JORGE LUIS BORGES

CICLICITA ED ETEROGENESI: LA FILOSOFIA DELL'INFINITO NEL CONCETTO DI TEMPO

di SALVATORE VASTA

(“Il Faro”, n° 7/8, luglio/dicembre 1997)

 

 

Borges (1899-1986) in una delle pagine de l'Artefice (1960), dal titolo "Borges e Io", confessa letterariamente di avere un alter ego che ne condivide le preferenze, asciugandolo di ogni pensiero, per farlo vivere in virtù di una cessione continua di se stesso (Io) all'altro (Borges). Esperienza, questa, letterariamente esaltante e non limitativa alle qualità potenziali della creazione estetica. Salvo a far ricadere il lettore nel dubbio lacerante che sia inevitabile anche la dissipazione dell'intimità stessa dell'Io e dei suoi sillogismi, prefigurando l'oblio del vero pensare dell'Io in Borges: il destino di perdersi definitivamente, tranne per qualche "istante", è consacrato dalla stessa vis letteraria dello scrittore argentino e sottolineato dagli inutili tentativi che l'Io pone in essere per sfuggire al suo destino giocando con la mitologia dei sobborghi di Buenos Aires, con il tempo e con l'infinito.

Come dire: la vita di Borges pensante vive in funzione e per conto dello Borges scrittore: la vita del primo è un continuo perdersi volontariamente nel secondo e l'unica opzione data all'Io (o che l'Io si dà) oscilla tra la fuga da Borges o l'oblio in Borges. Al di fuori o nella relazione è la cifra della perdita a plasmare l'essenza della relazione stessa: perdita in Borges o perdita in una fuga che conduce all'oblio.

Che l'esemplificazione borgesiana investa il rapporto tra lo scrittore e la sua scrittura è chiaro; ma la compromissione che Borges offre è progettata esteticamente anche per il lettore, al quale è consigliato di non innescare la reazione, scongiurando che l'Io possa un giorno ritornare dall'oblio. Operazione difficilissima da compiere, ma non impossibile, tenuto conto che tra le infinite possibilità di riscrittura dell'opera borgesiana, largamente già previste dallo stesso Borges, ve ne possa essere una che (ipoteticamente) coincida con la perdita originaria di un "qualcosa" dell'Io e di cui quel Borges si sia appropriato velocemente, perché già “1'accadere” di "queste cose" costituiva un possibile residuo utile all'Io per affrancarsi da Borges. È possibile dunque, che ci siano frammenti la cui perdita non sia effettivamente tale, ma siano preziosi indizi che documentino cosa realmente accade nel progetto letterario di Borges al di là della sua complessa intenzione estetica.

Borges sconfessò sempre di possedere un'estetica e, segnatamente, una sociologia della letteratura congiunta ad una complessa elaborazione stilistica. Ma la sua negazione, logicamente, era autoreferenziale poiché volutamente data al lettore nella introduzione a Elogio de la sombra. Anche quella era dunque una pagina di estetica letteraria. Ma è ugualmente necessario sottolineare (con forza) come in Borges sia difficilissimo anatomizzare lo scritto. Concorre a tale difficoltà, prima tra tutte, il fatto che tutto ciò che costituisce la letteratura di Borges è già in qualche modo letteratura: la distillazione concettuale, l'uso rituale della parola, l'approssimazione velata in luogo del non detto e, non da ultimo, le radici profondissime e ramificate del suo simbolismo, sono gli elementi più evidenti. (Si veda ad esempio per la rosa: essa scaturisce da un fitto correlato iconologico- letterario - un vero e proprio excursus - che Borges fa attraversando generazioni di scrittori, scritti e secoli, fino ad arrivare alla iconologia, e al suo cominciamento cinquecentesco che è Cesare Ripa).

Il nucleo letterario, il minimo originario, è certamente in Parole essenziali, non nel complesso della scrittura: "Suppongo che le parole essenziali / che mi esprimono stanno in quelle pagine / che mi ignorano, non in ciò che ho scritto", verseggiò Borges ne La rosa profonda.

E a volerle ricercare il lettore troverebbe che tra tutte il "Tempo" è quella che è chiamata a sostenere l'intravatura portante della filosofia borgesiana. L'accadere, dunque: la successione degli istanti, la rivelazione, il divenire, la ciclicità.

Nella certezza che la pagina de l'Artefice, richiamata all'inizio, sia stata scritta da Borges, tutto - o quasi - a causa di una sua presunta (forse ricercata?) latitanza, diventa per ciò ermeneuticamente fruibile in fotogrammi evocanti suggestioni capricciose e minimali, ma insieme bellissime e vaporose: Mi piacciono gli orologi a sabbia, le mappe, le stampe del secolo XVIII, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l'altro condivide queste preferenze, ma in un modo vanitoso che le muta negli attributi di un attore. Espressione, parola, espressione della parola: la recitazione della letteratura in funzione segnica, cifrata, non direttamente trasmissibile; da qui l'impalpabilità esistenziale dell'ultimo Borges e l'insorgere del rapporto di spessore tra metafora e immaginazione.

