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Saggi

 

Il duplice antisemitismo, anti-arabo e anti-ebraico[1]

 

 di Cristina Mariti

1. Perché duplice antisemitismo?

 

Semitismo e antisemitismo: la polisemia vuol essere provocatoria, con riferimento alle rappresentazioni sociali del pregiudizio. Un sasso gettato nello stagno dopo le vicende terroristiche, che, scompaginando gli universi di significato delle società occidentali, le costringe a riconsiderare i propri sistemi simbolici.

Unificare nella stessa categoria dei nemici dell’Occidente due popolazioni antinomiche quali l’ebraica e l’araba è, infatti, pura provocazione. Le comuni radici linguistiche non comportano certamente un’identificazione razziale, tanto più che i semiti stessi, lungi dal costituire una “razza” (qualsiasi significato si voglia attribuire a tale discusso termine), sono un insieme di formazioni etniche diverse che di comune hanno o, per meglio dire, avevano le espressioni della comunicazione. Eppure, l’idea che gli antenati eponimi dei tre principali gruppi razziali (neri, ebrei e ariani) risalgano ai tempi di Noè ha resistito nel corso dei secoli e le similitudini linguistiche sono state lo strumento che ha permesso antichi e preziosi studi filologici, tanto che ancora nel XVIII secolo, l’arabo e l’ebraico venivano classificate come lingue affini.

Fu l’attribuzione di un significato razziale al termine “semiti”, avvenuta in gran parte per la confusione di lingua e di razza, a far designare come semitica la popolazione ebraica[i], che poi designò come “antisemitismo” l’atteggiamento dei suoi nemici. Oggi con tale termine nelle scienze storiche e sociali si indica un atteggiamento che implica stigmatizzazioni razziste e si distingue pertanto dall’antico antigiudaismo, caratterizzato da una connotazione eminentemente religiosa. Peraltro, nella stessa area geografica compresa tra il Nilo e l’Eufrate hanno avuto origine le tre grandi religioni monoteistiche, che sono giunte sino a noi passando indenni, o quasi, tra le pieghe millenarie della storia e ancora giocano un ruolo di grande importanza.

Quando la distinzione di Chiesa e Stato non era ancora chiara o non era di fatto ancora osservata neanche in Occidente, nel mondo cristiano vi furono per secoli espressioni di ostilità contro le stirpi semitiche e si consolidò una sorta di pregiudizio stabile, in cui prevalsero di volta in volta le componenti religiose, geopolitiche, ideologiche e culturali.

Nel dibattito recente è stato privilegiato in Occidente il dialogo tra cristianesimo e islamismo, mentre assai ridotte sono state le analisi della mai sopita contrapposizione tra ebraismo e islamismo. Tuttavia, al di là degli eventi del XX secolo, che hanno sollecitato l’attenzione degli studiosi, e dell’assuefazione quasi generalizzata all’incancrenito conflitto mediorientale, che sembra contrastare la riflessione, ebraismo e islamismo sono accomunati, non solo in Occidente e nonostante la loro diversità, da un’oggettivazione del pregiudizio razziale.

Due mondi contrapposti, dove il disegno geopolitico li ha costretti a una (in)compatibilità obbligata, le forme spirituali della religione hanno scavato trincee millenarie, i sistemi di valori e gli universi culturali si sono nutriti e hanno alimentato antiche avversioni, il modello occidentale rappresenta un nemico o un esempio. Due mondi che hanno condiviso ciò che li ha da sempre separati, fra cui l’essere oggetto del pregiudizio e la comune propensione a inasprire e sopravvalutare le regole religiose e le rivendicazioni territoriali

Dopo gli eventi terroristici, nell’immaginario collettivo, il processo di costruzione di un nuovo nemico simbolico ha avuto facile gioco e ha unificato parte delle coscienze occidentali nella designazione, peraltro accelerata nel tempo e sollecitata dalle suggestioni e dall’emotività, di un nuovo “straniero” contro cui dare libero sfogo all’ostilità propria del pregiudizio. Per una logica compensativa, l’effetto dello spostamento dei meccanismi discriminatori, trasferiti su un’identità etnica fortemente coesa, altamente rappresentata, significativamente esposta in termini integralisti e soprattutto artefice di nuove strategie “militari”, avrebbe dovuto favorire la disattivazione del pregiudizio antiebraico. Così però non è stato e i tre vertici del triangolo, vale a dire l’Occidente (secolarizzato), l’islamismo e l’ebraismo, manifestano pericolose reciprocità discriminatorie per l’intreccio di elementi che rimandano alla posizione geografica, alla situazione politica e ideologica, alle contingenze religiose e culturali.

 

 

2.      I tre lati del triangolo: Occidente, Islam, Ebraismo

 

Islamismo ed ebraismo hanno alternato per secoli periodi di tollerante convivenza, anche dopo l’esodo massiccio nei territori musulmani degli ebrei sopravvissuti alle persecuzioni cristiane nel Medioevo, con reciproci proficui scambi religiosi, scientifici e filosofici, e altri, di conflitti caratterizzati da persecuzioni per opera di entrambi.

Viceversa, nel corso dei secoli, tra Occidente e Islam vi è stata soprattutto una storia di conquiste, realizzate tra l’altro in nome di un’identità etnica caratterizzata da una forte componente religiosa. In sostanza si è trattato di una “costante” storica, che, con alterne fortune, ha visto il dominio, la creazione di imperi e il controllo di territori. Il rapporto di forza tra Occidente e Islam ha avute valenze militari, con corollari religiosi etnici e culturali, mentre gli ebrei, minoranza demografica e diaspora geografica, hanno acquisito un ruolo in virtù dell’elemento religioso.

In effetti, nella triade cristianesimo/islamismo/ebraismo, il primo riconosceva un solo predecessore e una sola minoranza, il giudaismo e gli ebrei; il secondo identificava due predecessori, dei quali uno, il cristianesimo, assolutamente prioritario e l’altro, il giudaismo, scarsamente rilevante in termini quantitativi e, non di rado, “alleato debole” nell’opposizione al cristianesimo.

Poche sono nel mondo classico delle arti e della letteratura islamiche le confutazione delle dottrine ebraiche, invece costantemente presenti nella cultura cristiana. I Paesi musulmani, d’altronde, fino al Medioevo hanno rappresentato la civiltà dominante in termini di potere, di scienza e di economia, il che ha loro spesso concesso un ruolo autoreferenziale.

