi attraverso cui la comunicazione agisce, può allora rendere, in altre e molteplici prospettive, gli aspetti politici di una società, insistendo sulla pluralità di significati che nella teoria e nella pratica delle scienze ha caratterizzato l’approccio all‘ "oggetto comunicazione".

Fuori da logiche necessarie di considerare le problematiche politiche della società complessa, una teoria comunicativa della democrazia crediamo renda visibile perché è legittimo chiamare una società "democratica", ma al contempo può costituire un utile metron per valutare il livello di democrazia raggiunto. Parallelamente, un siffatto modo di rapportarsi a tali problemi, supera una questione di fondo che anima il dibattito fra i politologi, e cioè se esista un’alternativa migliore(6) alla vita democratica; negare un’opzione più "felice" della democrazia, non ci esime dal cercare indirizzi per migliorarla, renderla più "democratica". Rendere chiare le strutture comunicative di un governo, può allora restituire valore a una terminologia spesso inflazionata da eccesso di definizioni, recuperando preziosi binomi termini-valori ormai disgiunti, quali pluralismo, identità civile, solidarietà, che si vivificano nei luoghi della sovranità collettiva. L’assunto di fondo è sia di metodo che di pratica quotidiana, una determinata impostazione di analisi rispecchia ciò che si crede essere plausibile nel sistema sociale complesso: per essere politicisi comunica, comunicando si pratica la cittadinanza.

Come prima veniva introdotto, dedicarsi allo studio dei gangli comunicativi del processo democratico può offrire altresì l’opportunità di tracciare prospettive evolutive del modo in cui conviviamo politicamente. L’evoluzione della democrazia, d’altronde, non può che fondarsi sul rispetto della complessità sociale che caratterizza tutta la vicenda della modernità, e che è continuamente richiamata nell’innervatura comunicativa che la società è in grado di predisporre. Se allo svuotamento postmoderno non si è in grado di recuperare una pars construens volta alla ripolitizzazione della stare assieme socialmente, seppur considerando la labilità e la temporalità di simili iniziative, probabilmente non vi è lo spazio per riconfigurare comunicativamente i luoghi della convivenza politica. È fuor di dubbio, infatti, che un sistema politico che voglia farsi vettore della società complessa deve partire da una precisa riconsiderazione del ruolo della cittadinanza (si ricordi a tal proposito lo svuotamento di significato del "lessico democratico" cui continuamente assistiamo), non più solamente emanazione da centri forti, ma consapevole di potersi relazionare nei topoi della convivenza politica. Altresì, solo attraverso una proficua rivalutazione del ruolo che riveste la costruzione di una sfera politica attiva e non sclerotizzata che quest’ultima può rappresentare il vettore delle varie sfere dell’agire umano(7) rimettendo in campo l’azione positiva della modernità ma al tempo stesso instaurando un rapporto simbiotico con la complessità crescente.

"…...le cose crollano, il centro non può reggere…."(8) Probabilmente avrà avuto ragione una volta ancora il premio Nobel per la letteratura del 1923 William Butler Yeats , il quale, all’inizio del Novecento, aveva lanciato il suo grigio anatema sul mondo Moderno. Ai suoi occhi di irlandese, accanito divoratore di miti, tradizioni celtiche, probabilmente la Londra di fine Ottocento - che già aveva assorbito la vetrina dell’età vittoriana culminata con la colossale Esposizione del 1851 - doveva apparire proprio alla soglia del caos epocale. Non era del resto l’unico, e nemmeno il primo, visto che, già nel 1835, Alexis de Tocqueville(9), dopo aver esaltato nella sua relazione sulla democrazia americana la sintesi di una società fondata nel rispetto degli ideali del 1776, un’industria ispirata ai criteri del "tempo è denaro" frankliniano e un consumo orientato alla comunicazione di forme estetiche, ammoniva sulle possibili crisi ingenerate da dittature delle maggioranze.

