Stéphane Mallarmé: la nascita della modernità

di Pinella Puglisi

(“Il Faro”, n° 11/12, luglio/dicembre 1998)

 

Quest’anno è stato celebrato il centenario della morte di Stéphane Mallarmé , poeta francese scomparso il 29 settembre del 1898. La Francia ha ricordato questo evento con una serie di manifestazioni: una grande esposizione al museo d’Orsay, una nuova edizione delle sue Oeuvres nella Pléiade, una importante biografia di Jean-Luc Steinmetz.

Nonostante siano trascorsi cento anni, “l’attualità” di Mallarmé è più viva che mai alla fine di un secolo che egli non ha cessato di inquietare.

La tentazione dell’assoluto l’aveva spinto a scavare la poesia attraverso il “vide”, rappresentato dal bianco della pagina e degli enigmi creati con un gioco di parole.

Mallarmé annunciatore della poetica moderna, modello da seguire o da respingere, resta dunque ancora oggi un mistero. La sua opera, infatti, attesta la presenza di una lirica moderna: persino una lettura superficiale delle Poésies è sufficiente per capire che vi è una disposizione di spirito diverso nei confronti della poesia. L’alternarsi di componimenti lunghi ad altri molto brevi ha un significato profondo: questo disquilibrio indica, nell’architettura del volume, l’emergenza di una nuova poetica. Allontanandosi dal Romanticismo, che tendeva all’accumulazione verbale, e dalla scuola del Parnaso, che esaltava le forme fisse e la fredda impassibilità, Mallarmé ricorre all’annullamento, al minimalismo, al silenzio. La sua poesia si svilupperà in profondità: non esprime più l’esteriorità, il mondo, la storia, il poeta stesso, ma l’interiorità di un lavoro dell’espressione al quale basta uno spazio ristretto di un universo di parole ridotte ai 14 versi del sonetto.

Bonnefoy ricorda: “Mallarmé est, de loin, le plus vaste espace de réflexion, de recherche, d’élaboration de l’idée de la poésie qu’il ait eu à son époque en Europe”. Con Mallarmé dunque qualcosa finisce e “autre chose” comincia. Il nostro poeta aveva affermato di aver “toujours rêvé et tenté autre chose”. Egli aveva concepito la realizzazione di una grande opera: un libro unico e premeditato e non una raccolta di ispirazione del caso.Il libro diventa l’oggetto introvabile di tutti i suoi sogni e l’obiettivo inaccessibile dei suoi sforzi.

L’esperienza poetica diviene, dunque, un cammino sacrale – explication orphique de la terre dont il aimerait montrer, avant de disparaître, un fragment d’exécuté – attraverso il quale potersi opporre al Néant del mondo e di lui stesso. In seguito alla crisi esistenziale del 1871 – attestata dalla lettera scritta a Cazalis dopo un anno spaventoso “Je suis maintenant impersonnel et non plus Stéphane que tu as connu, mais une aptitude qu’à l’univers spirituel à se voir et à se développer, à travers ce qui fut moi” – Mallarmé prende coscienza del Néant e approda al concetto di Beauté raggiungibile solo attraverso la Poesia. Egli fa della Beauté, anzi dello sforzo per raggiungerla, il soggetto stesso della sua opera. Scrive a Villiers: “En  un mot, le sujet de mon oeuvre est la Beauté, et le sujet apparent n’est qu’un prétexte pour aller vers Elle. C’est, je crois le mot de la Poésie (Correspondence complète, p. 279).

La scrittura diviene un rifugio, una difesa per opporsi al Nulla, una maniera per “accerchiare” formalmente un Néant primordiale e per portare il verso al limite estremo delle sue possibilità espressive.

La poesia è dunque un’esperienza di scrittura: scrivere è già in sé un atto autosufficiente, un’esperienza, appunto, di cui gli effetti diventano secondari di fronte all’attività che li precede e di cui essi non ne costituiscono che le tracce.

Per Mallarmé non è importante sperimentare, come per Baudelaire, la svariata virtualità della lingua, ma determinare  ciò che la scrittura può opporre al “nulla” delle cose. Ed è proprio nello sforzo per stabilire le fondamenta ontologiche del linguaggio che egli resta uno dei più preziosi predecessori della poesia moderna. Mallarmé, che constata la “nullità” della realtà, ha sperato che le parole potessero dargli delle certezze, ma anche queste sono limitate. Consapevole della inesistenza di una lingua suprema, tenta di raggiungere quell’ordine di Beauté e di armonia attraverso la ricerca di una parola poetica nuova “incantatoire”. Il linguaggio della letteratura deve essere essenziale, “Peindre non la chose mais l’effet qu’elle produit”. Il testo deve offrire al lettore degli oggetti poco definiti, sollecitando una percezione attiva. Il poeta francese comunicava a Huret: “nommer un objet c’est supprimer les trois quarts de la jouissance du poème (…); le suggérer, au contraire, c’est donner aux esprits cette joie délicieuse de croire qu’ils créent” (J. Huret: Enquête sur l’évolution littéraire). Poiché la poesia è diluizione dell’essere, dispersione del senso, bisogna evitare ogni riferimento diretto al mondo e al contrario è indispensabile produrre un effetto di imprecisione e di “non fini”.

È dunque inevitabile considerare Mallarmé poeta dell’oscurità: i versi, gli spazi bianchi, la sintassi elevata creano un alone di mistero. Poeta difficile, egli ha mantenuto di proposito i suoi scritti sulla soglia del mistero. Per Mallarmé la poesia deve essere una rottura delle nostre abitudini poetiche. Egli richiede al lettore un particolare sforzo di comprensione: i suoi temi, i suoi versi incarnano l’idea del movimento. Il lettore deve prepararsi dinamicamente per ricevere una rivelazione attiva e per ottenere una nuova esperienza, quella della mobilità immaginaria.

Dunque Mallarmé ha privato la scrittura della sua trasparenza, permettendole di manifestarsi nei suoi eccessi , nelle sue forme più “folli”. “Depuis Mallarmé, nous, Français, n’avons rien inventé, nous repétons Mallarmé” sottolineava Barthes in Le grain de la voix. Infatti si deve a lui se la modernità poetica, da Ponge a Denis Roche, ha appreso ciò che vuol dire scrivere e impegnarsi per raggiungere ciò che Mallarmé definiva “jeu insensé d’écrire”.