Gli stereotipi tramandati nel mondo musulmano si focalizzano su una figura di ebreo sostanzialmente “ostile e malevola”, la cui azione è risultata “efficace” e vincente nei confronti del Cristo, ma “inefficace” e perdente rispetto a Maometto, creando così una duplice valenza: “Per i cristiani, l’ebreo ha rappresentato un potere oscuro e mortale.., per i musulmani egli poteva essere ostile, scaltro e vendicativo, ma era anche debole e inefficiente, oggetto di ridicolo, non di paura” (Lewis 1987, trad.it.1990). Ciò è tanto vero che, infatti, le enclaves ebree vissero a lungo nel mondo musulmano in una condizione di prosperità ed anche durante le fasi “persecutorie”, queste si limitarono più che altro a pratiche di segregazione esercitate nei confronti di una minoranza religiosa, con la quale esistevano, tra l’altro, radici linguistiche e teologiche simili.

Infatti, le convergenze religiose tra giudaismo e islamismo riguardano tuttora la pervasività della legge divina su ogni aspetto dell’esistenza individuale e collettiva (dimensione, questa, sconosciuta al cristianesimo), e l’assenza di un capo religioso universalmente riconosciuto, come avviene, viceversa, nella chiesa cristiana, in quanto il corpo sacerdotale è formato da uomini dotti, teologici e giuristi, ma non consacrati. Il proselitismo, inoltre, contrariamente a quanto avviene per la fede cristiana, non fa parte della religione musulmana (gli “Altri” per il fatto di appartenere ad una diversa religione sono antagonisti) così come per gli ebrei la conversione non consente, tout court, l’appartenenza al popolo ebraico Inoltre, nell’ambito religioso-culturale, vige per entrambe le fedi l’obbligo di rispettare le norme sul regime alimentare e la pratica della circoncisione, regole anche queste estranee al cristianesimo (Lewis 1987).

Lo stigma di cui è stato fatto oggetto l’ebreo nel mondo occidentale ha a che fare, tra l’altro, con la dispersione territoriale del popolo eletto, che ha indotto alla creazione di comunità significativamente differenti le une dalle altre, tenute assieme dalle radici etniche, dalle tradizioni, dall’aspettativa escatologica, ma sostanzialmente impreparate e logisticamente impossibilitate a organizzare e gestire una “resistenza” al pregiudizio.

Altrettanto non si può attribuire all’universo musulmano, che nel corso dei secoli ha saputo mantenere una forte identità territoriale, per la stabilizzazione in grandi aree geografiche limitrofe, sopravvissuta a prolungati eventi storici, quale la colonizzazione. Durante questa fase, il mondo arabo è stato, nella sua complessità, osservato e spesso giudicato positivamente dalla modernità. L’inversione di tendenza è avvenuta nel periodo postcoloniale con la saldatura, a livello istituzionale, dell’elemento politico con quello religioso.

Nel tessuto sociale e nella quotidianità dell’Occidente le forme del pregiudizio anti-arabo sono emerse, tra l’altro, quando i movimenti migratori hanno trasferito masse di individui e, con loro, elementi di sistemi culturali che, mettendone a rischio l’integrità identitaria, hanno determinato la trasformazione della visione dell’Altro.

Non è marginale che il “gioco delle interazioni” come elemento del riconoscimento altrui, trovi nella “vicinanza ambientale” una nuova dimensione: inclusione ed esclusione, integrazione ed emarginazione, vicinanza e lontananza diventano, in tal modo, i poli di una configurazione sociale dello straniero[ii]. Non secondaria è la composizione sociale dei nuovi stranieri, generalmente soggetti poco acculturati, che dal Paese di origine trasferiscono non solo biografie cariche di aspettative, ma ancor più patrimoni identitari cultural-religiosi necessari al riconoscimento del sé e della propria collettività.

L’innesto di vaste collettività islamiche in un sistema culturale assai stabile come quello occidentale  -  in cui il sistema di valori, siano essi sociali ed economici, può difficilmente aprirsi per comprendere appieno la diversità islamica  -  rappresenta la peculiarità dell’attuale immigrazione e ne segnala la difformità rispetto ai movimenti migratori (e “colonizzatori”) del periodo a cavallo tra ottocento e novecento, che spostarono, sì, milioni di persone, ma in ambienti geografici e in tessuti sociali tutti da esplorare e sviluppare.

L’irrigidimento dei confini identitari come garanzia di (auto)conservazione è stata più volte violata, nell’esperienza storica, dall’esplosione di conflitti. Ne è derivato uno scambio culturale che ha rappresentato un potente strumento di ibridazione che ha disposto al mutamento, pur preservando la sacralità del sistema di valori.

Di fatto, i processi di integrazione avviati dalle comunità islamiche nei Paesi europei pongono all’Occidente l’obbligo di rivisitare il concetto di “lontananza”, data la presenza nella quotidianità di un “Altro” islamico, e ai musulmani la necessità di ridefinire le proprie categorie simboliche e valoriali che stanno alla base del loro sentirsi “diversi”.

Viceversa, nel mondo arabo l’opzione della resistenza all’acculturazione occidentale ha prodotto una frammentazione di risposte con la nascita di pluralizzazioni culturali. Prendendo a prestito le generalizzazioni empiriche proposte da Toynbee (1964), l’Islam ha lasciato penetrare solo gli elementi più superficiali e meno indesiderabili della cultura occidentale, che a breve termine si fissano solo a livello “epidermico” nel tessuto sociale. Ma l’innesto di fattori modernizzanti, portatori di opzioni eterogenee in un corpo sociale differenziato e diversamente stratificato, producono effetti radicalmente disomogenei, per l’inevitabile processo di “autocolonizzazione” dovuto all’inarrestabile “potenza radioattiva” della civiltà dominante.

La modernizzazione dell’Islam è un processo innestato nel più complesso percorso di secolarizzazione, che implica altresì l’apertura all’autonomia della politica, svincolandola dalla sfera di influenza della religione (laicizzazione). Formule flessibili in tal senso sono state realizzate in paesi quali la Tunisia e il Marocco, dove resistono alcune enclaves di superstiti di quelle comunità ebraiche un tempo tanto numerose e la cui sicurezza dipende dalla sopravvivenza dell’attuale ordinamento politico.

Tale processo, acceleratosi nel periodo postcoloniale, ha importato forme di modernizzazione sociale che hanno interessato l’ambito della scolarizzazione, del ruolo femminile, dell’urbanizzazione e della differenziazione sociale. Da questi elementi d’innovazione sono originati nuovi “modelli” di conflitto, che rimandano alle relazioni tra le generazioni (padre-figlio), i sessi (uomo-donna) e chi emigra e chi resta e ai legami territoriali (città-campagna) (Choueiri 1990).

Tali elementi appaiono ormai anacronistici nelle culture occidentali, mentre conservano, nella cultura islamica ed in quella ebraica ortodossa, notevole rilevanza. Eppure, nelle società islamiche multirazziali e multireligiose, si osserva come gli interessi e le diverse categorie culturali tendano a generare una pluralità di politiche, le quali, a parte i conseguenti conflitti, che inducono al mutamento, contribuiscono a indebolire e svuotare di significato le stesse norme dell’Islam (Choueiri 1990). La reciproca contaminazione culturale e religiosa avvenuta nella regione mediorientale dovrebbe rappresentare una garanzia, se non di intenti, quantomeno di intese.

