Inês de Castro, Dante e la Sicilia

 

Salvatore Statello

 

 



 

Degli infelici amori di Inês de Castro e di Pietro, erede al trono di Portogallo, poco si è detto in Italia in questo secolo appena trascorso, mentre una vasta produzione letteraria e musicale si era avuta nel Settecento e nell’Ottocento nel nostro paese e in altri europei.

Viene spontaneo chiederci chi era Inês de Castro. Figlia illegittima di Pietro, gran signore di Galizia e di Aldonça Valdares, era d’una bellezza straordinaria, tanto che è stata chiamata dai poeti spagnoli: “cuello de garza”, e da quelli portoghesi: “colo de alabastro”. Ma, come per molti personaggi mitologici ed eroici, anche di lei non si conosce né il luogo né la data della sua nascita. Appare sullo scenario storico nel 1340 al seguito di Costanza Manuel di Castiglia sposa dell’infante del Portogallo.

Subito il giovane principe è colpito dalla bellezza della damigella che, per queste attenzioni ricambiate, viene allontanata dalla corte ed esiliata nel castello di Albuquerque, poiché per impedire questi amori a nulla erano valsi i vari tentativi del re, compreso quello della “cognatio spiritualis”, avendole fatto battezzare uno dei principini, figlio di Pietro e di Costanza.

Morta Costanza nel 1345, Pietro richiama dall’esilio Inês e pubblicamente convive con lei in varie città del regno. Ma neanche questo concubinato piace al re, Alfonso IV, che sperava per il figlio nuove nozze legittime e regali.

Intanto i due amanti hanno quattro figli.

Mentre soggiornano a Coimbra, nel palazzo reale annesso al monastero di Santa Clara, il re, ormai anziano, pressato dai consiglieri e dal malcontento popolare contro questo legame, visto come peccaminoso, e frenare l’influenza dei fratelli di Inês sul principe Pietro, il 7 gennaio 1355 decide di fare uccidere la donna durante l’assenza del figlio, di fare uccidere la donna rea di rispondere all’amore del principe “con outro amor” (ved. A. Ferriera: Castro).

Subito dopo questi scatena una guerra civile contro il padre, che si protrae per molti mesi.

Tre anni dopo essere salito al trono, nel 1360, col giuramento di Cantanhede, Pietro dichiara di aver sposato Inês segretamente per paura del padre, a Bragança durante una cerimonia officiata dal vescovo di Guarda. Intanto fa catturare in Spagna due consiglieri del defunto re: Pero Coelho e Álvaro Gonçalves, e, dopo averli fatti torturare, fa strappare loro il cuore, simbolo dell’amore, bruciare i corpi e disperdere le ceneri nel Tago. Mentre un terzo, Diogo Lopes Pacheco, riesce a salvarsi in Francia.

L’anno successivo fa riesumare i resti mortali della donna amata e, dopo averla fatta rivestire con abiti regali (e, secondo una certa tradizione spagnola, averla sposata post-mortem in questa circostanza e obbligato i sudditi a prostrarsi e a baciarle la mano), in processione la fa trasportare per circa 18 km, da Coimbra ad Alcobaça, dove le fa dare solenne sepoltura in uno dei monumenti funebri più belli di tutta la penisola iberica.

Lo stesso Pietro fa costruire la propria tomba di fronte a quella della sposa, in modo che il giorno del Giudizio, al momento della resurrezione della carne, i due amanti possano ritrovarsi l’uno di fronte all’altro per l’abbraccio finale per tutta l’eternità.

Fin qui la storia. Le sole incertezze che tuttora perdurano sono il matrimonio segreto o post-mortem e il baciamano dei resti mortali sei anni dopo l’assassinio.

Anche per problemi dinastici, per oltre un secolo, Inês è considerata donna intrigante e corruttrice. Ma verso la fine del ‘400, sotto l’influenza della cultura rinascimentale italiana, grazie alla nuova visione dell’amore di Dante e di Petrarca e delle idee neoplatoniche, diffusesi in molte nazioni europee e importate in Portogallo dall’umanista Cataldo Siculo (1455/1517), la sua fama cambia totalmente, diventando lei un topos letterario della cultura portoghese prima ed europea dopo.

