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Saggi

Il valore artistico: tra rappresentazione sociale ed estetica

 di Laura Verdi

 

   

1. Un oggetto, molti sguardi

 

Intendere il valore artistico come una rappresentazione sociale è dato per scontato in sociologia quanto in antropologia e in psicologia. Il riferimento all’oggetto artistico rimane al tempo stesso sullo sfondo, mentre ciò che conta è la variabilità dei giudizi che su di esso vengono espressi (in tempi e luoghi diversi) da individui appartenenti a classi sociali diverse. Muta anche il rapporto affettivo-emotivo con l’oggetto, a seconda dell’integrazione fra i quadri sociali di pensiero e le norme di comportamento collettive, da un lato, e i dati della propria pratica ed esperienza immediate, dall’altro. Quello che il soggetto costruisce sono rappresentazioni legate ad esperienze che possono in seguito sostanziarsi nell’immaginario collettivo. Ed è proprio in questo passaggio tra il farsi soggettivo e il diventare patrimonio plurale e condiviso, che l’oggetto d’arte rischia di far perdere le proprie tracce: disperdendosi in un rivolo di significati sempre cangianti. Sta qui (come è noto) il rischio più grande spalancato davanti all’ermeneutica.

Nella tradizione occidentale la distanza tra il soggetto creatore e l’oggetto estetico è la stessa che esiste tra soggetto pensante e natura pensata. Cartesianamente sancita come irrimediabile deriva, la distanza della res cogitans dalla res extensa era condanna di questa alla cosalità. Cosalità perenne e non mutevole ai nostri occhi: che non consentiva, non mutando le cose, che lo facessero i nostri occhi. Soltanto oggi abbiamo deciso che l’usignolo di Keats resta lo stesso, come il gatto di Schopenhauer, dopo trecento anni[1]. Ma i nostri occhi no. Come ha scritto un critico d’arte americano, «all critics are mortal»[2]. Nel senso che cambiano i punti di vista e cambia il risultato della visione; restano le opere, muta la visione, grazie anche al nuovo spazio dato dalla sociologia della conoscenza e dell’arte all’emergenza dell’irrazionale e della relatività. Ma le cose si sono fatte alquanto più complesse nell’ultimo secolo. Se i significati dell’arte (dell’oggetto estetico) sono divenuti da mono plurireferenziali, in una proliferazione di riferimenti possibili, anche il soggetto si è fatto meno rassicurante, moltiplicando la propria identità. Così l’io si decentra in più soggetti, ovvero è anche il soggetto creatore (detentore e dispensatore di cultura) a farsi plurimo rispetto all’oggetto (la natura o ciò che di esso è sottoposto alla nostra volontà). Ma un siffatto soggetto ibrido e scorrevole, costruito per immersione in una cultura globale, cultura-laboratorio, può dirsi veramente creatore e fino a che punto? L’incertezza della sua identità si riproduce in quella delle metropoli che egli abita, fatte di luoghi dall’identità sempre più in pericolo, popolate da forme d’arte ambigua e non più rassicurante. Sono le metropoli in cui «se [la folla] lascia un segno, lo fa distruggendo qualcosa, sul proprio corpo col tatuaggio, sul corpo di un altro con una ferita. Altrimenti non lascia tracce»[3].

Il rapporto direi quasi schizofrenico instaurato dal pensiero occidentale tra soggetto e oggetto ha pesanti ripercussioni su quello tra ragione e sentimento. Lo stesso Weber, ad esempio, riconosce un legame tra emozioni individuali e interazione sociale, e riserva un posto nei suoi studi al rapporto tra emozioni e sentimenti da un lato e ordine sociale dall’altro[4] La teoria dell’azione weberiana è dunque esplicita sull’importanza da assegnare al significato soggettivo (Verstehen) il quale, nel caso dell’arte, è inscindibile da un significato emozionale[5]. Nel caso delle comunicazioni di massa, al contrario, il significato soggettivo dell’agire sociale è riassorbito all’interno del contenuto di ordine implicito in ciascun messaggio, con finalità dichiaratamente globalizzanti.

Tra i classici della sociologia, per tornare a questi, nemmeno Comte aveva negato un posto ai sentimenti, come guida delle coscienze, insieme alla morale e alla religione, in alternativa alla sola ragione di illuministica osservanza: e anche Pareto aveva rinvenuto nei residui una specie di nocciolo emozionale e istintuale delle derivazioni, sorta di rivestimento razionale dei primi.