 

 

3.      Il profilo delle diversità

 

3.1         La diversità islamica

Il sistema islamico è principalmente sacralità, in cui l’amalgama delle aspirazioni a un’identità più vasta, a una fedeltà che trascenda i confini delle configurazioni nazionali e a un’autorità più illustre che guidi tutte le nazioni musulmane (Lewis 1991) resta un’indicazione progettuale che unifica, di fatto, le masse arabe.

Non è complementare, infatti, che pur nelle differenziazioni ideologiche, strutturali e di politica interna e internazionale, la galassia degli Stati arabi continui a ricercare circostanze di incontro e di confronto sulla base della comune appartenenza a una fede religiosa: un procedimento totalmente sconosciuto nei moderni sistemi occidentali, in cui il modello dei blocchi contrapposti è stata una costante storica.

La radicalizzazione religiosa che trascende il sistema sociale si avvale dell’uniformità al principio secondo cui i contenuti religiosi non possono essere scomposti o liberamente interpretati (inerranza), né collocabili in una prospettiva storica o di mutamento della società islamica (astoricità) e, viceversa, prevalgono sulla legge terrena, perché portatori di un modello di società perfetta (superiorità) che rende assoluto il sistema di credenze e a cui i fedeli aderiscono in virtù dell’etica della fraternità (mito della fondazione) (Pace et al. 1998).

L’insieme dei simboli religiosi e culturali di cui i seguaci dei movimenti fondamentalisti si avvalgono, assume una valenza assai significativa; il ricorso, cioè, a forme rituali e slogan linguistici di immediata comprensione facilitano la comunicazione e l’interiorizzazione del messaggio che, non di rado, è un messaggio forte, che parla alla parte più intima dell’individuo, strutturata nelle fasi della socializzazione, quella dei legami identitari e dell’appartenenza ad una collettività fortemente coesa.  Questa percepisce a livello emozionale, “epidermico” il pericolo e la minaccia che, di volta in volta, può assumere diversi volti, dall’occidente capitalista al secolarismo, dallo stato moderno eticamente neutrale al pluralismo democratico (Pace et al. 1998).

Nonostante le forti spinte a una occidentalizzazione pervasiva e globalizzante, gli universi simbolici sono ancora fortemente preservati nell’Islam e la modernità degli occidentali, estensibile agli ebrei, si configura come una minaccia al mantenimento dei processi di identificazione e alla conservazione di contenuti e forme di islamocentrismo. La costruzione di un polo negativo permette così all’altro polo di identificarsi positivamente.

La creazione dello Stato d’Israele nel 1948 compromette fortemente il processo di conservazione dell’identità araba, generando grandi processi migratori dalla Palestina verso i Paesi vicini. La radicalizzazione della questione trova un punto di forza proprio nel “tradimento” perpetrato dalle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e dalle successive responsabilità dei governanti arabi, che, privilegiando le relazioni con l’Occidente (questione petrolifera), hanno frenato fortemente i processi di crescita politica.

Ciò emerge dall’analisi della modernizzazione dello Stato musulmano, realizzata su un modello reticolare che ricongiunge gli interessi di gruppi creatisi attorno a famiglie o a ceti professionali e militari formatisi in Occidente e quindi a conoscenza della cultura non islamica. Il fondamento degli Stati postcoloniali è basato su un tipo di corporazione moderna, che implica il connubio tra clientela e parentela, e proprio in questo sistema il fondamentalismo si rivela più forte e meglio organizzato (Pace 1994).

La modernizzazione islamica non è tanto un fenomeno autoprodottosi culturalmente e di lunga maturazione quanto l’effetto della consapevolezza, elaborata nel pur breve periodo postcoloniale, della distanza scientifica e culturale del mondo islamico, verso cui la scolarizzazione, la diffusione dei mezzi di comunicazione, i timidi tentativi di industrializzazione, la trasformazione dei ceti sociali legati alla tradizione agricola e artigianale in nuovi soggetti urbanizzati rappresentano un antidoto politico di medio raggio.

Nell’Islam i processi di laicizzazione e secolarizzazione sono originati in opposte categorie, il primo ha la matrice nella sfera politica come proposta di separazione tra stato e religione, evento questo consumatosi in spazi temporali assai ristretti rispetto all’equivalente fenomeno avvenuto in occidente dopo secoli di preparazione. Il secondo corollario, che implica la categoria di “cittadino”, alquanto sconosciuta al pensiero politico arabo-musulmano, ha a che vedere con la trasformazione della coscienza collettiva delle nuove generazioni rispetto a quelli che sono gli effetti della “laicità” del potere il quale deve poter essere, a sua volta, giudicato in termini laici (Choueiri 1990).

La marginalizzazione della popolazione araba nei processi decisionali dell’economia e della politica, nei quali non è impensabile un uso verticistico e strumentale della religione, ha di fatto dilazionato o soffocato la potenziale crescita politica del mondo arabo. I movimenti fondamentalisti hanno raccolto l’eredità storica e culturale dei musulmani e la sfida di opporsi al modello laico importato dall’occidente (Pirrone 2000).

Si tratta, in sintesi, della difficile coniugazione tra memoria e identità, tra tradizione e innovazione, tra modernità e modernizzazione.

 

3.2         La diversità ebraica

Per meglio comprendere la diversità ebraica e il conseguente fenomeno dell’antisemitismo ebraico, è opportuno distinguere brevemente i tre corollari semantici che definiscono e caratterizzano l’identità ebraica, sionista e israeliana.

Essere ebreo significa essere generato da madre ebrea o convertita all’ebraismo, definizione riconducibile al concetto di razza per discendenza materna, il che, secondo la legge rabbinica, comporta che tali si resta anche se convertiti ad altra religione. Secondo la legge israeliana, l’identità ebraica non può essere persa con il ripudio della propria fede né conquistata con la conversione.

L’identità ebraica era stata dominata storicamente dalla tradizione religiosa fino al cosiddetto “illuminismo ebraico” del XVIII secolo, che coincise con l’apertura dei ghetti, quando gli ebrei si accostarono al contesto sociale, culturale e scientifico delle società in cui erano insediati. Tale contingenza li obbligò, in un certo senso, ad una ridefinizione della propria identità collettiva sul piano linguistico (attraverso l’assimilazione della lingua nazionale), liturgico (con la revisione e semplificazione dei riti religiosi) e dell’appartenenza ad una comunità nazionale seppur con una specifica identificazione religiosa. Identità che, a seguito dei pogrom operati nei confronti degli ebrei alla fine del XIX secolo in Russia, divenne oggetto di una nuova “consapevolezza” collettiva, fenomeno che si materializzò nel movimento sionista.