Seguendo l’esempio di coloro che avevano cantato i “miti patri”, il primo poeta a scrivere “trovas” in morte di Inês de Castro, è Garcia de Resende che nel 1516, nel “Cancioneiro Geral” della produzione poetica nazionale, pubblica: Trovas que Garcia de Resende fez à morte de Dona Inês de Castro. Per 280 versi il poeta canta gli amori infelici di Inês, dove si avverte l’eco del V canto dell’Inferno di Dante. Successivamente è Camões, il grande poeta epico, epigono del nostro Ariosto, che, nel cantare le gesta di “patres” lusitani in: Os Lusiadas, nel 1572, le dedica 18 ottave. Intanto Antonio Ferreira (1528/1569) scrive, probabilmente tra il 1552 e il 57, e fa rappresentare a Coimbra, la tragedia: Castro, sul modello dell’Octavia, attribuita a Seneca,  tuttora considerata opera drammatica tra le più significative del teatro portoghese, pubblicata però dal figlio del poeta nel 1586 e nel 1598.

Con queste opere Inês ha la sua consacrazione letteraria, assurgendo a mito: eroina e simbolo dell’amore puro e totale, vittima innocente della gelosia e degli intrighi delle “inique corti”, sacrificata agli interessi del potere e della ragion di stato.

Nel frattempo Jerónimo Bermúdez, un monaco spagnolo, pubblica nel 1577 a Madrid la tragedia: Nise Lastimosa (anagramma di Ines) e successivamente: Nise Laureada, dove per la prima volta si parla in teatro dell’esumazione dei resti mortali, dell’incoronazione e del baciamano. Così l’argomento diventa anche dominio della letteratura spagnola che evidenzia l’aspetto macabro, rispecchiando lo spirito della Controriforma ispanica e il senso della teatralità oltre ogni misura. Evidenzia, inoltre, una sensibilità tipicamente nazionale, in contrapposizione alla lezione rinascimentale e alla razionalità aristotelica, alla quale si erano tenuti fedeli i Portoghesi: l’animo di questi essenzialmente lirico, tendente all’epica, invece, quello spagnolo.

L’opera di maggior valore artistico del teatro spagnolo del “Siglo de Oro”, che tratta questo argomento, è: Reinar después de morir di Luís Velez de Guevara, pubblicata postuma nel 1652.

Con l’intervento degli autori spagnoli Inês esce dai confini nazionali per diventare topos della cultura iberica (anche Lope de Vega compone un sonetto per lei). Ma a questo punto storia e leggenda si confondono.

Ormai Inês viene proclamata regina post-mortem, di un regno che è quello della gloria letteraria.

Intanto, Francisco Manuel de Melo, poeta portoghese vissuto alla corte di Madrid, durante il periodo dell’unificazione dei due stati iberici, scrive per Inês 12 sonetti e una romanza in lingua castigliana, dov’è evidente l’influenza di Góngora.

Nel 1723, il francese Antoine Houdar de la Motte, uno dei “philosophes” della “querelle des anciens et des modernes”, pubblica la sua tragedia: Inès de Castro. Anche se l’opera non è di elevato pregio letterario, data l’egemonia della cultura francese, il soggetto, varcati i Pirinei, diventa patrimonio culturale di tutta l’Europa, anche nell’ambito della musica lirica. In Italia si hanno varie traduzioni. Dieci anni dopo, il nostro Metastasio si interessa all’argomento, trasferendolo, però, in tempi mitologici, con il suo dramma: Demofoonte, musicato dal Caldara. Nel 1871 è Juan Columez, poeta spagnolo che operava a Livorno, a scrivere la sua Agnese di Castro. Mentre nel 1825 è Davide Bertolotti a scrivere una: Ines de Castro. Ma sono soprattutto i nostri musicisti ad ispirarsi a questa storia con i loro melodrammi, balletti e capricci. Si ricordano: Giovanni Paisiello, Francesco Bianchi, Nicolò Zingarelli, Carlo Valentini, Giuseppe Persiani, Pietro Antonio Coppola. Persino Giuseppe Verdi ci ha lasciato degli appunti per una possibile composizione. Mentre i librettisti sono: Luigi De Sanctis, Antonio Gasperini, Alberto Scribani, Angelo Talassi, Antonio Profumo e Salvatore Cammarano, la cui opera  musicata da Giuseppe Persiani, ha avuto grande successo nell’Ottocento, ed è stata riproposta nel 1999, al teatro lirico di Jesi, in occasione del bicentenario della nascita del musicista recanatese. A proposito di musica si ricorda ancora che la storia di Inês, messa in opera da John Clifford e musicata da James MacMillan, ha trionfato al festival di Edimburgo nel 1996.