Ma dai minimalia è aperto il varco che conduce all'Io, a quei " giochi col tempo e con l'infinito ", all'epigrafe di Alfonso Reyes di Discusión e ai saggi filosofici in esso contenuti (Metempsicosi della tartaruga e La perpetua corsa di Achille e la tartaruga). L’Io di Borges ha così "giocato" con il tempo in Ariosto y los Arabes, in El Otro tigre, in El Reloj de arena, tanto per citarne alcuni; e non da ultimo nel sognante l'Altro, primo intervento di quella raccolta di "favole" che è Il libro di sabbia.

È come se l'Io assolvesse alla funzione di scomporre e filtrare attraverso una griglia segnica e cifrata, il complesso mistero dell'esistenza, calamitandone le parti più oscure (e quindi più importanti), ma affidandone la traduzione descrittiva alla riscrittura.

Buenos Aires come il mondo: reticolo di labirinti; Borges come l'uomo: cecità e oblìo.

A tal punto è legittimo il sospetto che tutta la riflessione letteraria di Borges, attraverso il sapiente "gioco degli specchi", sia commensurabile al cominciamento filosofico dell'Essere delle scuole parmenidea ed eraclitea (dottrinalmente non necessariamente nell'ordine).

Come Platone, Borges avrebbe contratto nei loro riguardi un debito, mai indossando le vesti del parricida. (Con il proprio padre carnale Borges ne contrasse, invece, uno più grande: è lui che lo iniziò a la preocupación filosófica: "è stata mia fin da bambino, quando mio padre mi rivelò (sic!) con l'aiuto di una scacchiera [ ... ] la corsa di Achille e la tartaruga").

Contro Platone, Borges non affidò all'istante una presunta immobilità smembrata del tempo, stigma di eternità, ma il presente e la sua compulsione, espungendone implicazioni trascendentali, ma non “visionarie”. Rifiutò una "fine dei tempi" apocalittica: Swedenborg gli sembrò ripetere ciò che in fondo i molti ripetevano sin dalla classicità e, intanto, fu rigorosamente tangente alla religione positiva e secolare perché ammorbata da uno scoperto finalismo. Soleva ripetere: non c'è inferno o paradiso, ma il "nostro solitario cielo o inferno"; forse per questo alle visioni di Swedenborg preferii il visionarismo etico di William Blake.

Contiguamente a Platone Borges fu invece interessato a definire le “forme” del tempo, le sue rivelazioni, non l'aspetto categoriale (cfr. ad es. nelle poesie "Matteo, XXV, 30" e in "Il Tango" le implicazioni musicali del tempo). Perciò i riferimenti alla filosofia greca gli risultarono non logicamente costrittivi, ma più facilmente fruibili sotto il profilo di archetipi letterari.

Cosciente della polarità dialettica che investe le due diverse logiche, è nel campo letterario che Borges abilmente fluidifica la problematica del noetico/dianoetico, assoggettando il tempo al quarto elemento. Tutto nel temporale è metafora dell'acqua, della sua funzione ciclica e catartica, della sua spazialità fluida in movimento (E il tempo che ci ferisce e fugge / Non è, acqua, che una fra altre tue metafore).

Il tempo è per Borges la metafora dell'acqua di maggior finezza concettuale e di più esteso valore semantico. Lontano dall'essere "misura", il tempo rappresenta l'equidistanza possibile da tutte le cose e gli eventi: se di una qualche realtà temporale è possibile parlare, lo si può solo nel presente, che continuamente incarna tutto il tempo, in perenne ciclicità.

Eidós tuttavia non stabile, ma plastico, il tempo si presenta come accumulo energetico di eventi, ai quali è permesso vivere simultaneamente, accomunati dall'essenza del loro accadere. Così ne La Trama il gaucho muore con le stesse modalità di Giulio Cesare. Anche lui riconosce tra gli assassini suo figlio. Viene ucciso, ma "non sa che muore affinché si ripeta una scena". Non è il semplice atto a ripetersi, ma quell'originaria porzione di tempo che prima tra tutte contenne il fatto, sovraccarica dei molteplici significati, storici e non, ad essere rappresentata.

Insorge pertanto il rifiuto della tradizionale partizione tra passato presente e futuro, ed il tempo, piuttosto che contenere gli eventi, è da loro condizionato. Si presenta, filosoficamente e matematicamente, come vero e proprio infinito potenziale, come accumulo di possibilità semantiche simultanee.

Così tra gli eventi, come per i libri della nota Biblioteca, c'è contiguità, non storica tout court, ma - diciamo - semeiotica. Come le parole, essi hanno limite nel contorno nebuloso dell'accadere, senza che in esso possano risolversi compiutamente.

Nella ricerca e ricostruzione delle relazioni del tempo, l'acqua, elemento primordiale, le racchiude tutte e le permea; le può (anzi, le deve) travolgere con l'intento di nascondere l'Atlantide, quel “labirinto divino di effetti e cause”, che è l'essenza del tempo storico.