Il termine sionismo riconduce a Sion, nome biblico di Gerusalemme, e connota il magnetismo esercitato dalla Terra Promessa sul popolo ebraico, ma l’elemento di attrazione dei luoghi santi si rapporta altresì alle altre due grandi religioni monoteiste.

Se per il popolo ebraico il ritorno alla Terra Promessa è stata una costante vocazionale, tuttavia il movimento sionista trovò non poche opposizioni sia all’interno che all’esterno dell’ebraismo (in particolare dal regime nazista che riteneva che solo gli ariani avessero diritto alla sovranità politica e fossero dotati della capacità di esercitarla)  e non fu sostenuto neanche dalla diaspora ebraica di quei paesi in cui l’antisemitismo era diffuso e radicalizzato; in fondo, nemmeno la Shoah è stata fattore decisivo per la creazione dello Stato di Israele. Ed è proprio questa situazione di pluralità e coesistenza di “anime” rappresentative della questione ebraica, vale a dire la religiosa, la “nazionalista” e la “etnica”, che denuncia la complessità e l’intreccio delle dimensioni socio-culturali e religiose implicate nell’analisi del fenomeno.

In effetti, l’“anima” religiosa mal si dispose verso il movimento sionista ritenuto sia un’indebita ingerenza delle idee laiche nazionaliste straniere nella comunità e nella specificità religiosa ebraica, sia un’eresia nei confronti della tradizione religiosa della redenzione. Parallelamente, rispetto al movimento sionista, numerose riserve furono espresse negli ambienti non ebrei, dovute anche al prevedibile rischio di conflitti con il mondo arabo, in un’area strategicamente cruciale per le ripercussioni sugli equilibri internazionali. In questo contesto, singolare fu la condotta del regime stalinista, connotato da un diffuso antisemitismo, che fece un uso esclusivamente politico e strumentale della questione ebraica.

Beninteso, i paesi arabi condannarono decisamente la presenza di uno Stato legittimo e riconosciuto, anzi fondato con il contributo e l’appoggio internazionale in un’epoca e in un contesto geopolitico in cui la maggioranza dei paesi arabi viveva anni di grandi fermenti, vuoi per le tensioni e le conflittualità della politica interna, vuoi per il protrarsi del dominio coloniale. Di fatti, in Siria e Giordania, la tutela straniera terminò nella seconda metà degli anni quaranta, Marocco, Tunisia, Libia ed Iran divennero stati indipendenti nel corso degli anni cinquanta, seguiti nel decennio successivo da Kuwait e Algeria: in sintesi, agli ebrei vennero riconosciuti diritti di autonomia politica fino ad allora negati alle popolazioni arabe.

Per di più, lo stato di Israele faceva riferimento, per gli appoggi internazionali, per la composizione etnica e per la provenienza di gran parte dei suoi immigrati, alla cultura, al sistema di valori e al modello economico dell’Europa capitalista, il che rappresentava la premessa di una modernizzazione molto accelerata e di una prevedibile rapida affermazione nell’area mediorientale della nazione israeliana in campo economico, tecnologico e militare.

Con tali premesse, il pregiudizio (antiebraico) si è trasformato in xenofobia (antisionista) allorquando si è materializzata la definitiva presenza in un territorio confinante di uno stato sovrano, legittimo e riconosciuto. Per di più, nella convivenza tra israeliani e palestinesi, in cui la maggioranza esprime il suo ruolo dominante nell’ambito economico-sociale ed in cui la marginalizzazione è divenuta strumento di controllo sociale, inevitabilmente si producono forme di degenerazione sociale che innescano tensioni e conflittualità, sostenute ed (auto)generatesi in particolare all’interno dei movimenti fondamentalisti islamici. 

 Non è trascurabile, tuttavia, ai fini di una giusta collocazione del movimento sionista in un contesto non solo storico, ma anche sociale, l’elemento relativo alla rivendicazione di un’identità politica ebraica come alternativa all’assimilazione degli ebrei nella cultura e nella società occidentale  -  dimensioni in cui essi non si erano mai identificati  -  anche attraverso un processo di superamento della "sovranità" divina in una sorta di emancipazione religiosa.

Nel 1948 fu costituito lo stato di Israele, in cui giunsero principalmente flussi migratori dall’Europa, rappresentanti delle forme storiche religiose ashkenazita (dall’ebraico Ashkenaz Germania) e  sefardita (da Sefarad in ebraico Spagna), entrambe riconducibili alla “denominazione” ortodossa, e l’assenza di una consistente migrazione dal Nord America  -  dove il riformismo religioso conviveva con il conservatorismo e l’ortodossia  -  ridusse notevolmente la differenziazione religiosa nel paese.

D’altro canto l’esodo più rilevante proveniva dai territori dell’Europa orientale perché in quei luoghi la discriminazione antiebraica tendeva pericolosamente ad incrementarsi e l’assimilazione ebraica era sostanzialmente impraticabile, contrariamente a quanto era avvenuto nell’Europa continentale (Germania, Austria).

Molto diversa è stata l’evoluzione della cultura e dell’espressività religiosa ebraica in Europa ed in Nordamerica, dove l’immigrazione ebraica non è stata né più né meno che una componente di quel melting pot in cui ciascuno ha ceduto una parte del Sé ed ha assimilato una parte dell’“Altro”. L’esodo di massa degli ebrei verso gli Stati Uniti rappresentò, in un certo senso, il rifiuto della diaspora e la volontà di rinnovare il modello socioculturale della tradizione, recidendo i vincoli con la comunità ebraico-europea di provenienza. Questo processo di emancipazione si realizzò soprattutto attraverso la negazione di quelle forme onnicomprensive comunitarie che avevano la funzione di controllo e di coercizione sui singoli, sostituendole con l'assimilazione nella nuova realtà socio-culturale (Hertzberg 1998).

In Europa, viceversa, il retaggio storico ed una costruzione identitaria riferita ad un solo popolo in ogni singola nazione, hanno prodotto situazioni reciproche di “chiusura”, in cui gli scambi fra i due gruppi sono risultati assai scarsi ed hanno anzi contribuito alla radicalizzazione identitaria degli ebrei.

La configurazione socio-religiosa dello Stato di Israele si è, pertanto, connotata in senso più conservatore, in entrambe le dimensioni, proprio per la tipologia dei flussi migratori in cui la prevalenza dell’establishment ashkenazita di cultura occidentale ha, per certi versi, discriminato economicamente e socialmente la minoranza sefardita in quanto generalmente riferibile alla cultura del mondo orientale e, quindi, arabo.