Oltre alla inarrestabile produzione letteraria portoghese, si ricorda nel Novecento il successo internazionale riportato dalla tragedia: La reine morte del francese Henry de Montherlant, composta nel 1942. Ma già in passato si erano occupati in Francia della vicenda di Inês anche Mme fe Genlis, Victor Hugo, appena sedicenne, e Alfred Poizat. 

Questa straziante storia d’amore, che per cinque secoli ha ispirato poeti, musicisti, drammaturghi e romanzieri è legata alla storia della Sicilia e all’opera di Dante, anche se di primo acchito può sembrare paradossale. Quando Dante è morto nel 1321, probabilmente Inês non era ancora nata e Pietro aveva circa un anno. Ma la vicenda dei due amanti s’intreccia con l’opera dantesca se si tiene conto proprio della storia della Sicilia e degli antenati di lui. Quasi tutti gli studi genealogici di Pietro per parte di Isabella santa, sua nonna paterna (1271/1336, canonizzata nel 1625), tra gli avi annoverano Pietro III d’Aragona e Costanza II, regina di Sicilia e d’Aragona, per continuare a ricordare poi, in linea maschile, soltanto quelli portoghesi e castigliani.

Ma Costanza II era figlia di Manfredi e di Beatrice di Savoia, e Manfredi, come si sa, era figlio naturale del grande imperatore Federico II e di Bianca Lancia. Federico di Svevia, che aveva eletto la sua sede a Palermo, facendo della nostra isola una fucina di cultura aperta alle influenze filosofiche, artistiche e scientifiche del suo tempo, a sua volta, era figlio di Costanza I d’Altavilla, regina di Sicilia e moglie dell’imperatore Enrico VI, figlio quest’ultimo dell’altro famoso Federico imperatore, il Barbarossa.

Ora Dante, nella Divina Commedia, parla di tutti questi personaggi con una certa simpatia, poiché questa dinastia era portatrice degli ideali politici dell’Impero, condivisi dal poeta, e perché l’Impero rappresentava sia l’unità di alcuni paesi europei, sia la laicità dello stato, in contrapposizione alla visione teocratica del papato e alla supremazia di questo anche sull’Impero.

Purtroppo il nostro poeta non parla degli altri antenati di Pietro, di ascendenza portoghese o spagnola probabilmente perché non ne conosceva bene le vicende, o perché lontani dai suoi interessi politici e poetici.

I soli cui fa cenno nel XIX canto del Paradiso (vv. 125 e 139) sono Ferdinando IV di Castiglia (1285-1312) e Dinis di Portogallo (+1325): genero e suocero. Il primo, figlio di Sancho IV e di Maria Molina era marito di Costanza, figlia di Dinis e di Santa Isabella, quindi zio dell’infante Pietro. Il secondo, proprio don Dinis, uno dei migliori sovrani ricordati dalla storia portoghese, tanto da meritare l’appellativo di “Rei lavrador”, marito di Santa Isabella, padre di Alfonso IV di Portogallo, dunque nonno del nostro principe. (Si ricorda per inciso che Beatrice, madre di Pietro, era sorella di Ferdinando di Castiglia, ed entrambi fratellastri, per parte del padre, di Violante de Ucero, nonna paterna di Inês). Quando Dante immaginò il suo viaggio ultraterreno, i due sovrani erano ancora vivi. Anzi, don Dinis è morto quattro anni dopo il poeta. Essi sono citati nel canto dei “principi giusti”, però nei loro confronti Dante ha parole di biasimo. Essi appartengono a quella schiera di cristiani che “gridan ‘Cristo, Cristo!’,/che saranno in giudicio essi men prope/ a lui, che tal che non conosce Cristo;/ e tai cristian dannerà l’Etïòpe, / quando si partiranno i due collegi,/ l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe” (vv. 106/111).

