Inês de Castro  

di Salvatore Statello

(Il Faro, n° 5/6, gennaio/giugno 1997)

 

 

Nella dicotomia Eros/Tanathos che sintetizza tante storie d’amore impossibile ormai classiche, rese immortali dai poeti oltre i confini del tempo, Edipo/Giocasta, Fedra/Ippolito, sino ai nostri Giulietta e Romeo, per non parlare di Paolo e Francesca, il cui amore vince la morte, ci piace proporre quello di Inês de Castro e di Pietro I di Portogallo, il cui amore, non solo va oltre la tomba, ma nella visione escatologica del cristianesimo del Giudizio Universale, spera nel ricongiungimento dei corpi dopo la resurrezione della carne.

Questo personaggio femminile è assurto a mito della cultura lusitana, la cui tragica vicenda umana, non è scevra da elementi fantastici e leggendari

Inês, figlia illegittima di Pietro, gran signore di Galizia, era una damigella d’onore al seguito di Costanza di Castiglia, andata in sposa nel l335 all’infante portoghese, Pietro, figlio di Alfonso IV e di Beatrice, a sua volta zia del padre di Inês. Ma pare che l’infante sia stato subito colpito di più dalla bellezza della damigella, chiamata “collo di cigno” che da quella della legittima sposa. Per queste attenzioni ricambiate, secondo alcune fonti, Inês è stata allontanata dalla corte, esiliata e, per di più, fatta diventare madrina di uno dei principino, per rendere impossibile e “peccaminosa” qualsiasi relazione tra l’infante ed Inês.

Ma alla morte di Costanza (1345), Pietro richiama Inês dall’esilio, contrae con lei segreto matrimonio, celebrato dall’arcivescovo di Bragança nella chiesa di S. Vincenzo (José Saramago: Viaggio in Portogallo, Bompiani, Roma, 1998, pag. 23), ed entrambi vivono nella “casa do mosteiro de Santa Clara” a Coimbra,  ai bordi del Mondego, tra le “fontane dell’amore e del pianto”, dove hanno ben quattro figli.

In assenza del principe, i cattivi consiglieri del re: Pero Coelho, Alvaro Gonçalves e Diogo Lopes Pacheco, temendo la crescente influenza dei fratelli di Inês, Fernando e Álvaro Pires de Castro, indussero re Alfonso, incerto e tentennante, ad emettere sentenza di morte contro la donna, rea di rispondere all’amore del principe "com outro amor".

Morto il vecchio re e ritornato, dalle fatiche belliche, dopo essere salito al trono, Pietro I vendicò la morte di Inês facendo strappare il cuore ai cattivi consiglieri del padre; fece traslare i resti mortali dell’amante dopo averla fatta incoronare regina e avere obbligato i sudditi a prostrarsi dinanzi a lei e a baciarle la mano. Poi, così incoronata, accanto a lui, la fece portare in corteo da Coimbra, ai bordi del Mondego, tra le "fontane dell’amore e del pianto", dove avevano vissuto il loro amore segreto, al monastero di Santa Maria di Alcobaça, dove le fece dare solenne sepoltura in uno dei più bei monumenti funebri di tutto il Portogallo.

Lo stesso Pedro fece costruire il proprio sarcofago di fronte a quello di Inês in modo che, il giorno del Giudizio, uscendo dalle rispettive tombe, i due amanti potessero ritrovarsi l’uno di fronte all’altro per restare definitivamente insieme per l’eternità, anche se provvisoriamente e soltanto sino alla fine del mondo ("até a fim do mundo") saranno separati nelle proprie tombe.

L’episodio di quest’amore romantico, sacrificato "aos interesses superiores da Nação", ma duraturo oltre la vita, non poteva non toccare l’immaginario popolare, arricchito anche da elementi gotici, e diventare tema cantato dai poeti.

In ordine cronologico, il primo a raccogliere "trovas" su "A morte de Inês de Castro" è Garcia de Resende ne suo Cancioneiro Geral nel 1516, che mise insieme la tradizione poetica lusitana del Medioevo e del primo Rinascimento.

Successivamente, nel 1558, fu Antonio Ferreira, primo grande poeta rinascimentale portoghese, formatosi alla cultura italiana, il quale scrisse la tragedia Castro, seguendo lo schema ereditato dal mondo classico: cinque atti in endecasillabi sciolti. Per oltre cinquemila versi, con intermezzi lirici e corali, conferendo varietà e movimento all’azione (F. Piccolo), cantò la Tragedia muy sentida e elegante de Dona Inês de Castro. I personaggi, anche se stilizzati, secondo i modelli antichi, hanno caratteri propri e intensa profondità psicologica.