Il processo di razionalizzazione di emozioni e sentimenti in atto nella cultura occidentale in genere e nell’arte in particolare consiste in sostanza nella tutt’altro che insolita operazione di controllo sociale che mira ad una loro civilizzazione nella vita sociale quanto individuale[6]. E’ infatti grazie alla diffusione di un potere ideologico derivante «dal controllo sui significati corretti, da norme legittimate e dalla condotta della pratica estetica rituale»[7] che le pratiche estetiche medesime rientrano (forzosamente) nell’ambito delle attività culturali istituzionalmente riconoscibili. Fin qui, le tesi weberiane concordano quasi pienamente con quelle dell’epistemologia contemporanea, persino con le correnti più avanzate del relativismo (detto, non a caso, estremo): secondo il quale i criteri istituzionalizzati di razionalità vanno posti in relazione con il capitalismo, lo sfruttamento e la repressione sessuale (quindi anche dei sentimenti), e le istituzioni (non così però nella sociologia classica) intese come un male in se stesse[8].

In questa direzione, seguendo il solco tracciato da Weber, si avviano anche gli studi di Habermas, che ritiene complementari processi di modernizzazione e razionalizzazione del mondo. Essi operano attraverso una continua riduzione della complessità della realtà da parte dei meccanismi d’ordine messi in funzione dal soggetto[9]. E tuttavia qui, ai principi generali e astratti di Weber, si sostituiscono «relazioni sociali [...] regolate solamente attraverso il denaro ed il potere». La fede nella ragione (visibilmente forte in Habermas) lascia trasparire che, dietro lo stabilirsi di un’azione comunicativa come interazione orientata da norme verso il raggiungimento (mai coercitivo) di un’intesa, stia una giustificazione più razionale che emotiva. Ciò nonostante, gli esiti della razionalizzazione nelle società neocapitaliste (ad esempio asiatiche) sono molto diversi da quelli precedentemente osservati da Habermas in occidente; ciò non toglie che le analisi del sociologo tedesco pretendano di far conseguire esiti simili (l’”urbanizzazione” dei sentimenti, appunto) da condizioni socio-culturali diverse.

Nella tradizione di studi che va da Weber a Habermas si sarebbe dunque venuta costituendo a poco a poco una sorta di ideale contiguità fra modernità, capitalismo e razionalizzazione. E il soggetto pare uscirne, tutto sommato, in posizione di assai discussa prevalenza.

Ad una lettura ravvicinata, in effetti, sia Max Weber sia Habermas, quando si riferiscono al processo cumulativo di razionalizzazione proprio della cultura capitalistica, non possono esimersi da una continua denuncia degli esiti logici nefasti che esso produce. Esiti, in primo luogo quanto mai limitanti per l’arte e le istanze del soggetto, soprattutto per via della vecchia pretesa delle scienze umane di seguire il metodo (tutto positivistico) delle scienze della natura: tese, come si sa, a spiegare (Erklären) piuttosto che a comprendere (Verstehen). Sicché la denuncia weberiana sortisce l’enfatizzazione del concetto di Verstehen, nei termini sopra citati[10].

Fin qui ho citato solo teorie occidentali (estetiche e sociologiche) relative alla contemplazione dell’arte. Esse appaiono tutte basate sull’antitesi di soggetto e oggetto, mantenendo la determinazione dell’oggetto estetico da parte del soggetto. Ad un confronto con tali teorie, quelle estetiche orientali (cinesi in primis) ci pongono di fronte ad una del tutto diversa concezione del buono, del giusto e del bello. Valori positivi non legati, come in occidente, all’opposizione soggetto/oggetto, uomo/natura: l’antico pensiero taoista, ma anche confuciano e buddista, per esempio, sostengono l’unità di uomo e natura e, al tempo stesso, la possibilità di contemplare oggetti estetici in piena conformità con la natura. Tale conformità è raggiunta grazie alla predilezione per i caratteri privi di un orientamento determinato, così negli uomini come nelle loro creazioni: siano esse espressioni musicali, poetiche o pittoriche, financo culinarie, il non-gusto ispira l’estetica cinese[11]. Esso si regge sull’indifferenza, sull’impassibilità di fronte alla differenza, che è, al contrario, il criterio di discriminazione occidentale del gusto (come insegna Bourdieu). L’assenza di orientamenti di gusto determinati caratterizza tanto la cultura cinese quanto poco quella occidentale, ma in entrambi i casi ciò che costruisce (in positivo come in negativo) l’identità culturale si costituisce poi come confine, barriera che delimita una comunità socioculturale[12].

E nelle comunicazioni di massa dove vada a finire il significato soggettivo di ciascun messaggio è presto detto: esso è riassorbito all’interno della funzione sociale e commerciale per la quale è stato creato, che è anche quella di riduzione della complessità (dei significati soggettivi) in senso luhmanniano più ancora che parsonsiano. Ecco allora che l’aspetto di «replicazione dell’uniformità» prevale su quello di «organizzazione della diversità» culturale di cui parla Hannerz, rendendo «indefiniti i confini delle culture e delle società»[13]. Si potrebbe anche dire, con Anthony King, che le prospettive dell’originalità in cultura seguano due strade: l’una, quella più negativa indicata da I. Wallerstein, che implica «la creazione di processi che suscitano opposizione e resistenza culturale»; l’altra, quella di Robertson, che suggerisce che «la consapevolezza o esperienza della globalità esacerberà la differenza culturale, fornendone addirittura nuove varianti»[14].

