I POETI DEL FARO D’ARGENTO

1995/96

 

 

 

CIRCOLO SOCIO-CULTURALE

"IL FARO" - RIPOSTO




INTRODUZIONE

Nel consegnare alla stampa il terzo volume de I POETI DEL FARO D’ARGENTO, dove sono inserite le liriche del Concorso Internazionale di Poesia Il Faro d’Argento, edizione 1995 e 1996, corre l’obbligo di ringraziare ancora una volta la Giuria, che, per entrambe le edizioni, è stata presieduta dalla Prof.ssa Angela Barbagallo e composta dal Cav. Aldo Italo Pagano, che ha redatto le motivazioni del premio, dal Prof. Giuseppe Piazza, dal Preside Prof. Aurelio Strano e dal Prof. Salvo Vasta.

Un grazie alla Segretaria, Prof.ssa Tina Belluzzi, al Presidente del Concorso, Prof. Salvatore Statello, che hanno coordinato tutti i lavori del Concorso, e all’Amministrazione Comunale di Riposto per la collaborazione.

Si ringraziano, infine, tutti i Poeti che, con le loro opere inviate, hanno dato ulteriore lustro alle attività di questo Circolo.

Si precisa ai lettori che, nella presente antologia, trovano soltanto le poesie la cui pubblicazione è stata espressamente autorizzata dagli Autori.

Inoltre, nel caso in cui un Poeta si sia collocato con più liriche nella graduatoria, la Giuria ha assegnato il premio alla poesia che ha ottenuto il punteggio più alto. Così si spiega la presenza nel volume di opere non premiate, ma altamente meritevoli.

Lucio Torrisi




PREFAZIONE

Scorrono gli anni e il vento porta con sé pollini e scarti di eventi che la memoria rifiuta, a volte per orrore, spesso per pudore nei confronti di ciò che serra nei meandri come tesori e come lievi odori da evocare all’anima per gratificarla. E lievi odori trasudano dai versi che il Circolo Socio-Culturale "Il Faro" si accinge a pubblicare, a testimonianza delle edizioni del Concorso di Poesia in lingua italiana, siciliana e straniera, svoltesi negli anni 1995 e 1996. Se la metafora risulta significante ed attagliata al senso che le si vuole dare, si può coniarla nell’offerta ai lettori di un armonioso bouquet in cui l’editore si è presa cura di ordinare poeticamente colori e suoni di parole in cui gli autori delle liriche premiate, organate nella rosa delle finaliste e contorniate in quella delle segnalate, hanno espresso, nei toni della malinconia, del ricordo, della speranza, delle emozioni, della disperazione, della fede e del sogno, il loro mondo, la loro luce interna, la loro volontà di lottare, di avanzare nel cammino della vita, rompendo la fredda quiete della morte con il fuoco dei valori che bruciano e purificano le scorie soffocanti della tentazione di scivolare nel nulla senza suono. Con una cadenza ritmata, a campata di ponte, al di sopra delle lingue e dei dialetti, le liriche componenti il volume si innestano in un substratum comune che privilegia le "voci" della Natura ed ora è il soffio del vento "il velo sonoro del tempo" interiorizzato metafisicamente a significare l’essenza dell’essere e dell’esistere, ora il tramonto a predisporre l’anima alla contemplazione, come è la "Timpesta" a scatenare nel grande seno del mare la paura e la pietà del cuore che si afferra alla fede per il raggio della salvezza.

Scorre il pensiero, a snodo di memoria, all’isola incantata e interroga senza un dialogante, "Dove nasce il mare?" nella disperazione di una terra "sospesa/ tra la vita e la morte/... di un fantasma che ingloba in sé "la casa del contadino,/ che s’insinua in ogni dove": La mia Sicilia!. E passa, greve, la parola della saggezza antica nella lirica in vernacolo, alla nostalgia di "All’ébbica" all’angoscia di preservare un figlio dai pericoli del mondo, in "Scuta li me’ paroli" mentre scorre il fiume dei dolci pensieri d’amore in liriche fresche come gocce di rugiada all’ombra in calde giornate di sole: (Realtà fiabesca", "Ti cercherò", ecc.). Poi... scavata come la pietra che da tempo immemore subisce l’offesa tormentosa dell’acqua e del sole, la poesia del dubbio, chiusa nell’ermetica della parola tesa al simbolo, come un muto ossimoro prosciugante la realtà nella tensione al nulla. E’ qui si incontrano poeti italiani, quali quelli di "Labirinti della solitudine", di "Dimensione", "Perché verde è il mare" e quelli stranieri di "Wiswa Geetan", di "Pilgrims" e di tanti altri. Ed infine, come a cingere di verde il bouquet della nostra metafora, le liriche "Voglio un figlio", "Speranza", "Bambina", come a dire , con delicate immagini, che la vita non può e non deve morire perché, Montale insegna, "quando morirà la vita, morirà la poesia, non necessaria perché la vita sia, ma valore perché la vita ‘viva’".