Di poco più che un decennio dopo, sono le 18 stanze che Camões le dedicò nel III libro de Os Lusiados, il poeta epico, seguace dell’Ariosto e degno epigono del nostro Tasso, nel narrare le gesta degli eroi discendenti da "Luso", mitico capostipite dei lusitani, nel passaggio del regno da Alfonso IV a Pietro I, incastonò, tra le gesta degli eroi, la sventurata storia degli amori di don Pedro e Inês, sacrificata alla ragion di stato. Tra tanta solennità epica, stanze in ottave endecasillabi ABABABCC, non mancano gli alti accenti lirici, degni di colui che continua ad essere ritenuto il più grande poeta portoghese. Così sottolinea la morte dell’eroina: "Come la margherita che tagliata/innanzi tempo fu, candida e bella,/ da rozza mano colta e collocata/ sull’ara della rustica cappella,/ perse il candor, s’affloscia accartocciata;/ giace così la pallida donzella:/ non ha più rose l’incarnato, privo/ del soave biancor del volto vivo" ( I Lusiadi, a cura di R. Averini, Mursia, l972, p. 104).

In pieno "Siglo de oro" del teatro spagnolo, Luis Vélez de Guevara, nel 1652, scrisse Réinar después de morir. La tragedia trovò i suoi momenti migliori e forti nelle aggiunte personali dell’autore, nella scena che si può definire l’apoteosi di Inês, ossia dell’incoronazione della regina morta e nell’atto di vassallaggio dei sudditi, cioè nel momento di baciarle la mano. Scena macabra che rispecchia lo spirito della Controriforma spagnola, ormai consolidata, che evidenzia una sensibilità tipicamente nazionale, in contrapposizione alla lezione rinascimentale e al razionalismo aristotelico: un prolungamento del Medioevo secondo G. Mancini.

Proprio a quest’opera, dopo tre secoli, in epoca relativamente recente, nel 1942, si è ispirato Henri de Montherlant. Originariamente doveva essere una traduzione di Réinar después de morir per la Comédie-Française. Ma il grande scrittore non si è accontentato di una semplice trasposizione da una lingua ad un’altra e ha ricreato ex novo alcune azioni e personaggi. "Chaque personnage et chaque situation de Guevara, qui étaient pour moi des choses mortes, vinrent se coller sur ma vie privée et s’en nourrir. Déjà je pouvais les appeler mes créations. Dans le silence de la nuit, je sentais affluer en elles le sang qui sortait de moi-même... chacune de ces créatures devenait tour à tour le porte-parole d’un de mes moi (Gallimard, 1971, p. 160).

L’autore di Port Royal, in uno stile asciutto e spesso sentenzioso tanto da far pensare agli aforismi o ai Pensieri di Pascal, rese più moderni l’amore dei giovani amanti, e più problematici i rapporti tra padre e figlio e la "ragion di stato", durante uno dei momenti più funesti del nostro secolo, diventò une perfidia machiavellica in cui è difficile conciliare "l’impossible position de la raison et de la justice!" (p. 62). Il vecchio re, prigioniero della volontà dei servi, cedette all’adulazione di questi, pur sapendo che " La houle finit par abattre les murs qu’elle a trop léchés" (p. 72), essendo "le respect (...) un sentiment horrible" (p.73), perché "celui qui a autour de lui beaucoup de serviteurs a autour de lui beaucoup de diables" (p. 77). E nel suo ritrovato cinismo, dopo qualche momento di simpatia nei confronti di Inês, poteva affermare: "il me plaît qu’il y ait un peu de boue chez le êtres. Elle cimente" (p. 73).

Nell’opera di Montherlant la tragedia si consuma tutta alla fine. Subito dopo l’uccisione di Inês il vecchio re muore e don Pedro, non torna dalla guerra ma, arriva troppo tardi per non fare succedere l’imponderabile, dalla prigione dove il padre lo aveva fatto rinchiudere. E subito la regina viene incoronata su una barella.

Altri autori, che si sono interessati all’argomento e di cui non ci è stato possibile momentaneamente consultare i testi, sono: Antonio da Silva, Juan Mato Fragoso, Mexia de la Cerda, Juan Suarez de Alarcon e il francese Houdar de la Motte che faceva parte dei "tragicules" del primo Settecento, colui che ha riaperto nel 1713 "la querelle des anciens et des modernes.