In una cornice come quella che ho tentato di descrivere sin qui, quale può essere l’importanza rivestita dagli oggetti d’arte, a meno che essi non si riducano a nudi simulacri? L’oggetto d’arte comunica sempre emozioni e sentimenti (dell’autore, di altri fruitori) o viene soltanto presentato e poi abbandonato a se stesso, entro una cornice autoreferenziale? Già con Gauguin, Picasso, Matisse, Gris, la tradizione della prospettiva quale legge dominante rispetto all’ordine degli oggetti era stata fieramente avversata, mentre si era proposta l’esistenza di una nuova relazione tra oggetto e sfondo. Con Mondrian e Klee gli oggetti perdono la loro riconoscibilità, e ciò che domina la pittura è un gioco ritmico di linee e colori, mentre le superfici dipinte, insieme al loro supporto, si costituiscono come oggetti sul muro. Grazie ai collages e agli assemblaggi di Picasso e Kurt Schwitters, le opere sono insieme oggetti e rappresentazioni di oggetti, poiché l’arte viene creata attraverso il ricorso ad oggetti reali.

Con Duchamp, invece, si compie una vera e propria rivoluzione, per cui l’oggetto diviene esso stesso arte, legittimando il ready-made come forma d’arte. L’oggetto viene ora più presentato che rappresentato, e tuttavia la sua nudità autoreferenziale contiene ancora forti implicazioni culturali e non meno evidenti elementi di critica sociale. Lo stesso tentativo, da più parti compiuto, di costruire un’opera d’arte totale, in cui lo spettatore possa trovarsi nelle stesse situazioni in cui si trova l’artista (perciò, al tempo stesso, scopritore e fruitore, bambino e adulto, disposto a giocare e a ragionare) è il segno di una volontà di penetrare nel cuore della vita e delle sue contraddizioni. Fatichiamo invece a trovare quegli stessi elementi di critica sociale presenti nei ready-made nell’autoreferenzialità iconica di tanta arte mediatica di oggi. Qui i simulacri continuano a dispensare appagamento comunicativo nonostante l’assenza di riscontri oggettivi e l’abbassamento dell’orizzonte del godimento estetico a quello del consumo dozzinale come unico riferimento e forma di interrelazione con l’ambiente.

 

2. Conoscenza e meaning shif

 

La percezione del mondo è dunque cambiata per l’artista come per il fruitore d’arte e l’identità dell’uno e dell’altro si fanno sempre più labili. Negli ultimi decenni l’artista si è trasformato ora in critico ed esegeta di se stesso (come nella Nouvelle peinture francese degli anni settanta) ora in giocoliere dalle scarse risorse linguistiche (come nel New pop) ora in mutante (come alcuni artisti che traducono con tecniche diverse lo sguardo sulle contraddizioni culturali, senza cercare una visione descrittiva e fissa ma stabilendo un rapporto tra paradosso, finzione e realtà). Complessivamente ciò che riusciamo con sempre maggiore difficoltà a mettere a fuoco è proprio l’esistenza di un’arte (l’Arte!) ancora in grado di rimandare a caratteristiche universali: sorretta, cioè, da preferenze estetiche innate, piuttosto che culturalmente costruite.  E questo proprio in forza della capillare diffusione dei processi di globalizzazione, che rendono sempre più invisibile l’aspetto localistico dell’arte, ovvero le forme del suo manifestarsi come differenziazione non indotta.

La relazione tra soggetto artistico e mondo è incerta anche per via della nuova inconsistenza del principio di non-contraddizione di Aristotele. Oggi infatti l’oggetto d’arte si può studiare soltanto come processo sociale, che non può escludere la coesistenza di un oggetto con il suo contrario.

Tra il vero e il falso, da qualche tempo, c’è di mezzo il fuzzy, traduzione contemporanea dell’antica categoria dell’eikos respinto dai platonici come probabile opposto al vero[15]: in quella zona incerta in cui la luce sconfina nell’ombra, il giorno verso la sera, il bello verso il brutto, il giovane verso il vecchio, l’utile verso l’inutile, l’amore verso l’indifferenza: precisamente là compare il fuzzy di oggi, l’antico eikos..

Del vecchio modus ponens aristotelico, la cui influenza in quanto modello logico contrario all’eikos si era dispiegata in molti campi, il positivismo logico del nostro secolo rappresenta l’ultima espressione, e persino matematica, medicina, logica e tecnologia in genere ne sono tuttora influenzati. Alla radice dei nostri sistemi razionalistici, stanno, ancora una volta, impianti categoriali di stampo classico, che ci hanno trasmesso una doppia e assai controversa eredità: da una parte si è venuta costituendo un’epistème, ovvero un modello di conoscenza impostato sulla ricerca di una verità perfetta e non ambigua, fondata ontologicamente sull’idea dell’essere presente che però presuppone un passato come un futuro[16]; dall’altra una gnosi ermetica, in cui il pensiero oscilla tra verità oscure e segrete, facendosi barbarico e multivalente. E’ questa conoscenza perfettibile, quella che ispira la cosiddetta ragione metica,[17] ad aver segnato l’amor cortese, trapassando nel neoplatonismo rinascimentale e via via sino al romanticismo e all’esistenzialismo.