L’insufficiente della variegata tematica accennata per esemplificazione, mentre si spera solleciti il lettore a cogliere ciò che non poteva essere contenuto in una prefazione, consente di poter concordare con la critica sul valore positivo delle risultanze del Concorso di poesia portato avanti già per cinque anni dall’Associazione "Il Faro" e induce ad invitare sempre più numerosi poeti ad inserirsi nel dialogo senza frontiera che amanti della poesia offrono con questo concorso, al solo fine di gratificare ciò che di più nobile e di più puro c’è nell’animo umano.

Angela Barbagallo

 






IV EDIZIONE 1995

Sez. A - Poesia in lingua italiana di Poeti italiani o stranieri, tradotti nella nostra lingua:

1° - Non chiedetemi chi sono di Salvatore Leone, Delia (CL);

2° - I vecchi di Salvatore Puglia, Taormina (ME);

3° - I labirinti della solitudine di Sergio Barbieri, Voghera (PV);

3° - Voglio un figlio di Elena Cimino, Gela (CL);

4° - Tramonto di Nino Cirrincione, Bagheria (PA);

4° - Ulivi di Eliseo Pisinicca, Panicarola (PG);

5° - Amo, amo di Filippo Belfiore, Piedimonte Etneo (CT).

 

Sez. B - Poesia in dialetto siciliano:

1° - Scuta li me’ paroli di Franco la Pica, Taormina (ME);

2° - Lampari di Salvo Tucci, Catania;

3° - A me’ matri di Piera Lojacono, Cefalù (PA).

 

Poesie finaliste:

Mi manchi di Roberto La Paglia, Catania;

Nebbia Signora di Franco Gobbetti, Desenzano del Garda (BS);

La terra che amo di Carmelita Randazzo Nicotra, S. Pietro Clarenza (CT).

Premio speciale, fuori concorso, a Rino Giacone, Catania.





 

 

SEZ. A

POESIE IN LINGUA ITALIANA

 

 




I VECCHI

Curvi

con la testa china

sul braciere

sanno ascoltare

nel buio

le parole del silenzio

sanno vedere la luce

oltre quelle quattro mura

e carpire i segreti al mondo

che non li vuole più

curiosando come bambini...

 

Parlano con frasi fatte

intrise di proverbi

e vorrebbero rubare

alla gioventù, il tempo

per sconfiggere la rabbia

che li assale.

 

Parlano, parlano sempre

per ingannare il tempo,

per non sentirsi soli

e pregano, quasi imprecano

perché non è finita ancora...

 

Hanno occhi umidi di pianto

anche se non piangono mai

e mani rugose, tremule

che aspettano una carezza

invano.

 

Curvi

senza speranze

vivono

senza più voglia

 

e nel silenzio

si staccano dal ramo

e se ne vanno

come foglie, col vento...

Salvatore Puglia (Taormina - ME)

 

Se è vero, come è vero, che gli anziani sono i depositari della saggezza è, purtroppo, altrettanto vero che i giovani, in particolar modo ai giorni nostri, sentono poco il desiderio di accostarvisi per essere illuminati dai loro consigli.

E loro, i vecchi, si rendono perfettamente conto della indifferenza che li circonda e, nella loro saggezza, passano le giornate "con gli occhi umidi di pianto" nella speranza che qualcuno li degni di una parola, un gesto, una carezza, convinti come sono che l’unica carezza da cui certamente verranno sfiorati, è quella della fredda mano che li porterà verso il capolinea.

Argomento antico quello dei "Vecchi", ma sempre di grande attualità, che non poteva sfuggire all’attenta osservazione di un poeta dall’animo nobile e generoso come Salvatore Puglia, il quale, con versi di pregiata fattura e ricchi di sentimento, spinge, quasi inconsciamente, il lettore, ad una profonda e serena meditazione.


