Angelo Manitta

DONNE IN PUNTA DI PIEDI

con prefazione di Gisella Padovani 

 

CIRCOLO SOCIO-CULTURALE

"IL FARO"-RIPOSTO

Copyright 1995

Diritti riservati all'Autore

 

 


 Non è l'inferiorità delle donne che ha determinato la

loro insignificanza storica: è la loro insignificanza

storica che le ha condannate all'inferiorità...

 

(Simone de Beauvoir)


PREFAZIONE

La teoria delle figure femminili celebrate dalle liriche di Angelo Manitta si sgrana lungo un filo ideale che dalle plaghe fascinose di un passato storico perduto in lontananze ancestrali conduce ad una dimensione di concreta e bruciante attualità.

Coniata su modelli letterari antichi e recenti o evocata sotto la diretta suggestione della cronaca contemporanea, deputata a rappresentare le ragioni immediate del cuore o voluttuosamente impegnata nell'avventura dei sensi, la donna è, comunque, protagonista assoluta di questo pregevole canzoniere che la esalta e la sublima in contesti situazionali e ambientali di forte rimbalzo drammatico.

La dislocazione cronologica e topografica di tali contesti è estremamente varia: dalla Lesbo del VI sec. a. C. , dove Saffo circondata da un tiaso di fanciulle prodigava le delizie del canto e dell'amore, si trascorre al leggendario Egitto di Cleopatra e ai mitici scenari dell'Arabia di Khadigia, sposa di Maometto; dai brumosi paesaggi nordici sul cui sfondo campeggia un'umile figura riesumata dalle tenebre dell'alto medioevo, quella della contadina Ermentrude, si passa alla Francia di Giovanna d'Arco, emblema di una femminilità eroica e combattiva, alla Roma di una nefasta femme fatale rinascimentale, Lucrezia Borgia, alla Parigi di Madame Curie.

Artista ispirata o serena incantatrice, vergine virago o angelo del focolare, studiosa appassionata o vedette del palcoscenico, la donna vagheggiata nei versi di Manitta è in ogni caso nobilitata dalla sacralità di un ruolo che la isola su un piano di assolutezza emblematica, consentendole di sottrarsi alla "insignificanza storica" denunciata, a incipit del volume, nell'epigrafe siglata da una scrittrice coraggiosamente impegnata sul fronte delle battaglie femministe, Simone de Beauvoir.

E può anche accadere che l'unica possibilità di sfuggire alle aggressioni del mondo esterno e al devastante fluire del tempo sia offerta dalla morte, che per alcune delle eroine che avanzano "in punta di piedi", in eterea e armoniosa successione, sulle pagine di Angelo Manitta, si configura come strumento privilegiato con cui approdare all'individuazione di una prospettiva liberatoria.

Esemplari a questo proposito sono i casi della fanciulla Anna Frank, travolta dagli orrori della guerra e dell'odio razziale, e della diva Marilyn Monroe, distrutta dalla sua artificialità di star symbol che cessa di esistere nel momento in cui scopre la dimensione reale della vita e la verità dei sentimenti ("il gesto/ inconsueto riduce in nulla/ o in frammenti un'intera esistenza,/ benché il chiaro whisky e gli allucinogeni/ potenzino le qualità. Ma non servono/ le lacrime finte quando la scena/ s'è conclusa ed è calato il sipario").

Una complessa trama di allusioni e di rimandi extratestuali decifrabili in relazione al codice mitico-archetipico che dà una proiezione quasi ctonia all'immagine muliebre, si sprigiona nella terzultima lirica dal personaggio Antígona Pérez, ricalcato su uno specimen letterario di ascendenza classica, l'eroina sofoclea "attualizzata" dallo scrittore portoricano Luis Rafael Sánchez. Le linee tensive del ductus retorico, alto e roboante, si sciolgono qui nelle volute ad arco di aeree costruzioni metriche e fonoprosodiche, sibilate in vasti movimenti circolari: "Cerco/ un fratello che dorme, forse,/ o esala l'ultimo respiro/ o, morto, giace insepolto/ su sabbiose scogliere, dove gabbiani/ voraci affossano gli artigli/ e l'onda del mare ricopre/ i sandali slacciati".