Questa contingenza ha orientato nel lungo periodo una politica di carattere più espansionistico e ha dato origine a crisi con la minoranza palestinese; le situazioni di conflitto e di minaccia alla sicurezza del paese hanno avuto, comprensibilmente, la conseguenza di ricompattare rapidamente le diverse anime dell’ebraismo non solo in termini di politica interna, ma anche delle relazioni internazionali: non vanno, infatti, dimenticate la valenza simbolica di Israele per gli ebrei di tutto il mondo, né tantomeno la forza e l’influenza dei gruppi di pressione ebrei nella politica interna ed internazionale statunitense.

Non va elusa, parallelamente, la trasformazione all’interno dello stesso stato israeliano, delle dinamiche politico-religiose tra ultraortodossi e moderati; i primi, infatti, violentemente antisionisti, da qualche anno sostengono fermamente la politica isolazionista, nazionalista ed oltranzista. 

La dicotomia tradizione/modernità, che caratterizza gran parte delle analisi sull’islamismo, svolge una funzione esegetica sull’antisemitismo. Gli ebrei da sempre sono stati strettamente identificati con il capitalismo, con la modernità e con gli strumenti e le strategie del potere economico. Ciò avvenne a seguito della rivoluzione industriale, del declino della società agricola tradizionale, dell’emancipazione degli ebrei e dell’abolizione dei ghetti, tutti elementi che favorirono le comunità ebraiche scarsamente legate alla terra, con una ridotta cultura rurale, impossibilitate a emergere socialmente attraverso l’agricoltura per le restrizioni al possesso di fondi terrieri.

A ben vedere le tipicità della società capitalistica finiscono per corrispondere alle caratteristiche ebraiche, vale a dire limitata cultura agricola, forte mobilità territoriale, spiccata propensione all’urbanesimo, grande competitività, visione spregiudicata del denaro, internazionalizzazione delle relazioni economiche e commerciali (Melograni 1989).

Tuttavia, anche per gli ebrei, che pur erano in una situazione di protagonismo nella fase di avvio alla modernità, è valso il meccanismo della riattivazione e radicalizzazione delle tradizioni per preservare la memoria collettiva. Questo processo, che ha sempre garantito, in periodi cruciali o di grandi trasformazioni sociali, la conservazione dell’identità collettiva, tanto più risulta importante quando i capisaldi dell’identità sono rappresentati da religione ed etnicità, in situazioni di dispersione geografica e in assenza di organizzazioni statuali, come nel caso del popolo ebraico fino al 1948 e, paradossalmente, di quello palestinese dopo tale data.

La dimensione territoriale assume una rilevanza assai significativa che, assieme all’elemento etnico e religioso (messianesimo salvifico), connota il fondamentalismo ebraico. Il sionismo, e più in particolare la costruzione dello Stato d’Israele, è per il fondamentalismo ebraico quello che per il fondamentalismo islamico è il rapporto con l’Occidente: uno straordinario fattore di ridefinizione identitaria.

I movimenti fondamentalisti ebraici (ultra-ortodossi), che hanno sempre avuto un considerevole peso nelle scelte politiche, pur nella variabilità delle situazioni e degli schieramenti, si battono per una “riteologizzazione” dello Stato e si prefiggono di indebolire le caratteristiche laiche delle istituzioni. La crescente influenza, anche nel gioco degli equilibri politici interni, della componente religiosa è rappresentata, tra l’altro, dalla crescita di scuole “indipendenti” di matrice ultraortodossa, che affiancano quelle laiche e “pubbliche religiose”. Nel 1997, il 66% della popolazione scolastica elementare frequentava le scuole laiche, il 21,5% quelle “pubbliche religiose” ed il 12,5% preferiva l’insegnamento integralista (Klein 2000), dato, quest’ultimo, in costante crescita. Così è stato, per esempio, nel caso della colonizzazione nazional-religiosa attraverso la politica degli insediamenti, che ha reso ancor più radicale il modello di controsocietà fondato sull’osservanza della Torah e su relazioni sociali contraddistinte dall’ascetismo e dall’etica del sacrificio, con l’obiettivo della “redenzione” della Terra (Pace et al. 1998).

 

 

4. I due antisemitismi: differenze e analogie

 

Le differenze fondamentali tra i due antisemitismi – quello ebraico, strisciante, con manifestazioni razziste periodiche e violente e con nicchie stabili in gran parte dei Paesi europei e quello islamico, che si estrinseca come fenomeno generalizzante e includente tout court la razza araba e che implica la distinzione fra superiorità culturale dell’Occidente e inferiorità culturale islamica – rimandano, anche se con valenze difformi, a motivazioni religiose, politico-ideologiche e culturali.

Il pregiudizio, come categoria sociologica, designa, e nello stesso tempo connota in senso negativo, atteggiamenti ostili, in presenza di indebite, rigide e superficiali generalizzazioni, che trovano il loro potenziale vitale nella condivisione consensuale e in formule stereotipiche. Nel caso dell’antisemitismo, tuttavia, il solo elemento del pregiudizio non è sufficiente a configurare il fenomeno, nel quale l’insieme di comportamenti, azioni sociali, credenze e atteggiamenti forma un continuum che trascende la singolarità degli elementi, in una scala di nocività crescente (Gallino 1993).

Essendo il pregiudizio una componente selettiva degli schemi interpretativi, le motivazioni che lo strutturano attribuiscono senso e orientamento all’azione sociale.

La connotazione antiebraica assunse in Europa caratteristiche “ideologizzate”, esse stesse ambivalenti. Infatti, l’ebreo, libero di muoversi per le deboli radici territoriali e di produrre, divenne, non di rado, imprenditore e capitalista, nemico di classe, quindi, nel periodo di proletarizzazione degli strati sociali inferiori, ma altrettanto nemico dei gruppi sociali danneggiati dall’industrializzazione.

Il fenomeno antiebraico si produsse, non di meno, su un terreno quanto mai fecondo. In Europa orientale, nel tessuto socioculturale, i sentimenti antiebraici della classe media non avevano origine solo in una ben radicata giudeofobia di carattere religioso, ma venivano alimentati dall’odio verso lo “straniero” che minacciava l’identità e la razza europea; “straniero” che manifestava la sua diversità nella lingua, nell’abbigliamento, nell’alimentazione e che viveva segregato in un ghetto.

Parimenti, i sentimenti di ostilità verso la comunità cristiana si rafforzarono nel corpo sociale ebraico che si vedeva umiliato e forzatamente isolato all’interno di zone rigidamente circoscritte, in cui la salvaguardia della propria identità trovò due strumenti fondamentali nell’osservazione dell’unione endogamica e nello straordinario tasso di incremento demografico[iii]. Altresì, la ghettizzazione indusse allo sviluppo di quelle caratteristiche di intraprendenza e di emancipazione culturale ben rappresentate dal modello di struttura sociale a forma di piramide rovesciata, con l’assenza di realtà contadine, con scarsa rappresentatività operaia e con la concentrazione di addetti al terziario e di intellettuali, struttura socioeconomica esattamente opposta alla tipologia cristiana.