 

VOGLIO UN FIGLIO

Voglio un figlio

che mi si sgrani

dall’anima

che s’inoltri

da questa carne

 

In un sacro silenzio

si crei

Da una goccia del cosmo

m’attraversi

Voglio un figlio

che albeggi

nel mio respiro

Voglio occhi nascenti

da cantare

Un cuore gemmi

dentro al mio cuore

fino a sbocciare

Una perla

affiori sull’onda

lasciato il guscio

in fondo al mio mare

un essere si formi

da ogni mia piaga

fatta dolcezza

Un piccolo germogli

dalle mie vittorie

Per lui rinascano beati

i miei inverni

Voglio un figlio

da trastullare

Prenderà le mie fiabe

e le allungherà

aggiungendo le sue

Ho cercato il più bel campo

dove guardarlo giocare

dove affidargli il vento

adunargli tutto il sole

e tinte odorose

e verdi braccia

e ali festose

Il sussurro

dell’erba che cresce

e dell’erba che muore

Voglio un figlio

da cullare

Per lui sarò

nenia e parola

Gli porgerò le stelle

il volto di luna

d’accarezzare

Gli offrirò

l’immenso ventre

della notte

per sognare

Voglio un figlio

da nutrire

nella mia più viva essenza

un figlio

nuovo amore

nuova forza

da sentire

da lasciare

per toccare

il giorno che continua

Elena Cimino (Gela - CL)

L’amore materno è, senza ombra di dubbio, il sentimento più bello di cui è dotato il genere umano. Per una donna, divenire madre, rappresente la massima aspirazione perché vede, nel figlio, non solo la continuazione della propria esistenza fisica, ma anche e soprattutto, il perpetuarsi dei propri sentimenti, delle proprie gioie, dei propri pensieri.

E quando questo dono del Signore, per un motivo o per un altro, tarda a venire, il desiderio della sua realizzazione diviene sempre più forte fine a spingere la donna a chiederlo nelle forme più accorate, come del resto fa, in modo mirabile, Elena Cimino.

"Voglio un figlio" dice, candidamente e senza sotterfugi, l’autrice, e lo ripete, con sfumature diverse, e con versi ricchi di sentimento, in una serie di splendidi quadretti, che danno, in modo inequivocabile, l’idea del suo desiderio: "...per toccare il giorno che continua".


 

I LABIRINTI DELLA SOLITUDINE

I mondi di sogno, le infinite

lontananze, le ambigue alternative,

le arcane scatole cinesi, i polverosi

graffiti che hanno lacerato un cuore:

 

sono soltanto vuote parole

e vane frasi che galleggiano

imputridite sull’immoto stagno

della mia mente...

 

Un piccolo fiore bianco ed un

minuscolo fradicio passero stanno

aspettando da sempre che qualcuno

 

- per interrompere il "monotono languore" -

 

li scagli in quella stagnante distesa

di avverbi di luogo e di tempo

che più non riflette né bianchi

alcioni né nuvole candide

 

che si sfioccano nell’infinito...

 

Resta solo il cardellino accecato

che si pulisce e lima il becco contro

le sbarre della sua gabbia dorata

 

e seguita a cantare lo strazio dell’ora

o la struggenza dell’attimo che

è passato senza lasciare traccia...

 

Sono parole, sono frasi che, pur

con i colori del sole, non lasciano

ombre.

E non c’è alcun bambino che lascia

orme di piedi nudi nell’accostarsi

allo stagno.

 

 

E non c’è nessun ragazzo che

getta la sua rosellina appassita

per rompere la staticità di quella

melma ricoperta da un palmo di

acqua di speranza concentrica.

 

C’è solamente un uomo solo che

attende immobile.

 

E nello specchiarsi in un vetro

d’acqua riconosce la sua infinita

labirintica solitudine.

Sergio Barbieri (Voghera - PV)

La solitudine è, senza dubbio, uno dei mali peggiori che affliggono l’animo umano. E quando ad essa si assommano i ricordi di una vita vissuta nella sua pienezza, il male diventa tanto atroce da spingere l’essere umano alla ricerca di quel quid che possa lenire, se non del tutto eliminare, i suoi effetti deleteri.

E Sergio Barbieri, poeta dall’impianto classico, nella sua lirica I Labirinti della solitudine ci indica, con una sequenza di versi meravigliosi e suggestivi, l’unica alternativa possibile: la rassegnazione. Quella rassegnazione che permette di accostarsi al presente in sintonia con il passato fino a fondere "presente e passato" in un immobile simbiosi d’attesa.


 

 

AMO, AMO

Io amo, amo,

amo il sole delle vette

su cui il cielo

s’impallidisce; la nenia,

che tra i rami degli alberi

accende fresco il Maestrale.

 

Amo il mare increspato,

e tutto a colombelle,

i cavalloni bellicosi

che inseguono

inverosimili fantasmi,

gl’isolotti che emergono dal mare,

le montagne che si spingono

sino agli altipiani del cielo.

 

Amo le vallate come stese

su un magnifico arazzo,

l’opulenza delle cascate,

bella la luna che valica le montagne.