Ma la crisi del Novecento non è soltanto logica: in fisica la scoperta della relatività (Einstein), della meccanica dei quanti (Heisenberg) e delle teorie del caos (Lorenz) destabilizzano i paradigmi della vecchia scienza. Ricacciato dalla porta, l’eikos si ripresenta vivo alla finestra delle vecchie Naturwissenschaften  non meno che a quella delle Geisteswissenschaften.  E si ripropone dunque sotto la specie di unificazione epistemologica ancor prima che metodologica.

Il problema restava -resta- tuttavia quello di non rinunciare alla razionalità insieme al realismo pretensioso del positivismo, di salvare, in altre parole, il realismo nonostante il relativismo culturale. O ancora: di salvare il bello in arte nonostante il fuzzy.

La vecchia ragione epistemica, fondamento di tutte le epistemologie, e perciò anche dell’idea del bello come pilastro dell’estetica, replica se stessa anche in quelle positiviste come neopositiviste: senza riuscire a distaccarsi da quei modelli di causalità lineare e astratta propri delle scienze della natura. Se non rinuncia ad essere thick description (Geertz), secondo una visione cumulativa della conoscenza, la scienza deve almeno, alla comparsa di ogni nuova teoria, concedere un meaning shift, uno spostamento di significato (come suggeriscono Kuhn e Feyerabend) rispetto alle posizioni raggiunte da teorie o, ancor meglio, da paradigmi precedenti[18].

Alle stesse conclusioni era del resto arrivata anche la fenomenologia, che tendeva a sospendere la fede nel mondo esterno e nei suoi oggetti, per considerare la realtà semplicemente come un fenomeno. Lo spostamento di significato di Kuhn ci appare allora assimilabile, per alcuni aspetti, all’epoché di Husserl, che riteneva la sospensione dell’assenso quale facilitazione rispetto alla comprensione del Lebenswelt: il soggetto esercitava così il proprio dubbio radicale nei confronti della scienza oggettiva e dei saperi dati per scontati[19].

Come avventurarsi allora oltre i mondi dominati dall’ordine della civiltà e dal dispotismo del soggetto? Il disagio della modernità nasceva, secondo la lettura di Freud, da un eccesso di ordine[20]. E tuttavia, come fondativo di civiltà, l’ordine è sempre da rinegoziare, come principio logico (nomotetico) quanto sociale, pena la sua trasformazione in repressione (del principio di piacere in nome di quello di realtà). Se questo non è mai stato tanto evidente come al volgere del XIX secolo, si deve anche all’urgenza assunta dalle istanze relativistiche non solo nell’espressione artistica, ma anche nelle scienze umane quanto e soprattutto in quelle esatte.

Le une e le altre si sono dovute alla fine convincere, come ci ricorda Mary Douglas, che «i problemi difficili e le buone soluzioni hanno convissuto per secoli e se qualcuno effettua una scoperta non dovrebbe meravigliarsi nell’apprendere che non è il primo [...]. In un lungo saggio ironico, On the Shoulders of the Giants, Merton dimostra l’inutilità di chiedersi chi ha detto una cosa per primo»: il che coincide con l’idea di Borges sulla dimenticanza: «I do not know which of us has written this page». Il problema della conciliabilità dei punti di vista sull’arte di due discipline diverse come la sociologia e l’estetica, sembra potersi ridimensionare (almeno parzialmente) come un falso problema. Secondo Vera Zolberg «non è che gli studiosi di estetica differiscano completamente dai teorici sociali, ma laddove la scienza sociale si basa sul fondamento scientifico secondo cui qualsiasi scoperta è provvisoria e può venire rovesciata da studi seguenti, una forte tradizione dell’estetica si basa su idee intellettuali  che in parte si fondano su premesse mitologiche riconosciute. Tuttavia, tali idee sono divenute talmente centrali nella tradizione delle loro discipline che il modificarle costituisce una minaccia. Tali premesse sono che un’opera deve essere compresa in quanto oggetto unico e che in definitiva è fatta dal genio del singolo creatore»[21]

«La cosa ovvia è che la scienza è un’impresa collettiva», scrive ancora Mary Douglas, anche se dobbiamo riconoscere che ancora manca «una teoria sociologica della percezione». Senza dimenticare, ella avverte, che, per fondare un’epistemologia sociologica, sono indispensabili alcuni requisiti intellettuali, sociali e morali: a questo punto, però, costruita una macchina per pensare e prendere decisioni in loro nome, che funziona alla stessa stregua del linguaggio (come un pilota automatico), gli individui dovranno sopportarne anche gli inevitabili automatismi: ancora e sempre quei criteri di classificazione, sempre così parziali e provvisori, che non potranno, in qualunque disciplina, risparmiarci la ricaduta nelle vecchie tassonomie[22].