Questi principi, che hanno avuto il nome di Cristo sulle labbra, puro “flatus vocis”, non sono nemmeno degni di essere chiamati per nome, ma sono introdotti dal semplice dimostrativo “quel”: “vedrassi la lussuria e il viver molle/ di quel di Spagna” (v. 125). E più oltre, senza dire nemmeno la colpa: “E quel di Portogallo” (v. 139). Ma Dante, pur parlando dei familiari di Santa Isabella, non parla mai direttamente di lei. Nello stesso canto, oltre al marito e al genero, ricorda due fratelli di lei, figli di Pietro d’Aragona e di Costanza, che “jus sanguinis” sono discendenti anch’essi della famiglia imperiale degli Svevi e legati direttamente alla storia della Sicilia. Entrambi sono cognati di don Dinis e prozii di Pietro I di Portogallo. Il primo è Federico II d’Aragona, re di Sicilia, l’altro è Giacomo II, re d’Aragona e per alcuni anni anche re di Sicilia. Il poeta denuncia la loro avarizia, viltà e pochezza: “Vedrassi l’avarizia e la viltate/ di quei che guarda l’isola del fuoco,/ ove Anchise finì la lunga etate;/ e a dar ad intender quanto è poco,/ la sua scrittura fian lettere mozze, /che noteranno molto in parvo loco./ E parranno a ciascun l’opere sozze/ del barba e del frate, che tanto egregia/ nazione a due corone han fatto bozze” (vv. 130/138).

Dante aveva già parlato altre due volte di questi fratelli, indegni del sangue regale che scorreva nelle loro vene, nobilitato in passato grazie alle gesta valorose dei loro antenati. Nel VII canto del Purgatorio, ricordando anche il loro genitore, Pietro III d’Aragona, e il loro fratello Alfonso III, morto prematuramente, dice: “Quel che par sì membruto e che s’accorda, / cantando, con colui dal maschio naso, / d’ogne valor portò cinta la corda;/ e se dopo di lui fosse rimaso/ lo giovanetto che retro a lui siede,/ ben andava il valore di vaso in vaso,/ che non si puote dir de l’altre rede;/ Iacomo e Federigo hanno i reami;/ del retaggio miglior nessun possiede” (vv. 112/120). E più oltre: “Anche al nasuto vanno mie parole/ non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,/ onde Puglia e Proenza già si dole./ Tant’è del seme suo minor la pianta, /quanto, più che Beatrice e Margherita, / Costanza di marito ancor si vanta” (vv. 124/129).