Ad epilogo della silloge, subentrano due figure saldamente incardinate nella realtà dei nostri giorni: Madre Teresa di Calcutta e una delle tante madri che nell'inferno di Sarajevo vivono quotidianamente un dramma al quale il Manitta partecipa con profonda solidarietà umana, descrivendone i dettagli emotivamente più coinvolgenti e lanciando un messaggio cosmico di pietà e di compianto per il malum mundi: "E' un acerbo tormento il figlio/ appeso alla ringhiera, sudicia/ di smog, per la rivoluzione combattuta/ contro luridi fantasmi zoppicanti./ E' un crudele addio palpare/ le mani penzolanti per seppellirle/ nell'alcova e sapere che il grano/ dopo giorni di marciume germoglia/ quasi Cristo risorto".

Nucleo e motore di questi componimenti poetici è dunque la donna nelle sue molteplici articolazioni tipologiche, offerte al lettore con sfumature e modulazioni che si arricchiscono via via di senso, si caricano di implicazioni ideologiche e culturali, scandendo il tragitto creativo dell'artista orientato verso una meditata definizione delle istanze salvifiche che nel fantasma femminile si concentrano e dirompono.

Temi orditi sul palinsesto della memoria letteraria e motivi attinti all'esperienza vissuta si amalgamano nei versi di Donne in punta di piedi, che convogliano gusto archeologico del passato e interesse appassionato per figure e oggetti umani immersi nel flusso magmatico del presente.

La raccolta, governata da una struttura compositiva rigorosamente metrica, include dodici componimenti, ognuno dei quali consta di dieci quartine (ad eccezione del primo, che ne contiene quindici).

Fedele al proposito di chiarezza, leggibilità, "capacità di incidere", teorizzato nelle Riflessioni sulla poesia in appendice ai testi, l'autore nelle sue liriche forgia un dettato limpido, raffinato, di classica compostezza, che pur inclinando alla narratività si attesta costantemente su un registro stilistico alto e tocca la levità del poème en prose di marca francese.

Evitando contorsionismi sintattici e imprevedibili metamorfosi semantiche, il Manitta punta con decisione sul discorso "in chiaro", e adegua la "parola" e le sue combinazioni all'essenza dinamica della realtà, in aperta opposizione alle abdicazioni nichilistiche e alle sterili declinazioni narcisistiche che dilagano in molte zone della poesia italiana contemporanea.

 

Gisella Padovani

Università di Catania


 

RIFLESSIONI SULLA POESIA

"L'espressionismo era arte, l'ultima arte dell'Europa, il suo ultimo raggio... L'arte comincia con Eschilo, poi duemila anni sono stati dedicati ad essa, ora è di nuovo finita." Queste parole scritte da Gottfried Benn nel 1933 ci sembrano attualissime, specialmente se le riferiamo alla poesia italiana contemporanea. La nostra poesia, infatti, vive uno stato di crisi e di decadenza. Eppure mai come oggi ci sono stati in Italia tanti poeti. Ma si assiste davvero alla fine di quest'arte? No. La poesia si sta evolvendo. Il prossimo secolo vedrà sicuramente poeti che nulla hanno da invidiare ai grandi del passato e sapranno esprimere il travagliatissimo mondo, che stiamo vivendo, nella sua complessità.

E' mia profonda convinzione che per creare un'arte completamente nuova (che stenterà ad affermarsi, ma sulla quale comunque si deve insistere) bisogna rileggere le vicende del nostro tempo (o personali) con gli occhi e con la mente degli scrittori classici. Ciò non significa assolutamente imitare la loro arte o il loro mondo, ma soltanto porsi con profondo senso di equilibrio di fronte al reale. A volte noi "poeti" raccontiamo le nostre esperienze o descriviamo quanto sta sotto i nostri occhi, rischiando di cadere nel solipsismo o nel panismo. La poesia è espressione universale dell'animo umano e come tale deve saper percepire e interpretare gli aspetti più vari: sentimenti, descrizioni, simboli, aspirazioni, sia in forma soggettiva che oggettiva. Eppure siamo in molti ancora ad illuderci di voler raggiungere una "poesia pura", quando invece bisogna fare scendere la Poesia dal Parnaso, in cui i poeti l'hanno relegata allontanandola dagli uomini, rendendola quasi una dea irraggiungibile e precludendole comprensione e nello stesso tempo capacità di incidere. Qualunque arte (pittura, architettura, musica, letteratura, scultura) ha una sua funzione: rasserenare l'animo, promulgare un messaggio, costruire l'uomo del dopo. Ma l'arte deve rispecchiare anche impegno civile, sociale, religioso o politico. Guai, però, fare dell'impegno il solo fine.