Lasciamo a Borges di suggerirci una conclusione aperta, intorno all’essenza di ciò che abbiamo cercato di circondare con strumenti scientifici come la sociologia e l’estetica: «La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti nel tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico»[23]. Mai del tutto afferrabile, appunto.

Misurandosi sul comune terreno della problematicità del valore dell’arte, estetica e sociologia del XIX secolo arrivano a conclusioni epistemologicamente opposte. Il disaccordo degli assunti teorici viene tuttavia stemperato dall’emergenza contemporanea dell’ermeneutica, grazie alla quale la realtà va vista come «il risultato di uno scambio comunicativo tra le diverse rappresentazioni e interpretazioni degli attori sociali tra loro» (circolo ermeneutico) e interpretata quindi come costruzione sociale, secondo la lezione che va da Schütz a Berger e Luckmann e oltre[24].

Ma ormai anche l’estetica non è più intesa solo come disciplina filosofica. «La storia dell’estetica», scrive W. Tatarkiewicz, «non è soltanto una storia delle idee sul bello e sull’arte, ma è anche una storia dei termini “bello” e “arte” e la storia dei due generalmente non coincide»[25]. Seguendo le indicazioni dell’ermeneutica, infatti, anche la vecchia arte monoreferenziale, definita dall’omoglossia in quanto leggibile per secoli come sua sottospecie culturale, si avvia verso la pluralità linguistico-espressiva dell’eteroglossia e della polisemia. La nuova estetica si fa allora analitica ed empirica, «riferendosi a cosa in una data epoca era pensato, creduto, sostenuto dagli uomini, piuttosto che riferendosi a una astratta verità/falsità delle idee per sé»[26].

Il rischio degli eccessi ermeneutici (il dissolversi del testo nel mutare del significato) e l’emergere dei processi di globalizzazione (che, dall’economia, giungono ad investire tutte le forme della cultura) conducono anche l’arte ad un bivio tra localismo e globalizzazione (cross and global art) in cui sia implicito il concetto di erranza culturale ed etnica, nonché una curiosità intellettuale non di maniera. Risolvere i dubbi e l‘incertezza derivanti da questa impasse può condurre in molte direzioni: una è quella indicata dalla soluzione jüngeriana ai cambiamenti del mondo e della libertà (non nella sua natura, ma nella sua forma): la via del bosco. Soluzione non lontana da quella fornita da Heidegger con gli Holzwege. In entrambi i casi, infatti, vale il principio della «“viaticità” del pensiero, del suo essere continuamente “in cammino” per “sentieri interrotti”»[27].

E’ questa la via che consente la compenetrazione di mondi culturali diversi e l’instaurarsi di una comunicazione al loro interno. Una via che si rivela insieme emotivo-percettiva più che razionale. Gli eccessi razionalistici, se non alle Scienze dello spirito e all’arte, non hanno giovato nemmeno all’informazione, in cui molti elementi finiscono per produrre solo “rumore”: evitabile forse con il ricorso a forme comunicative non eccessive, al punto che creare forme di arte popolare, musica, teatro e poesia incastonate in una nuova cornice di silenzio (non rotto da messaggi stereotipi) potrebbe dare nuovo  risalto all’arte.

E tuttavia si deve evitare di cadere nel facile tranello di identificare l’esperienza estetica con il manifestarsi di “emozioni forti”, le stesse con cui, secondo Bergson, «l’arte ci imprime dei sentimenti, piuttosto di esprimerli». Questo vale per l’arte di avanguardia, ma, come ricorda Tatarkiewicz, «non risponde però ad altri tipi di arte, in particolare a quella che chiamiamo classica»[28]. Le teorie estetiche dunque sono costrette, a loro volta, a moltiplicarsi (tenendo conto del mutare del gusto insieme con il mutare dell’uso dei significati artistici) per accostarsi alla complessità del reale. I rigidi criteri di classificazione della vecchia estetica (poco attenti alle oscillazioni dell’oggettività, e più alle costanti che alle variabili culturali) trovano un correttivo adeguato nell’adozione del concetto di tipo come quello di Tatarkiewicz: più indicato a raggruppare i fenomeni per le loro caratteristiche anche solo parzialmente simili. Così egli può scrivere che «il nome di un oggetto viene usato in modo elastico e viene allargato ad altri oggetti, aventi una qualche parziale somiglianza con l’oggetto dato. Per esempio il nome x, spettante agli oggetti che possiedono le caratteristiche a e b, viene a volte dato all’oggetto A perché possiede la caratteristica a, come pure all’oggetto B perché possiede la caratteristica b. Allora gli oggetti A e B hanno un nome comune, ma possono non avere caratteristiche comuni. In questo caso esiste il nome x, ma non vi è la classe degli oggetti X. Questo modo di procedere, proprio del linguaggio ordinario, e in più di un caso anche delle scienze che non dispongono di un elevato livello di precisione concettuale, si potrebbe chiamare “a domino”; esso è infatti simile al modo di procedere nel gioco a domino, dove si aggiunge tassello a tassello in base a una somiglianza parziale ottenendo così una serie nella quale i tasselli contigui sono tra loro simili, ma non possono avere nulla in comune con gli altri»[29]. Ma non basta, perché questo procedimento “a domino” fa «venire in mente il concetto di “somiglianza di famiglia” introdotto anni dopo da Wittgenstein e da Tatarkiewicz ricordato in Storia di sei idee». Mi è difficile, a questo punto, non provare a ricollegare queste ultime citazioni con una mia proposta di “provincia finitima di significato”, dove l’ordine si crei e si distrugga all’insegna di paradigmi finalmente rivedibili.