Per una migliore comprensione di questi versi si ricorda brevemente che Carlo I d’Angiò (“colui dal maschio naso”), con l’aiuto del papa Clemente IV, avversario della famiglia imperiale, ha conquistato il Regno di Sicilia, dopo aver sconfitto e ucciso Manfredi a Benevento il 26/2/1266. Qualche mese dopo, Costanza II, figlia del re sconfitto ed erede del Regno di Sicilia, sposa Pietro III d’Aragona, il quale, alleatosi con i Veneziani e con l’imperatore d’Oriente, Michele III Paleologo, fomenta la ribellione nell’isola contro gli Angioini, che sfocia nella guerra del Vespro, nel marzo del 1282. Così, almeno la Sicilia ritorna ai diretti eredi degli Svevi: a Costanza II e al marito Pietro III d’Aragona. Mentre il resto del Regno di Sicilia, cioè l’Italia meridionale resta agli Angioini con capitale Napoli. Costanza, bisnonna di Pietro, era già stata menzionata da Dante nel III canto del Purgatorio, il malinconico canto di Manfredi. Il re, che tutti credevano dannato, perché morto in stato di scomunica, invece si era salvato, perché sul punto di morire si era reso “piangendo, a quei che volentier perdona”. Ma nonostante questo pentimento, doveva restare in purgatorio trenta volte tanto quanto tempo era rimasto fuori dalla comunità ecclesiale, cioè scomunicato. E poiché le preghiere dei vivi, possono abbreviare tale pena, Manfredi con cortesia regale e affetto paterno, chiede a Dante di portare a Costanza due messaggi: “ond’io ti priego che, quando riedi,/ vedi a mia figlia, genitrice/ de l’onor di Cicilia e d’Aragona/ e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice” (vv: 114/117) e conclude il suo discorso: “vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,/ rivelando a la ‘mia buona Costanza’/ come m’hai visto, e anco esto divieto;/ ché qui per quei di là molto s’avanza” (vv. 142/145). Dunque, Manfredi chiede a Dante di rivelare alla figlia Costanza il suo stato sia per riscattare il proprio onore (“e dichi ‘l ver a lei, s’altro si dice”, tranquillizzandola così anche della propria salvezza), sia per chiedere suffragi, poiché con le preghiere dei viventi si abbreviano le sofferenze delle anime del purgatorio.

Ma in questi versi sembra emergere una contraddizione sul giudizio che Dante dà nei confronti dei due figli di Costanza. Come si è già visto, nel VII canto del Purgatorio e nel XIX del Paradiso, il poeta attacca gli eredi di Pietro d’Aragona, mentre qui, per bocca di Manfredi, chiama Costanza “genitrice/ de l’onor di Cicilia e d’Aragona”.  

Va sottolineata la delicatezza con cui Manfredi ricorda la figlia: “mia buona Costanza”. Probabilmente qui Dante, la chiama “genitrice dell’onor di Cicilia e d’Aragona”, intendendo con la parola “onor” la loro regalità, essendo entrambi “re”.

Si deve tener conto anche che è il nonno che parla con la dolcezza, comprensione e bontà che lo caratterizzano lungo tutto il canto. Pertanto egli non si scaglia contro i nipoti indegni (che hanno barattato o non hanno saputo governare il regno per cui egli era morto), così come parla anche con distacco e serenità regale persino dei suoi avversari, che dopo la sua morte si sono accaniti ferocemente contro il suo corpo. A questo punto  viene spontaneo ricordare l’esumazione e l’abbandono sul greto del fiume dei resti mortali di Manfredi di cui la Chiesa ha fatto scempio e quella dei resti di Ines che, invece, segna la sua apoteosi.

Per concludere su Manfredi, è da ricordare quanto dice il poeta, nell’indimenticabile endecasillabo, ad incipit del ritratto fisico del personaggio: “biondo era e bello e di gentile aspetto”. Caratteristiche somatiche che, secondo alcuni biografi, possedeva anche l’infante Pietro.

Il padre di Manfredi, il grande imperatore Federico II di Svevia, che tanto lustro ha dato alla corte di Palermo, invece è ricordato da Dante nel X e nel XIII canto dell’Inferno e nel III del Paradiso. Il poeta ne rievoca la persona con le parole di Pier della Vigna che così si qualifica e descrive la sua tragica vicenda terrena: “Io son colui che tenni ambo le chiavi/ del cor di Federigo, e le volsi,/ serrando e disserrando, sì soavi,/ che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;/ fede portai al glorioso offizio, / tanto ch’i’ ne perdei li sonni e ‘ polsi./ La meretrice che mai da l’ospizio/ di Cesare non torse li occhi putti;/ morte comune de le corti vizio,/ infiammò contra me li animi tutti;/ e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,/ che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti” (vv. 58/69).