 

Amo le cose semplici,

la prima alba, i chiarori antelucani,

il linguaggio dei bambini,

puro e arcano

perché non sanno dire bugie;

amo la deifica natura.

Amo tutto quello,

che coincide

col desiderio umile del mio cuore.

Filippo Belfiore (Piedimonte E. - CT)

Sembra quasi da non credere! Eppure, in questo mondo già alle soglie del 2000 in cui l’arroganza e la prepotenza sembrano farla da padroni, esiste ancora qualcuno che si ricorda dell’esistenza del vocabolo "umiltà" scrivendo di sentirsi trasportato da un amore profondo per tutto ciò "che coincide col desiderio umile del suo cuore".

E non si può non plaudire per quest’amore di Filippo Belfiore per le cose semplici di cui nella lirica Amo, amo con versi di raffinata fattura, fa una splendida elencazione che ci porta con il pensiero, sotto certi aspetti, al Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi.


 

 

 

Sezione B

POESIE

IN DIALETTO SICILIANO

 

 

 


 

SCUTA LI ME’ PAROLI

Scuta li me’ paroli figghiu da luna

è a luci du jiornu cca ti crisci

penza a ddu suli quannu abbrisci

grida a llu cièlu li to’ cuntintizzi

e iddu t’arriàla u villutu di lla peddi

ccussì comu alla natura duna li pinneddi

sparannu a ritta e a manca li biddizzi,

godini sinnò ti ‘mputrinisci.

 

Scuta li me’ paroli, non pinnicari troppu

a giuvintù è na fulàta i ventu

io stissu ‘nfina ‘eri avia vint’anni

e oggi mi nni sentu cchiù di centu,

forsi è stu carrucu i pinseri

st’attentu, non ti nnimmicàri

vali cchiù u cantu di n’acèddu

cca è liburu i bulari

cca di rricchizzi ‘ncòfunu, ‘mmunsèddu.

 

Scuta li me’ paroli, ci passai

u puzzu da miseria, a fami nira

ma jiancu d’intra comu nu linzolu

e quannu arriva u scuru di lla sira

rripòsu li me’ ossa senza dolu.

 

Scuta li me’ paroli, a ll’età toi

visti lu ‘nfernu di lla guerra

ma sugnu vivu e senza malatia

ringraziu a Diu e baciu puru ‘nterra,

ma u ne’ pinseri si rivorgi a tia.

 

Tirulu fora tuttu stu curaggiu,

cchi valuri po’ aviri ‘mbàcchittùni,

unu cca non fa nenti e n’òmu mortu,

puru na rròsa ‘nsarbàggia ‘nto sarbàggiu.

 

L’amici è veru aprunu li porti

ma sunnu pronti a chiudiri ‘mpurtùni

e a to’ famigghia è chidda ccà si ‘mpùni

tuttu lu pisu di lli to’ pinseri

dannuti amuri e n’mari di cunfortu.

 

Forsi è l’età

si pensu comu stai criscennu stortu,

lu cori mi nni doli,

figghiu da luna

pirchì non ‘voi scutari li me’ paroli?

Franco La Pica (Taormina - ME)

Il periodo della giovinezza è, senza dubbio, la parte più bella dell’esistenza dell’essere umano, ma, sotto il profilo della lealtà, dell’onestà e della correttezza, è anche la parte più vulnerabile.

E Franco La Pica, uomo dotato di grande saggezza, anche perché ha avuto modo, suo malgrado, di formarsi all’ombra delle vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale, come egli stesso scrive, ne è perfettamente consapevole.

Tanto ne è consapevole che, con la sua lirica Scuta li me’ paroli rivolge un accorato appello ad un giovane, che chiama metaforicamente "figlio della luna", perché si faccia coraggio e si allontani dalle cattive compagnie da cui è circondato.

Sono versi magnifici, vergati in ottimo siciliano, che danno l’esatta dimensione di un poeta dall’animo nobile e generoso che ha raggiunto il massimo della perfezione sia nei contenuti sia nello stile, spesso costellato da magnifiche similitudini "... puru na rròsa ‘nsarbaggia ‘nto sarbàggiu" (...anche una rosa diventa selvatica se cresce nel selvaggio).



LAMPARI

Notti stiddata! Canticu

di pùlichi e lampàri

rassumigghianti a un novu coru d’Angili!

Li piscaturi cantunu

piscannu a largu mari.

 

Tra ‘na calata e nautra,

c’è cu cuntenti rudi e si ‘ncannola;

li masculini ammagghianu,

si jinchinu casciola...

e dumani si mangia pani friscu!...