In effetti il "centro" resse, ma ciò che è rimasto dell’insieme di colle aggreganti della società moderna costituisce il prodotto filtrato e disciolto di un processo che ha redistribuito in una cartografia quanto mai instabile il peso specifico delle agenzie di socializzazione, attraverso un continuo rimando tra complesso sociale e lo studio scientifico di questo.

Procedendo nella riflessione sui contributi che hanno sviluppato il pensiero democratico, alla luce delle problematiche che si sono sviluppate in seno alle teorie della comunicazione, valorizziamo la società democratica come processo storico tutt’ora in atto, che trae le sorti ancora all’interno della civiltà moderna. E il processo della modernità viene centrato sul vettore comunicazione quale "ponte" di conoscibilità fra territori del sapere troppo spesso tenuti distanti.

 

NOTE

(1) Molteplici sono le sfumature di significato che ha una concezione della comunicazione così intesa: ad esempio, nello studio degli effetti della comunicazione, molti esperimenti sono stati basati su uno schema stimolo-risposta; si cercava così di intendere quali conseguenze producesse un messaggio in determinati destinatari. Altresì, il paradigma informazionale, nella versione più essenziale, si adatta molto bene alle teorie della cibernetica, nelle quali lo scopo è il trasporto di una "risorsa" da un punto all’altro del sistema. Per una completa ricognizione degli studi sulla comunicazione cfr. M. Wolf (1985), Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 1996, o anche M. L. DeFleur – S. J. Ball-Rokeach (1989), Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, il Mulino, 1995.

(2) Questo approccio di ampie vedute all’oggetto comunicazione è ripreso da un’opera di Mario Morcellini, Passaggio al futuro. Formazione e socializzazione tra vecchi e nuovi media, Milano, Franco Angeli, 1997, in cui modelli comunicativi opponibili venivano adoperati per spiegare la mutata socializzazione del bambino.

(3) È questa la via che percorrono i nemici della democrazia, definendola come rinuncia all’esercizio del potere, o meglio "caos dell’eguaglianza" (à la Hobbes). Seguendo invece la dimostrazione di R. A. Dahl (1989, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 25-95), la democrazia si differenzia egualmente dall’anarchia e dal governo dei custodi (viene qui ripresa la figura del phílax di origine platonica), in quanto è un esercizio del potere ma nel rispetto del diritto democratico di un "popolo sovrano".

(4) Un appunto, probabilmente è proprio lo sradicarsi dalla pratica comune che rende un sistema politico in affanno rispetto al "mondo concreto". Il problema diventa ancora più cogente laddove una forma di governo faccia assegnamento proprio sulla possibilità di una partecipazione collettiva continuata e consapevole, come nel caso della democrazia. Su questo passaggio entrano in crisi le dottrine elitiste della democrazia, proprio nel porre in secondo piano tale fondamento valoriale, riducendolo, come fa con consapevolezza Joseph Schumpeter, a una "chimera" vagheggiata e irrealizzabile.

(5) Cfr. A. Touraine, La democrazia come politica del Soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1997.

(6) Per una ricognizione classica delle motivazioni che rendono la democrazia l’alternativa politica migliore si può vedere R. A. Dahl, La democrazia ed i suoi critici, op. cit., p. 212-225.

(7) Facciamo riferimento in questa sede all’opera di Habermas, in cui i termini della modernità vengono calibrati sulle dinamiche di una società politica comunicante, evitando però l’eccessivo idealismo di matrice arendtiana. Al contrario, soprattutto negli ultimi scritti il percorso, che riteniamo iniziare con La Teoria dell’agire comunicativo, intentato dal sociologo tedesco, si pone effettivamente a confronto con dinamiche concrete dello "stare assieme in politica", ponendo addirittura al centro della propria speculazione la "ragionevolezza del dover essere" di matrice kantiana esprimentesi nel ruolo di mediazione che riveste la forma moderna del diritto positivo (cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998).

(8) W. B. Yeats (1956), Il Secondo Avvento, in Quaranta poesie, Torino, Einaudi, 1965, p. 45.

(9) Cfr. A. de Tocqueville (1835), La democrazia in America, Milano, Rizzoli, 1982.




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