 

3. Sulla non dispensabilità di un accordo tra sociologia ed ermeneutica

 

Per tentare una ricapitolazione di quanto ho esposto fin qui, vorrei ricordare alcune condizioni secondo le quali il significato di un’arte inscritta in mondi sempre più complessi diventa sociologicamente leggibile. Esse potrebbero essere così sintetizzate: 1) che si rinunci alla pretesa euristica di un ordine unificatore, cui appellarsi per dare ad ogni opera un’etichetta precisa: che soddisfa meno le esigenze ermeneutiche legate alle opere che i criteri delle vecchie estetiche idealistiche; 2) che si metta da parte la certezza di poter contare ancora sull’esistenza di province finite di significato e ci si disponga ad andar oltre: non per finire alla deriva, quanto per cercare nuovi territori di incontro-incrocio, le già proposte province finitime di significato; 3) che si adotti una logica fuzzy, con la sostituzione del bianco o nero con il grigio o il chiaroscuro e si passi dalla bivalenza alla polivalenza[30]; 4) che la creazione si concepisca finalmente anche come ri-creazione, apertura a nuove possibilità.

Queste condizioni diventano anche più interessanti quando si consideri la loro pressoché identica validità nella sfera della sociologia della conoscenza scientifica. Come si diceva sopra (accennando al meaning shift rispetto a paradigmi scientifici precedenti) la relativizzazione del sapere ha coinvolto anche la scienza, moltiplicandone i metodi e le procedure[31]. Al punto che Mary Douglas, seguendo la tradizione di Durkheim e Wittgenstein, ha potuto scrivere che «Oltre alle altre verità, anche la verità matematica viene stabilita dal processo sociale e protetta mediante convenzione»[32]: essa non è più sostenuta da criterio alcuno di indiscutibilità, al pari delle metafisiche scientifiche, che possono sempre «essere fatte oggetto di dibattito critico»[33]. E che dire della scoperta dei numeri irrazionali, vera minaccia al credo pitagorico della razionalità della conoscenza? La loro esistenza ha costituito di per sé una sfida al concetto stesso di ratio: quel rapporto razionale esprimibile in forma matematica attraverso rapporti numerici[34].

Persino lo studio dei fenomeni atomici non si collega più, secondo Heisenberg, lo scopritore del principio di indeterminazione, «a processi oggettivi che hanno luogo nello spazio e nel tempo, ma solo a situazioni osservative. Possiamo derivare leggi empiriche solo relativamente ad esse. I simboli matematici con cui descriviamo queste situazioni osservative rappresentano, più che fatti, possibilità. Si potrebbe dire che rappresentano uno stadio intermedio tra il possibile e il fattuale»[35].

Affrontando queste problematiche, riappare di continuo in tutta la sua pregnanza la centralità del problema sociologico che riguarda, quale interrogazione che va molto vicino alla libertà del pensiero, il condizionamento sociale di questo in termini solo formali (come proponeva Scheler) o anche contenutistici (come preferivano Marx e Mannheim). E si ripresenta anche il vecchio problema degli a-priori, mai del tutto liquidato e semmai ripreso dalla fisica.

La relativizzazione degli a-priori kantiani conduce Heisenberg a riconoscere il delinearsi anche per la fisica atomica di «una situazione epistemologica del tutto nuova», che mette in crisi persino «i termini con cui descriviamo l’esperienza [...] concetti quali “cosa”, “oggetto della percezione”, “momento”, “simultaneità”, “estensione” eccetera»[36]. La conclusione del fisico non è però nichilistica: egli ci spinge a considerare anche gli a-priori kantiani non come conoscenza non vera, quanto come categorie non sufficienti a spiegare la realtà contemporanea. E dal momento che «la struttura stessa del pensiero cambia nella storia, la scienza avanza non solo perché ci permette di spiegare nuovi fatti, ma anche perché ci insegna ogni volta nuovi significati della parola “ragione”».