 

Lu scuru cedu a la chiaria d’Albura

ca lenta s’avvicina;

Gesù, quanta abbunnanzia,

di quanta grazia la varcuzza è china!

 

E supra li casciola chini di pisci,

odurusi d’albura e di mari,

lu primu suli d’oru

astuta li lampari.

 

Mentra lu marinaru,

‘nostanti la fatica,

e lu bruciuri di lu salamastru,

si rimetti a vucari

pi turnari a lu scaru.

Salvo Tucci (Catania)

Sin dai tempi più remoti, la pesca è stata una delle attività più praticate dal genere umano e non è difficile, anche ai giorni nostri, assistere, specie nei mari della nostra Sicilia, ad una notturna battuta di pesca in cui il tremolio delle lampare misto al tremulo luccichio delle stelle, si fonde, quasi in simbiosi, con il canto meraviglioso del pescatore.

Quello che, invece non è facile, è riuscire a coglierne la suggestiva sequenza delle immagini per tramandarle ai posteri. Per fare ciò occorre la sensibilità di un poeta! E sembra che Salvo Tucci non ne sia affatto privo se, nella sua lirica Lampari, riesce, in modo mirabile, con una serie di meravigliosi quadretti, in perfetta lingua siciliana, a dare al lettore, non solo una stupende visione del luogo e del tempo in cui si si svolge l’azione, ma anche e soprattutto, l’immagine dei pensieri, dei desideri, delle speranze del pescatore. Già, la speranza di chi sa che solo da un’ottima e abbondante pesca dipende, per alcuni giorni, il sostentamento suo e della sua famiglia: "... dumani si mangia pani friscu".

 


 

 

 

V EDIZIONE 1996

 

 

 

 


 

SEZ. A - POESIA IN LINGUA ITALIANA:

1° - Solo il soffio del vento di Ivano Mugnaini, Massarosa (LU);

2° - Al tramonto di Elena Cimino, Gela (CL);

3° - Pescatori di Giuseppe Risica, Tonnarella (ME);

4° - Il carrubo di Carmelita Randazzo Nicotra, S. Pietro Clarenza (CT);

5° - E quando ... di Alba Arcidiacono, Carlentini (SR).

 

SEZ. B - POESIA IN LINGUA STRANIERA:

1° - Instante gris di Nelsa Paz (Uruguay);

2° - Viswa Geetan (Mounam) di Mangalam Ramamoorthi (India);

3° - Hoy yo no se di Nelide Teresa Marzialetti Mariani (Uruguay);

4° - Espera di Emma Villarreal de Comacho (Messico);

5° - non assegnato.

 

SEZ. C - POESIA IN LINGUA SICILIANA:

1° - La causanza di Vito Tartaro, Ramacca (CT);

2° - Culura di la me’terra di Giovanni Noto, Aci S. Antonio (CT);

3° - U bisognu di Franco La Pica, Taormina (CT);

4° - Timpesta di Salvo Tucci, Catania;

5° - All’ébbica di Giovanni Bonaccorso, S. Tecla (CT).

 

POESIE FINALISTE:

Teresa di Calcutta di Angelo Manitta, Verzella (CT);

Dove nasce il mare? di Domenico Turco, Canicattì (CL);

Dov’è Dio? di Tina Giampaolo, Fiumefreddo di Sicilia (CT);

Lontano di Laura Maria Gabrielleschi, Grosseto;

Lode a Riposto di Rosario Leotta, S. Alfio (CT);

Attisa di Salvatore Cambria, S. Filippo del Mela (ME);

Autunnu di Salvatore Puglia, Taormina (ME).


 

 

 

SEZIONE A

POESIE

IN LINGUA ITALIANA

 

 

 

 



SOLO IL SOFFIO DEL VENTO

Solo il soffio del vento

il velo sonoro del tempo

che sfiora orecchie stordite

da stagnanti silenzi

rimpiangerò davvero

quando

con scricchiolio breve

la mano beffarda

del buffo sicario pietoso

serrerà l’ultima porta

spalancando all’anima

le lande brulle

di un animoso, anodino vuoto,

 

solo il soffio del vento

non discorsi e sentenze

sagge catene di fonemi

legate ai polsi della vita

appese al collo di libere pulsioni,

non frasi irritate o irridenti

di ringhianti arringatori

che sferzano la pelle morbida dell’armonia,

 

solo il soffio del vento

rimpiangerò quel giorno

assieme al ricordo di una voce

o alla voce di un ricordo

che è diventato vento

forse per colpa mia.

Ivano Mugnaini (MASSAROSA - LC)

Non sempre ciò che sembra superbia è arroganza!