Il grande imperatore, presentato come vittima, anche lui, dell’invidia e degli intrighi delle corti, tanto che non riconobbe “la fede (portata) al glorioso offizio”, secondo Dante, da uno dei suoi migliori ministri per cui i “lieti onor tornaro in tristi lutti”, è collocato tra gli eretici: “qua dentro è ‘l secondo Federico” (X, 119), perché considerato “l’anticristo”, per il libero pensiero da lui professato, nonostante la grandezza morale che egli aveva rappresentato.

Si ricorda che sarà l’invidia, una delle componenti degli intrighi, che un secolo dopo perderà anche Inês.

La madre di Federico, “Costanza imperadrice”, invece è ricordata nel III canto del Purgatorio ed è Manfredi che, per farsi riconoscere subito da Dante e far capire l’importanza del proprio ruolo e di quello della sua famiglia, si nomina: “Io son Manfredi,/ nepote di Costanza imperadrice”. L’altro passo in cui Costanza è ricordata e collocata tra i beati, dove le anime sono pura luce, è il III canto del Paradiso. “Quest’è la luce de la gran Costanza/ che del secondo vento di Soave/ generò il terzo e l’ultima possanza” (vv. 118/120).

Il marito di Costanza, l’imperatore Enrico VI, è appena ricordato come “secondo vento” (probabilmente per la brevità del suo regno), fecondatore del “terzo e ultima possanza”. Così Federico II di Svevia (Soave), viene riscattato dal suo ruolo di vittima dell’invidia, degli intrighi delle corti e della fama di eretico, ed assurge all’effettivo ruolo storico che ha avuto, “ultima possanza” della dinastia, poiché né il figlio Manfredi né altri imperatori degli Hohenstaufen hanno raggiunto la sua fama e il suo prestigio.

Si può concludere citando con questi antenati di Pietro, da parte di Santa Isabella, sua nonna paterna, l’altro grande imperatore Federico Barbarossa. È un monaco che, per indicare il periodo in cui ha esercitato la sua funzione, afferma: “Io fui abate in San Zeno a Verona/ sotto lo imperio del buon Barbarossa” (Purgatorio, XVIII, vv. 118/119).

Ad avvalorare la tesi che Dante si sia interessato di quei governanti della Sicilia, antenati di Pietro I di Portogallo, marito/amante di Inês, perché rappresentanti di quell’Impero o direttamente legati ad esso, che solo poteva garantire la laicità dello stato e la pace al di là dei “particolari” locali, ne dà conferma il fatto che nelle sue cantiche non fa alcun cenno a Ruggero II e a Ruggero I dei Normanni, padre e nonno della grande Costanza d’Altavilla, che pure hanno lasciato grande ed illustre fama del loro operato.

Dai giudizi da lui espressi nei confronti dei discendenti del “buon Barbarossa” e dell’ ”ultima possanza”, Federico di Svevia, emerge un panorama vario di personalità più o meno vittime di passioni, quali l’avarizia, la viltà, la lussuria i cui effetti nefasti ricadranno sulla tragica vicenda dell’infelice Inês, quale vittima espiatrice.

Ma il rapporto tra la vicenda di Inês e la Sicilia non si esaurisce qui. Mezzo secolo dopo la sua morte, una sua diretta discendente, Eleonora, figlia di Sancho di Albuquerque e di Beatrice, figlia, quest’ultima, di Inês e di Pietro I di Portogallo, (ved. R. Bismut, Sur l’influence des “Trovas à morte de Dona Inês de Castro” de Resende dans la Castro de Ferreira, Arquivos do Centro Cultural Português XXII, Fundação Calouste Gulbenkian, Lisboa-Paris, 1986, p. 478), è andata in sposa a Ferdinando I, il giusto, re d’Aragona e di Sicilia. Il loro figlio, Alfonso V, il Magnanimo, 1396/1458, re d’Aragona e di Sicilia, che assumerà il nome di Alfonso I, re di Napoli nel 1442 e, successivamente, di re delle Due Sicilie, è colui che nel 1434 ha istituito l’università di Catania. La sua famiglia, nel bene e nel male, ha continuato a regnare sulla nostra Isola sino al 1700.

 

Salvatore Statello