Per quali vie allora la sociologia e la sociologia della conoscenza e dell’arte in particolare possono attingere all'universalità e all'oggettività? Per sfuggire al relativismo scettico che si autoannulla, Nagel[37] avverte che «la ‘neutralità valutativa’ che sembra essere così totale nelle scienze naturali è [...] spesso considerata irraggiungibile nell’indagine sociale» e le “leggi” sociologiche hanno mostrato chiaramente la loro portata relativa; esse infatti non sanno essere universali né transculturali (cioè valide in società e culture differenti) né predittive. Come Nagel stesso chiarisce, anche se, in una prospettiva di filosofia della scienza, «il carattere ‘storicamente condizionato’ dei fenomeni sociali non è un ostacolo intrinseco per la formulazione di leggi transculturali generali», i tentativi compiuti finora in questo senso si sono risolti nell’espressione di leggi sociali che «enunciano gli ordini dei mutamenti sociali supposti inevitabili e asseriscono che la società o le istituzioni si succedono una dopo l’altra in una certa sequenza fissa di stadi di sviluppo» ricorda la soluzione classica di Mannheim, che all'immobilità del relativismo opponeva l'abile escamotage del "relazionismo" prospettivistico, in grado di fornire la dignità di una almeno provvisoria oggettività ai risultati delle indagini delle scienze sociali. Il prospettivismo, infatti (anche nella versione ermeneutica di Gadamer) rimanda ad ulteriori vie di fuga rispetto alle visioni uniche e totalizzanti della realtà: esso consente di arrivare alla conoscenza di un oggetto attraverso più strade, quindi di saperne di più anziché avere di fronte l'assetto unitario di un ordine che è «sempre approssimativo e vulnerabile, costantemente mutevole»[38]. La considerazione del fatto che il cambiamento di forma della conoscenza consenta il beneficio di «una conoscenza differente (più vera) di ciò che è oggetto di trasformazione» (ibidem) ci pone in grado di analizzare i comportamenti di tipo disordinato e caotico con una nuova serenità, ignota al nostro passato prossimo.

 

 

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[1] Mi riferisco alle splendide pagine dedicate da J. L. Borges, in Otras Inquisiciones, Buenos Aires, Emecé, 1960, trad. it. Altre inquisizioni, Milano, Feltrinelli, 1973, a L’usignolo di Keats, pp. 120-123.

[2] Di Alfred Kazin, uno dei più brillanti critici letterari americani, ricordo Writing was everything, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets. London, England, 1995.

[3] F. Colombo, La città profonda. Saggi immaginari su New York, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 39.

[4] Teorizzazioni in forza delle quali la salvazione cristiana, la produzione di merci, un sistema competitivo di stati territoriali, la stampa e la navigazione su mare aperto costituivano le precondizioni per qualunque processo di modernizzazione e di razionalità.

[5] Riferendosi ai compiti specifici della disciplina, Weber scrive che «la sociologia [...] deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Inoltre, per “agire” si deve intendere un atteggiamento umano [...] se e in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per agire “sociale”si deve intendere un agire che sia riferito [...] all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo». Cfr. M. Weber (1922), Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tubingen; (1961), Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, p. 4.

[6] Sull’argomento della civilizzazione affettiva sono sempre di grande fascino le tesi di Norbert Elias, allievo di Karl Mannheim.

[7] D. Golblatt, (1995), «Power, Modernity and Morality in the Long Nineteenth Century», Theory Culture & Society, Sage, London, XII, 1, recensione a M. Mann (1993), The Sources of Social Power, Volume II: The Rise of Classes and Nation-States, Cambridge UP, Cambridge, p. 158.

[8] Mi riferisco qui alle tesi provocatorie di H. Putnam (1989), in Reason, Truth and History, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano, p. 137, laddove vengono posti in discussione i contenuti estremizzanti del relativismo di Kuhn, Feyerabend e Foucault in particolare.

[9] Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari, 1975.

J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1981 (trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, II, Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna, 1986).

[10] I concetti di Verstehen (comprendere) e Erklaren (spiegare) prima che a Weber sono da ascrivere a J Droysen (1868) e a W. Dilthey (1883).

[11]  Si veda di F. Jullien, Elogio dell’insapore, Cortina, Milano, 1999.

[12] E’ quanto spiega doviziosamente Mary Douglas nel suo Questioni di gusto. Stili di pensiero tra volgarità e raffinatezza, Il Mulino, Bologna, 2000, riferendosi a quelle distinzioni culturali che scolpiscono  insieme i tratti della nostra identità. Al tema assai affascinante quanto  poco  dibattuto della enfatizzazione della differenza nella cultura occidentale vs. la non-enfatizzazione in quella orientale andrebbe  dedicato uno  spazio ben più ampio delle poche righe che ho qui  a disposizione.

[13] Cfr. U. Hannerz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 20, 42.