Eppure accade spesso che, questo vocabolo, viene gratuitamente utilizzato all’indirizzo di questa o di quell’altra persona colpevole solamente di espletare delle funzioni per le quali è necessaria una buona dose di impegno e di buona volontà.

A coloro che confondono la personalità con l’arroganza si può, senza tema di smentita, rispondere che i peggiori arroganti sono proprio loro perché si permettono di esternare dei giudizi senza averne alcun titolo e, nel contempo, si suggerisce una attenta lettura di questa lirica che è la fotografia sovrapposta di due momenti della vita di un essere umano: in questo caso quella dell’autore.

Con questi versi, di incommensurabile fattura, infatti, Ivano Mugnaini riesce, in modo mirabile, a fondere le due entità di cui si compone la sua esistenza: da un lato, la personalità che è spesso frutto di grandi soddisfazioni, e dall’altro, l’umiltà che lo spinge a dichiarare che, quando sarà giunto il momento, non glorie ed onori rimpiangerà, ma solamente "il soffio del vento assieme al ricordo di una voce, diventata vento, forse per colpa sua".

Un amore perduto? Può darsi!


 

AL TRAMONTO

Lasciatemi così

col cielo disteso sull’anima

i desideri che svolazzano

nel sole squarciato

tra i colori che carezzano

la pelle dell’infinito

Pronti gli occhi

per il velo precipite

della sera

tra i cinguettii

che sfumano

in mormorii

di lunghe chiome d’ombra

e remoti profumi

che s’insinuano

a sorsi di pace

Elena Cimino (GELA - CL)

Quanti sono coloro che, almeno per una volta, nonsi sono soffermati ad ammirare, in una tiepida serata d’autunno, la bellezza incontaminata di un tramonto?

Forse pochi! Forse nessuno!

Comunque, al di fuori di questa constatazione, è certo che, tale fenomeno, non è, quasi mai, sfuggito alla attenta osservazione dei poeti italiani e stranieri di tutti i tempi che ci hanno regalato pagine di incommensurabile valore letterario.

Ed Elena Cimino, che non ha nulla da invidiare ai grandi cantori dei fenomeni naturali, non poteva non cadere nella "trappola dorata" che madre natura si diletta a predisporre per tutti coloro che hanno il privilegio di essere dotati di spirito di osservazione e di grandi capacità descrittive.

Al tramonto è, infatti, una lirica magnifica che porta il lettore a toccare, quasi con mano, i suoi magnifici colori, trasportandolo, quasi inconscientemente, ad immergersi in una sorta di tranquillità celestiale ytra profumi di pregevole e ricercata fattura.


 

E QUANDO...

Fluirono i giorni

quando il tempo

avrà un’acre sapore

e il silenzio invaderà

del limitato spazio

le indefinite ore.

 

Rallenterai allora

la tua corsa

inerpicandoti

sui minuti che prima

parevano eterni;

 

risalirai i ricordi

sfiorando tra le righe

dimenticati versi

che cullarono

l’incolmabile malinconia,

fedele amica

dell’inquieta solitudine.

 

E il chiarore

velato della luna,

quando dell’inverno

giungerà la sera,

ti condurrà

per l’incerto sentiero

e lo spirare

lieve del vento

scompiglierà,

come carezza,

i tuoi capelli argentati.

Alba Arcidiacono (CARLENTINI - SR)

Quanti sono coloro che, in questa vita fatta di affanni, sacrifici, delusioni e speranze, riescono a fermarsi, almeno per un attimo, per rivolgere il pensiero al futuro e con esso ai giorni della propria vecchiaia?

Forse pochi! E tra questi pochi non poteva mancare Alba Arcidiacono, poetessa dotata di un alto grado di sensibilità e di grandi capacità espressive.

Nella lirica E quando... essa mriesce, infatti, ad evidenziare, con versi di pregiata fattura, la differenza sostanziale esistente tra il pensiero umano di un giovane e quello di un anziano. Per il primo, il tempo non scorre maied è sempre primavera; per il secondo, scorre troppo velocemente e fa sempre freddo, preludio dell’inverno che incalza: la sera eterna!


 

 

 

SEZIONE B

POESIE

IN LINGUA STRANIERA

 

 

 

 



VISWA GEETAM (Mounam)

Song of the Universe (Silence)

Can mounam (the silence) be

The song of the universe!

Penetrating like the gold

Thongings through the

Rainbow beads of Clamour!

 

Can mounam be the loud

Lament when the sweet

Desires fell apart or

The pent-up fury couldn’t know

The way to bubble and overflow?