La combinazione di elementi “razziali”, contingenze sociali e circostanze storiche produsse, con la liberazione dei ghetti, un’urbanizzazione accelerata che determinò ben presto l’intensificazione dell’ostilità antisemita.

Risulta assai significativo, in proposito, ripercorrere l’evoluzione secolare delle politiche antiebraiche in Europa, in cui si possono distinguere tre grandi periodi:

1) la conversione, che si estende dal IV al XIX secolo. In questa fase, pazientemente, ancorché non sempre pacificamente, furono compiuti infiniti tentativi di convincere gli ebrei ad aderire alla religione cristiana. Ma le conversioni di massa furono assai sporadiche e, nel Medioevo, divenne pratica corrente considerare ogni “nuovo” cristiano un sospetto “vecchio” ebreo. Dato il fallimento della politica di inclusione dello “straniero per religione”, si provvide a considerare gli ebrei come un gruppo specifico, pericoloso per la fede cristiana. L’Europa, pertanto, pose la popolazione ebraica davanti all’ultimatum della conversione o dell’esclusione dal corpo sociale;

2) l’espulsione. Quando ormai la separazione fra Stato e Chiesa era da molto tempo sancita, nel XIX secolo, per materializzare l’esclusione ebraica, le politiche antisemite ebbero lo scopo di allontanare gli ebrei dall’Europa, inducendoli ad emigrare. Ciò avvenne poiché gli antisemiti non potendo né cambiare né convertire gli ebrei, immutabili nelle loro convinzioni e inamovibili nei loro principi religiosi, non potevano essere assimilati nel corpo sociale;

3) la distruzione, che nel giro di soli dodici anni (dal 1933 al 1945), determinò lo sterminio di cinque milioni di persone, pari a poco meno di un terzo della popolazione ebrea mondiale[iv].

Se, pertanto, nel periodo della conversione, erano state adottate misure contro la popolazione ebraica con lo scopo di proteggere la comunità cristiana e indebolire l’inammissibile ostinazione degli ebrei alla conversione, nel periodo dell’esclusione furono poste in essere leggi che esulavano dall’ambito religioso e riguardavano quello sociale ed economico.

È sorprendente, pertanto, analizzare i parallelismi tra le misure antiebraiche e la legislazione prenazista con i provvedimenti che il regime tedesco ebbe a prendere contro gli ebrei: in sostanza, il sistema sociale era preparato da secoli a compiere il passaggio tra pregiudizio e persecuzione (Hilberg 1985, trad.it. 1995).

Il pregiudizio si alimenta di stereotipi e, nel caso ebraico, la rappresentazione sociale degli ebrei era stata forgiata nei secoli precedenti, ma la transizione aveva anche condotto alla trasformazione dello stesso pregiudizio, da religioso, qual era nel “periodo della conversione”, a razziale, quale divenne nel periodo prenazista e nazista.

Costante nei secoli è stata anche la reazione ebraica al pregiudizio: la resistenza, praticamente inesistente nella storia degli ebrei della diaspora; l’attenuazione, che ha consentito di superare periodi storici più violenti e persecutori; la sottomissione, che ha rappresentato una modalità di sopravvivenza.

Una radicale inversione di tendenza rispetto alle manifestazioni che attentavano all’identità ebraica si è avuta per effetto della creazione dello Stato di Israele. Identità territoriale, religiosa e culturale e identificazione in una comunità in cui la memoria assumeva una rappresentazione simbolica straordinaria hanno fatto da collante per il popolo eletto e, come contraltare sulla sponda palestinese, da elemento di lacerazione.

 

4.1         Differenziazioni religiose

Il cristianesimo ha superato l’ostilità antigiudaica derivata dall’evento della morte di Cristo attraverso l’avvenuto processo di secolarizzazione e quello della riconciliazione, avviato da lungo tempo e recentemente realizzato, con le altre confessioni; la stessa pratica del culto è stata ridimensionata e ricondotta a scelta ed esperienza individuale e soggettiva, laddove l’islamismo conserva una concezione totalizzante della religione, il cui esercizio prescrive anche di avvalersi dell’autorità e della forza per imporre le regole religiose.

Il conformismo religioso, cioè l’aderenza a una fede e a una dottrina, è significativo per tutte le tre religioni monoteiste, ma l’Islam esalta la fedeltà della comunità religiosa (che è poi la massima espressione dell’identità musulmana) che diviene forma straordinaria di consenso e di mobilitazione sociale, attraverso l’insieme delle simbologie, degli appelli religiosi e dei reiterati quotidiani richiami alla dimensione fideistica.

Le differenze più evidenti riguardano la relazione tra Stato e Chiesa: per il cristianesimo, le due autorità (Dio e Cesare) sono da sempre state responsabili di ben separate giurisdizioni, con leggi, sanzioni e gerarchie autonome, seppure nel corso della storia siano state, periodicamente, alleate o antagoniste.

Per l’islamismo, viceversa, le due istituzioni sono inscindibili e potere e fede sono assolutamente compenetrati. Sin dalla fondazione della religione, questa permea, prioritariamente, l’esistenza sociale e culturale dei musulmani.

L’ebraismo rimane in una posizione intermedia, vale a dire che il legame tra religione e Stato è, sì, rilevante, ma nei secoli è rimasto più che altro un riferimento ideale, data l’assenza fino al 1948 di uno Stato ebraico.

In sintesi, nell’Occidente, laico e moderno, il mondo è diviso in Stati in cui si prevedono differenti comunità religiose, mentre nella percezione musulmana il mondo è diviso in religioni, che possono, a loro volta, essere suddivise in nazioni (Lewis 2000).

La trasmissione dei precetti avviene, per le due fedi “semitiche”, in termini funzionali alla conservazione della memoria collettiva, dato che ritengono che nel passato si trovino le radici religiose che consentono di vivere anche il presente.

L’incontro della fede musulmano con la cultura europea ha prodotto una graduale contrazione dell’osservazione delle regole religiose ed il processo di secolarizzazione attiene in particolare alla seconda generazione di immigrati, vuoi per l’oggettiva difficoltà a mantenere inalterati i ritmi e le scansioni temporali della preghiera, e la conservazione delle norme di osservanza in società, come quella occidentale, generalmente poco attrezzate (e non disponibili, spesso, a farlo), legislativamente, logisticamente e strutturalmente.