[14] Si tratta di alcune tra le possibili derive della globalizzazione secondo A. King, «L’architettura, il capitale, la globalizzazione», in M. Featherstone, Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità, Seam, Roma, 1996, p. 230 [Global Culture. Nationalism, Globalization and Modernity, Sage, London, 1990]. La teoria di R. Robertson è esplicitata ivi in«Mappare la condizione globale: la globalizzazione come concetto centrale», p. 73 e segg.

[15] A. G. Gargani, Introduzione a Y. Elkana, Antropologia della conoscenza, Laterza, Roma-Bari,  1999. p. XXII.

[16] Cfr. M. Ferraris, L’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 90.

[17] A parlarne è ancora Y. Elkana, in op. cit., p. 139: «La novità centrale dell’illuminismo greco del V secolo fu che non c’era più nulla di scontato. Ne seguì una sperimentazione in tutti i campi, e la ragione, con uno slancio nuovo di fiducia in se stessa, si volse a “cercar di far luce su di sé”. La metis mise a punto una combinazione di ragione ed esperimento come nuova fonte di sapere».

[18] Cfr. A. G. Gargani, Introduzione a Y. Elkana, op. cit., p. XIII. Kuhn e Feyerabend insistono sulla relazione di incommensurabilità reciproca e intraducibilità dei vocabolari delle teorie scientifiche. La “thick description” è tale in quanto si appella ad una ragione epistemica piuttosto che intercontestuale: cfr. C. Geertz, The interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973.

[19] Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1974 (1913).

[20] Il riferimento trasparente è a S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, Torino, Boringhieri, 1967-80 (1929), vol. 10. Sul rapporto modernità/ordine/libertà si veda anche Z. Bauman, La società dell’incertezza,  Il Mulino, Bologna, 1999, passim.

[21] V. Zolberg, Sociologia dell’arte, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 85, 86. Qui l’A. riesce a mantenere una perfetta equanimità tanto rispetto alle teorie esogene (verso le quali propende la sociologia) quanto rispetto a quelle endogene (care agli storici dell’arte e agli estetologi).

[22]  Cfr. M. Douglas, Come pensano le istituzioni, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 110, 111, 130, 102. La citazione da R. Merton è tratta da On the Shoulders of Giants: a Shandean Postscript, New York, Harcourt, Brace, New York, 1965, quella da J. L. Borges è tratta da Borges and I. 

[23] J. L. Borges, op. cit., 1973, p. 11.

[24] La citazione è tratta da F. Crespi-F. Fornari, Introduzione alla Sociologia della Conoscenza, Donzelli, Roma, 1998, p. 124.

[25] W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Torino, 1979, premessa al vol I. In quest’opera monumentale, l’A. sostiene che l’estetica moderna sia divenuta effettivamente tale solo a partire dal XVIII secolo, con la «concezione soggettivistica dei valori estetici».

[26] W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo, 1997, presentazione di C. Jaworska, p. 20.

[27]  L’osservazione è contenuta nella introduzione di F. Volpi Itinerarium mentis in nihilum a E. Jünger-M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1998, p. 27.

[28] W. Tatarkiewicz, op. cit., 1997, p. 61.

[29] Ivi, p. 13, cit. nella presentazione, così come la cit. successiva.

[30] Il termine “fuzzy” rimanda a quello coniato dal logico Lofti Zadeh negli anni Sessanta e ripreso da uno dei suoi più brillanti allievi, B. Kosko, ne Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Baldini & Castoldi, Milano, 1995 (1993).

[31] I cosiddetti anarchici del “relativismo estremo” -Kuhn, Feyerabend e Foucault- si oppongono a ogni forma di conoscenza istituzionalizzabile come male in se stesso. Negando la possibilità di qualunque tipo di “giustezza oggettiva”, essi costruiscono un universo popolato da concetti come quello di non commensurabilità e non condivisibilità culturali: in altre parole, di intransitività dei valori di un tempo e uno spazio culturali in quelli di un altro. Il loro atteggiamento complessivo è all’insegna del del “tutto va bene”. Mi permetto di rimandare, in generale, a P. Feyerabend, Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 1981 e al mio «Il valore che sfugge: la sociologia tra arte e scienza», Metis, Cleup, Padova, 1998, pp. 181-202.

[32] M. Douglas, Implicit Meanings, p. XIX, cit. in Y. Elkana, op. cit. ,p. 237, nota 71.

[33] E’ quello che sostiene Y. Elkana, op. cit., p.  233, nota 15.

[34]  Cfr. P. Odifreddi, «Lo zoo dei matematici», La Repubblica, 13 giugno  2000, p. 51.

[35] W. Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con protagonisti. 1920-1965, Bollati-Boringhieri, Torino,1984, pp. 134.-136.

[36] Ibidem.

[37] E. Nagel, La struttura della scienza, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 472, 477, 498.

[38] G. Balandier, Il disordine. Elogio del movimento, Dedalo, Bari, 1991, p. 87.

 

 


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