 

Can mounam be din of pride

When the heart could tongue it

No more? And the brimming

Joy is afraid lest

the sound would steal it away!

 

Can mounam be the sympathy

In the court of sorrow

When words fail to show?

When weeping dry what else be there?

Yeh, all these and more!

Yet the silence, the real mounam

Is bliss, Aananda when

I am within myself!

Mangalam Ramamoorthi (Madras - India)

Dice il dizionario: "Silenzio è l’assenza di suoni, di rumori, di voci", ma, per la mente feconda e ricca di fantasia del poeta, il silenzio può essere molto di più e può identificarsi, all’infinito, con tutte le sensazioni dell’animo umano che sono infinite.

Silenzio "... può essere l’inno dell’universo..." dice Mangalam Ramamoorthi, con i magnifici versi di questa lirica! Può essere lamento, può significare orgoglio! Ed ancora, può essere comprensione che giunge fino al profondo del cuore: "... il vero silenzio è beatitudine...", lasciando intendere che, nel silenzio più assoluto, ogni essere umano può raggiungere, idealmente, le mete più ambite.


 

HOY YO NO SÉ

Hoy yo no sé

si he andado lenta.

No sé si he andado

poco, regular o mucho.

 

Si yo sé

que en la escalera opaca

del cansancio acumulado

un extraño silencio

entra y sube por mi arterias

arañando la banquina

de mi existencia.

 

Una aguja perfora a mi alma.

En otras almas.

En otros senderos.

En otrodestino.

 

Naufragando

en una playa sensitiva

de tangible crudeza

y de secretas marejadas...

 

Hoy yo no sé como he andado.

No lo sé bien. Y no me importa.

Si yo he caminado por surcos soleados

o por brumas macizas.

 

Si se que al fin

soy yo, solamente yo...

Duende, ojos, corazón, luz y ola...

Y que igual sigo esperando

cualquier cosa ilusionada

en el puerto puntual

de la nada...

Nelide Teresa Marzialetti Mariani (S. José - Uruguay)


 

ESPERA

Cuando creas que todo ha terminado

que no tengas esperanzas

ni illusiones en tu vuda

piensa que todavía hay milagros

que sin saber por qué

en la extrañezas germinan

 

Cuando todo en ti no tenga ensueños

y tu pasos cansados nunca terminan

piensa en tus bonitos recuerdos

y déjalos que sean tus dueños

 

No los dejes nunca

y verás que de nuevo, poco a poco brillan.

 

No te agobies por las cosas de este mundo,

cada quien puede vivir su vida

tú alégrate si tu sufrimiento es profundo,

podrás ofrecerlo a Dios siempre en la día.

 

Así mientras otros no tienen

nada qué ofrecer de gran valía

tus penas serán un cántaro

que llevas a los justos allá arriba.

Emma Villarreal De Comacho (Messico)

Se è vero come è vero che l’essere umano si distingue per le sue capacità intellettive è anche vero che egli ha il dovere di fare maggiormente uso del proprio intelletto nei momenti di particolare difficoltà! Se poiil ragionamento è supportato da un pizzico di fede, le difficoltà possono anche dissolversi nella "speranza" di un miracolo o lasciandosi cullare dai "bei ricordi" del passato.

Anche le sofferenze hanno il loro lato positivo, dice Emma Villarreal De Comacho, perché quando sarà giunto il momento, serviranno da credenziali per poter godere della gloria del Signore!

Una lirica dai contenuti religiosi? Può darsi, ma ricca, in ogni caso, di molta umiltà e di tanta, tanta personalità!


 

 

 

Sezione C

POESIE

IN DIALETTO SICILIANO

 

 

 


 

TIMPESTA

Era Dicembri,

l’ura di la basciura.

 

‘Na varca a largu mari;

li piscaturi stanchi,

avviliti di la jurnata

di ‘na misira pisca,

sistemunu li conzi...

vogunu pi riturnari...

 

‘Ntuttuna lu Celu

si fa ammarazzatu:

di n-tràntulu

li piscaturi su’ pigghiati

vidennu ca lu mari si tramuta...

 

Nuvula agghiummarati

si fannu chiù vicinu...

Lampi, trona, acqua a diruttu...

si scatinaru l’unni,

nfrunta la dragunara

ca n-ogni cori metti chiù paura.

Lu Celu si ‘ncucchiava cu lu mari:

li marinara, spersi ammenzu a l’unni,

gridanu e si chiamanu fra d’iddi...

guardannu ‘ncelu mannanu prijeri.

 

Salvatini!

Salvatini o Signuri!

E siddu lu peggiu duvissi accadìri...

li nostri figghi

non ti li scurdari!