Il fenomeno, sebbene in modo asimmetrico, concerne anche alcuni paesi arabi, quali Tunisia e Marocco, dove è in rapido declino l’adesione e l’adeguamento rigido alle  rigorose regole islamiche 

 

4.2         Differenziazioni ideologiche

Il regime nazista rappresentò un esempio di singolare duplice “antisemitismo”, in quanto se le due entità semitiche rientravano entrambe nella categoria delle razze impure, pur tuttavia vi fu un uso assai strumentale delle relazioni tra Germania e mondo arabo. Questo guardava con grande attenzione all’esperienza tedesca dell’unificazione dei popoli di identità germanica, come un modello riproponibile nella realtà araba, anch’essa distribuita in una molteplicità di stati. Stemperate, quindi, nell’ideologia e nella propaganda nazista, le stigmatizzazioni verso gli arabi, queste dimensioni divennero strumento potente di pressione contro gli ebrei,  processo che non trovò indugi nell’ambito arabo: in sintesi, l’obiettivo comune compattò il regime nazista e la politica araba e questo evento getta una luce emblematica su come gli eventi storici, le contingenze politiche e le dinamiche degli  equilibri internazionali, che da queste sono prodotte, influenzino il pregiudizio e l’ostilità verso lo straniero.

Le origini storico-politiche del duplice antisemitismo rimandano in buona parte al diverso percorso verso la modernità di occidentali, ebrei e musulmani. D’altra parte l’oggettivazione nella nazione israeliana e nelle nazioni arabe di una politica non di rado fortemente connotata dalla fede ha trovato nella questione mediorientale la linea di demarcazione ideologica.

Di regola gli schieramenti conservatori hanno sostenuto le ragioni sioniste, mentre i progressisti hanno privilegiato il mondo arabo e le sue rivendicazioni.

Peraltro è impossibile categorizzare rigidamente i filoni di anti-ebraismo e anti-islamismo in termini ideologici, poiché, se vi è continuità di antisemitismo ebraico nelle regioni dell’Europa orientale (Russia, Polonia, etc.), la stessa continuità si riscontra in sistemi politici più conservatori.

Tuttavia, la difficoltosa separazione tra ebraismo e sionismo e, quindi, tra pregiudizio antiebraico di matrice identitaria e razziale e quello antisraeliano che rimanda al progetto di nazione, ha come effetto quello di una pluralità di atteggiamenti stigmatizzanti all’interno del medesimo schieramento politico; vale a dire che l’antisemitismo ebreo ha la sua massima diffusione nel fronte di (estrema)destra, ove però esiste sostanzialmente da sempre ed oggi più che mai, l’appoggio alla scelte oltranziste della politica israeliana. Altrettanto, nei partiti e nell’associazionismo politico di stampo marxista, coesistono due anime, una di sostegno alla causa palestinese ed uno di difesa dei diritti del popolo e della nazione ebraica alla sopravvivenza. 

Pur essendo significativa, la discriminazione su base ideologica non è determinante ed esplicativa. Il tempo testimonierà, viceversa, l’impatto che le vicende terroristiche avranno su questa dimensione.

Vale la pena arrischiare, comunque, l’interpretazione che non siano i pregiudizi a determinare e orientare le scelte della politica internazionale, bensì queste ultime a alimentare il pregiudizio nelle comunità nazionali; così come l’islam piega la storia alla fede ed alle norme che la regolano, così l’occidente piega il pregiudizio ai rapporti di forza ed al mantenimento degli equilibri esistenti.

La sovrapposizione, quindi, tra terrorismo e immigrazione appare quanto mai pericolosa e fuorviante, così come la condanna tout court della politica estera dei paesi arabi spesso prescinde dalle reali motivazioni, dal complesso delle dinamiche sociali e di controllo sociale, dalla tipologia dell’ordinamento nazionale, dalla personalità e dal carisma della leadership, tutti fattori che inducono all’omologazione delle nazioni arabe, laddove, viceversa, esistono differenziazioni ben definite di politica interna ed internazionale.

La questione, nell’immaginario collettivo delle società avanzate, si raffigura come un modello dai contorni sfumati e sovrapponibili, con le caratteristiche dell’estraneità e della misteriosità, dimensioni spesso incomprensibili e, comunque, di difficile lettura per le posizioni ideologico-politiche dell’occidente.

 

 

4.3         Differenziazioni culturali

Tali differenziazioni presuppongono una distinzione tra “razza superiore” e “razza inferiore” e implicano una situazione di squilibrio di potere, che permette al gruppo dominante di selezionare le diversità per ribadire il carattere immutabile della differenza.

 Si tratta di categorizzare, quindi, la diversa identità e la connotazione razzista dell’Altro avviene proprio attraverso la categorizzazione (antisemitismo ebraico).

Processo inverso è l’identificazione di gruppo, che è un movimento interno tradotto in costituzione identitaria, cioè una risposta ad una categorizzazione, una sorta di difesa messa in atto dal gruppo categorizzato (islamismo) (Fabietti 1995).

La dimensione culturale del pregiudizio “antisemitico” attiene parzialmente alla stigmatizzazione ebraica, per il sufficiente processo di assimilazione degli ebrei avvenuto in Europa dopo la Shoah, laddove è assai più dilatato rispetto all’islamismo. Difatti, sono tre i fattori che contribuiscono a connotare culturalmente l’islamofobia: la presenza recente, in termini temporali, della pur nutrita comunità araba nei paesi europei che non ha permesso prolungate e strutturate forme interazionali; la straordinaria carica potenziale di una fede totalizzante, abnegatrice, alquanto poco conosciuta, ma con capacità di aggregare centinaia di milioni di individui ed, infine, l'incompatibilità, di frequente ricordata, tra le due civiltà, quella occidentale e quella islamica, che indica “lontananze” di qualsivoglia genere.

Questa tipologia di pregiudizio (razzismo differenzialista) (Taguieff 1987, trad.it. 1994) non sottende la pura e semplice superiorità di gruppi o popoli ed è avulsa dalla tematica biologica, ma essendo caratterizzata da una totale assenza di flessibilità nella valutazione delle differenze culturali, rimanda alla totale inconciliabilità degli stili di vita, delle tradizioni con l’insieme dei valori, delle norme, dei comportamenti e dei relativi mezzi per riprodurli.

Le immagini simboliche dell’identificazione rimandano anch’esse alla memoria storica, al complesso dei costumi, ai legami di sangue parentali, al territorio, alla lingua, ai riti e alle credenze simbolico-religiose: tutti elementi che caratterizzano un popolo, rendendolo diverso dagli altri. Nell'equilibrio di potere, essi però divengono fattori di contrapposizione. Eppure gli “antisemitismi” si sono prodotti e riprodotti in chiave di rappresentazioni sociali dell'Altro. Mitologie sociali e pregiudizi sacrificano sull'altare della “chiusura” i processi reali, con modalità di confronto sempre autoreferenziali. Si indica, quindi, nello “scontro tra civiltà” il confine incontrovertibile che separa culture costrette a confrontarsi, anche se inconciliabilmente diverse.