Crediamo di scorgere, brillante, uno di quei frammenti (rare volte in tutta l'opera di Borges se ne trovano di ugualmente cristallini), in una lirica di El Otro, el Mismo (1964). Caedmon, primo poeta sassone di spirito cristiano, riunisce “le rituali metafore” della sua gente e per tanto vive in un incessante presente/ nel punto estremo e all'apice vertiginoso del tempo. Appunto, riunisce, sintetizza il tutto; si colloca come istante utile nella dimensione meta-temporale della somma del tempo. E perciò stesso diviene "ciclico" anch'egli: in quanto tale gli si dà possibilità infinita di un eterno ritorno.

Borges costruisce un apparato che ci piace definire "eterogenetico" della storia, non conforme ad alcun modello filosofico già noto. Non è il ciclo né l'identico a ritornare, ma l'altro che è lo stesso a presenziare al riproporsi dell'essenza del fatto medesimo.

I motivi effettivi di tale storicismo sembrano però risiedere non solo nel sito della filosofia e della logica antica, anche se da lì se ne fruisce per la prima volta l'archetipo.

Il filosofico Borges va molto al di là. È proprio dall'analisi del paradosso che l'origine di questo singolare storicismo della ciclicità prende forma. È il regressus in infinitum, l'infinitesimalità, ad attrarre letterariamente Borges alle considerazioni, non accidentali, che esso possa estendersi dalla logica filosofica, all'estetica, alla gnoseologia, alla storia, alla letteratura. Che cioè tutto - il Tutto - possa funzionare come coordinazione, e che la Storia, la Letteratura, l'Arte abbiano bisogno di irrealtà visibili per confermare la loro essenza meta-storica, inseparabile da quella della successione. Il tempo, quello dell'orologio, è più facile ad essere confutato dai sensi, che non quello percepito intellettualmente come Forma. Da quest'ultima considerazione non può essere infatti espunta quella infinita connessione di istanti, sempre ulteriormente divisibile ed accrescibile.

E per questa pesantezza che Borges abbandona l'archetipo filosofico, e lo trasferisce sul piano letterario, alleggerendolo. Il nuovo paradigma fatto proprio da Borges, pronto già dalla sua Storia dell'eternità  (1936). Muove da scene e parole: la pura rappresentazione, di fatti omogenei che si ha nella visione di una certa realtà, non è semplicemente identica nella sensazione a quella di un tempo precedente, ma, senza somiglianza o ripetizione, è la stessa. È  l’identità del ciclo, non il ritorno, della stessa essenza storica a poter definire con un'altra parola, la stessa situazione.

Realisticamente cosciente della impossibile interruzione del tempo, "tempus interruptus", Borges progetta il suo arresto simbolico, almeno in un punto, attraverso la ricerca dell'istante accidentale, a-razionale, e gli permette sul duplice fronte dell'estetica dei contenuti di rendere suggestivi i suoi apologhi letterari.

Su questo terreno può essere misurato il complesso significato ricorrente nell'opera borgesiana della "moneta gettata nel fiume", e sviluppa ulteriori ramificati correlati (che qui non è il caso di discutere), fino ad esemplare il tutto nell'icona del sogno. È il sogno visibile, l'incarnazione della vera realtà temporale, che non è possibile vedere.

Procurarsi un istante a-razionale, accidentale, da gettare nel labirinto del tempo, è possibile soltanto attraverso questa metafora.

Rileggendo le pagine del breve racconto, L'altro, contenuto ne Il libro di sabbia (1975), è possibile rendersi conto del sottile gioco di Borges. A distanza di quindici anni riprende il discorso di Borges e Io e virtualmente lo completa. Colloca una panchina davanti al fiume Charles, che inevitabilmente lo conduce a pensare al tempo, e sulle note de La tapera di Elias Regules il Borges anziano (il Borges di Borges ed lo) incontra il Borges giovanissimo (l'Io), quello a cui ha sottratto i giuochi "col tempo e con l'infinito" e si “fa sognare” da lui.

Borges sancisce, anche attraverso la sua scrittura, che alla vita di ognuno è commensurabile la somma del tempo e dei suoi vertiginosi istanti: due vite speculari che sono come "due serie incessanti, parallele, forse infinite" (cfr. con i saggi contenuti in Discusión). Il passaggio attraverso le due serie - come già riferito - è tutto estetico, ma riteniamo di possedere elementi sufficienti per riscontrare in Borges la fascinazione logico­matematica che il concetto di infinito e delle progressioni geometriche ed aritmetiche di un Russell, Cantor o Frege, esercitarono su di lui.

In fondo gli orologi a sabbia, le mappe, le stampe del secolo XVIII, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson non sarebbero altro che indetraibili fascinazioni. Lì non si può non leggere dopo Borges (e lui insisterebbe da sempre, perché l'aveva letto lui e a sua volta il suo scrittore) - ma con la stessa leggerezza del giovane Borges – “Tempo” , "Ragione", “Icona”, "Vita", "Essenzialità".

Infine: se la ragione riuscirà un giorno a "sognare un mappa" di quel labirinto? La risposta è mai. Almeno definitivamente.