 

Ma a l’intrasatta,

comu ad un cumannu,

s’ammaciò lu ventu

e l’unni si cuitaru:

li marinara ‘ncrocianu li rimi

pi ringraziari lu Ridinturi.

 

Turnau la rema calanti...

e mentri lu suli va pi tramuntari

tinci di russu lu celu e lu mari,

ridannu gioia e amuri

a li so’ cori.

Salvo Tucci (Catania)

Basta sfogliare, anche con disinvoltura, una qualunque antologia per rendersi cinto che il lampo, il tuono, l’uragano, il terremoto, la tempesta sono argomenti che non sfuggono alla sensibilità del poeta che ne fa, spesso, oggetto delle proprie liriche.

E anche Salvo Tucci, poeta siciliano dall’impianto classico, non poteva non cantare uno di questi eventi della natura: la tempesta (timpesta).

Egli ha, però, la grande capacità di trattare l’argomento non già come un avvenimento a sé stante, ma nel contesto più ampio di una battuta di pesca.

Alcuni uomoni di mare, trovandosi in serie dofficoltà, si rivolgono a Dio perché li salvi (...Salvatini o Signuri...) e, se ciò non fosse possibile, per affidarGli i propri figli (...li nostri figghi non ti li scurdari!...).

Ed avviene il miracolo: il vento si placa e le onde si acqiuetano (...s’ammaciò lu ventu e l’unni si cuitaru...)

Quanta dolcezza in questi versi e quanta fede!


 

ALL’ÉBBICA

All’ébbica, ‘nu vecchiu

-cunta mo nannu Janu-

‘n campagna e nte cità

era stimatu "sacru";

‘n primisi comu omu

e po’ comu anzianu:

omu di spireienza

di sennu e umanità

riccu ‘i prudenza...

Cuntava ‘n sucità

cuntava e comu!

Tinennu nta ‘na manu

dui, tri famigghi;

e lu rispettu ad iddu

nta ddi civirtà

da parti ‘i tutti

niputeddi efigghi

era "naturali".

 

Oggi n’è chiù cussì!

Semu ora "sperti"

‘struiti, chiù civili,

cussì dicemu

e c’è cu’ n’u fa cridiri.

E ‘ntantu l’anzianu

vali nenti,

non lu putemu vìdiri,

cu d’iddu cumpurtannini

di vili!

"Ci havi l’arterii"

" ‘ddivintau matusa"

"è pisu p’a famigghia"...

Chistu si dici!

Vuliti a viritati?

Semu nui cangiati:

"Cosafitusa" semu ‘ddivintati.

 

Dicissi: "Figghia,

i sacrifici

ca pi tia, nica

e finu a granni

to patruzzu fici

ti li scurdasti?".

"E tu, so figghiu,

chiù non pensi ô pani

ca pi tant’anni

a sbafu ti mangiasti,

c’ora lu tratti

comu fussi ‘n cani".

 

Dicitimi si sbagghiu.

Sichitannu ‘i stu passu

‘n jornu l’avemu ‘i Diu

cu l’ogghiu e l’agghiu!

 

Di tanti cosi putemu

oggi vantarini

ma tant’autri semu

veri rei.

 

Picciotti e giuvineddi,

amici miei

arrifrittemu:

" ‘n jornu ni sarà fattu

zoccu all’autri facemu"!

Giovanni Bonaccorso (Acireale-CT)

Sì, è proprio così! Un tempo, l’uomo aveva molto rispetto per la terza età! L’anziano era stimato, rispettato e tenuto in grande considerazione! A lui, il giovane si rivolgeva per chiedere consigli e per essere illuminato!

Oggi, alle soglie del 2000, l’anziano è considerato uno sclerotico, un matusa, unpeso per la famiglia (...è pisu p’a famigghia...) del quale se ne farebbe volentieri a meno.

E questa realtà non poteva non cadere sotto l’attenta osservazione di un poeta dall’animo nobile e generoso come Giovanni Bonaccorso che, fra l’altro, ha fatto dell’altruismo la sua principale ragione di vita essendo un sacerdote molto attento alle problematiche della società moderna.

All’ébbica è una magnifica lirica, in versi siciliani, con la quale l’autore evidenzia, in modo mirabile, non solo la sua preoccupazione per un problema di così grande portata, ma con cui lancia anche un accorato monito alla nostra e alle generazioni future: ...’n jornu ni sarà fattu zoccu all’autru facemu!" (un giorno sarà fatto a noi ciò che oggi facciamo agli altri!).

 

Le poesie finaliste e segnalate sono presenti in questa pubblicazione, anche se qui non sono visualizzate.