Emblematica a questo riguardo è l’analogia nel mondo ebreo ortodosso e in quello musulmano integralista del ruolo femminile. In entrambi la donna riveste una posizione subordinata (anche normativamente prevista) rispetto all’uomo e nel viluppo di potere temporale e spirituale delle due sub-culture la collocazione marginale della donna trae alimento dalle regole religiose. Anche il cristianesimo ha indicato nell’inferiorità intellettuale e morale della donna un riferimento dottrinale, ma la separazione fra Stato e Chiesa e una diversa organizzazione sociale hanno consentito (così come del resto nelle collettività “semitiche” più avanzate) processi significativi di emancipazione.

L’antisemitismo ebraico in Europa occidentale, dove risiedono poco meno di un milione di ebrei, si è ripetutamente manifestato con numerosi atti di vandalismo e di violenza, si ritiene di matrice islamica, in particolare in Francia, dove vivono le due più grandi comunità “semitiche” (circa 600.000 ebrei e oltre quattro milioni di musulmani).

Appare, quindi, in atto un’ulteriore modificazione della connotazione e delle modalità dell’antisemitismo ebraico, non più riconducibile all’insieme delle variabili razziali, religiose, culturali, bensì interpretabile come risposta all’escalation israeliana in Medioriente.

In ripresa costante e con tratti caratteristici di “prima generazione” sono, viceversa, le manifestazioni antiebraiche in Europa orientale, dove la presenza musulmana è assolutamente minoritaria. Questa doppia natura dell’ostilità contro gli ebrei induce a ipotizzare, in ogni caso, la permanenza di un forte retroterra antisemitico, sensibile alle trasformazioni e alle transizioni sociali, che coglie il clima degli avvenimenti internazionali e la tendenza degli equilibri mondiali per liberare le proprie “pulsioni” del pregiudizio.

Simultaneamente, l’islamofobia non ha espresso in occidente manifestazioni di pari dimensioni e violenza per una duplicità di fattori che rimandano alla pronta risposta militare dell’occidente, che assume valenza simbolica niente affatto marginale in termini di rivalsa punitiva, sia, ed è molto più significativo in un’ottica sociologica, alla diversa immagine che la collettività musulmana detiene agli occhi dell’occidente; essa si colloca, infatti, nella quotidianità in una posizione marginale praticamente inoffensiva ed ha una visibilità sociale tendenzialmente poco minacciosa, dimensioni queste, assai diverse da quelle che la comunità ebraica ricopriva e ricopre nella stratificazione sociale; la durata temporale del pregiudizio fa sì che questo si sovrapponga e si sedimenti nelle coscienze individuali e collettive.

 

 

Conclusioni

 

Al di là delle analisi, delle schematizzazioni e delle interpretazioni di un fenomeno così eccezionalmente complesso, è bene ricondurre la riflessione sulla valenza sociologica della rappresentazione dell’Altro. L’incommensurabilità delle opzioni culturali offerte dalla società moderna implica non solo una pluralità di sistemi di credenze e di valori, ma indica altresì che gli stessi non sono tra di loro confrontabili per l’assenza di un criterio comune di valutazione (Sciolla 1996).

L’ostacolo appare insormontabile per l’attribuzione di significati prestrutturati e standardizzati in uno schema interpretativo in cui la combinazione di cultura, di ideologia e di religione definisce identità sociali tese alla conservazione e assai poco inclini alle formule dialogiche e riequilibratrici. La “conversione” da un sistema all’altro comporta l’“esportazione” e l’“importazione” di una pluralità di fattori tale da rendere l’operazione alquanto rischiosa: le differenze culturali hanno confini fortemente instabili e sussiste un turn-over di modernità e tradizione e dei loro ruoli e delle loro funzioni.

La ricerca di una “terra di nessuno” in cui sincronicamente esista la disponibilità oggettiva al dialogo e all’incontro, in cui il potenziale identitario sappia fermare l’orologio del tempo che produce e consuma incessantemente avvenimenti e situazioni, appare in questi tempi, come una benevola utopia.

L’Altro, lo straniero, si colloca come “proposta” di cambiamento in una situazione, per l’appunto incommensurabile. La vicinanza implica la lontananza reattiva: per tema dell’inclusione si privilegia l’esclusione; la marginalizzazione del “diverso straniero” rappresenta lo strumento per la conservazione dei propri, se pur incerti, confini identitari.

La sopravvivenza di identità collettive, in una contingenza di incontro con lo straniero, appare minacciata da fattori che ripropongono, in termini micro, gli elementi macro del rapporto globalizzazione/conflitto: distanza fisica e geografica, rapporti di forza e di competitività, intensità dell’esposizione (impatto), strutture istituzionali (Mlinar 1996).

Non va omesso il differenziale, in termini numerici, dell’“Altro”: di fatti, allo stato attuale, gli ebrei nel mondo sono poco più di tredici milioni e i fedeli musulmani superano abbondantemente il miliardo. L’antisemitismo “ebraico” affonda le sue radici in una commistione di intolleranze (remote e recenti), di pregiudizi e di stigmatizzazioni; l’antisemitismo “islamico” non può prescindere dalle dimensioni e dalle potenzialità espansionistiche dello “straniero”, fenomeno questo, che per ora ha solo, in realtà, lambito i confini dell’occidente. In questa multiformità di elementi costitutivi e strutturali apparentemente indeformabili i pregiudizi “anti-semiti” alimentano xenofobie e terrore.

Ma l’uomo contemporaneo deve guardare anche alle prospettive positive dei mutamenti sociali, coniugando la ridefinizione degli attuali sistemi di valori con le sfide del millennio appena iniziato, che verosimilmente si chiuderà su paesaggi sociali di popolazioni etnicamente e culturalmente assai trasformate e innovate.

 


 


[1] Il saggio è tratto dalla relazione presentata al Convegno “Il multiculturalismo in America e in Europa dopo l’11 settembre”, organizzato dalla Cattedra di Sociologia Politica, Facoltà di Sociologia, Università di Roma “La Sapienza”, Roma, 19-20 marzo 2002.


 


[i] Per un’esaustiva trattazione e ricostruzione storica del semitismo, vedi Lewis B., Semiti e antisemiti. Indagini su un conflitto e su un pregiudizio, Bologna, Il Mulino, 1990.

[ii] Si rimanda all’ampia esposizione a cura di Tabboni S. in Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano, F. Angeli, 1986.

[iii] La popolazione ebraica mondiale agli inizi del 1800 contava circa due milioni di individui, alla fine del secolo era salita a 10 milioni e mezzo e nel 1939 gli ebrei nel mondo erano circa 17 milioni.

[iv] Gran parte dell’esposizione storica è stata tratta da Hilberg R., La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995.

 

 

 

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