Orazio afferma che poeti si nasce, ma aggiunge che la poesia va accompagnata all'arte (cioè a ciò che non è banale): versificazione, ritmo, labor limae. Spesso, però, nelle nostre poesie il verso è scomposto, le parole sono in libertà, la rima o l'assonanza appaiono raramente, lo stile è sciatto, il contenuto labile.

Fermiamoci un attimo sul verso. La poesia classica (greca o latina) lo basava sulla quantità (lunga o breve) delle sillabe e sul numero dei piedi (trocheo, dattilo, anapesto...). La poesia romanza invece lo ha costruito sull'accento e sul numero delle sillabe (endecasillabo, settenario...). La protesta-rinnovamento del verso libero della poesia novecentesca è quanto mai singolare, ma spesso è ridotta ad un banale andare a capo per lo più arbitrario.

La critica moderna parla di parole-chiave. A mio avviso bisogna impostare il verso non più su un numero prestabilito di sillabe né sul verso libero, ma sulle parole-chiave: due, tre, quattro parole-chiave per ogni verso che danno origine a due, tre, quattro accenti base e quindi ad una cadenza ritmica che, benché su basi completamente diverse, potrebbe vagamente dare l'impressione d'un settenario, d'un endecasillabo, d'un dodecasillabo.

Per parola-chiave intendo un significante pregno di significato, con predilezione per sostantivi, aggettivi qualificativi e verbi, raramente invece (e solo in particolari situazioni) per altre parti del discorso. Il verso risulta così composto da un più o meno riuscito equilibrio fra i vari piedi: peone (primo, secondo, terzo, quarto), dattilo, anapesto, trocheo, giambo e anfibraco. Facciamo un esempio:

Il tempo | non ritorna e il | giocatore

si lascia im|paniare | dal vischio

flessuoso e | prigioniero | schiva

o cerca | la libertà | o la morte.

Parole-chiave: 1) tempo, ritorna, giocatore; 2) lascia, impaniare, vischio; 3) flessuoso, prigioniero, schiva; 4) cerca, libertà, morte. Riguardo ai piedi: 1) anfibraco, peone 3°, peone 3°; 2) anfibraco, anfibraco, anfibraco; 3) anfibraco, peone 3°, trocheo; 4) anfibraco, peone 4°, peone 3°. Eppure la precedente strofe sembra esulare completamente da una forma metrica ben definita.


 Angelo Manitta, nato a Castiglione di Sicilia il 3 febbraio 1955, ha frequentato il Liceo Classico 'Gulli e Pennisi' di Acireale e si è laureato in Lettere presso l'Università di Catania con una tesi su Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Docente di Lettere nella Scuola Media, già corrispondente della Gazzetta del Sud (Messina), della Voce dell'Ionio (Acireale) e di altri periodici minori, ha partecipato negli ultimi anni a numerosi concorsi letterari, raggiungendo vari riconoscimenti. Tra le pubblicazioni si ricordano la silloge di poesie Fragmenta Editori E.A.M. 1980, il volume di storia locale Verzella e le sue contrade I.T.M. 1991, Lettera ad Orazio Venilia Editrice (PD) 1994, Premessa a Mondo di Ragazzi, Naxos Editrice(ME) 1995. Diversi componimenti poetici sono comparsi su La Nuova Tribuna Letteraria Montemerlo (PD), su Noi dell'Alcantara e in varie sillogi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie La ragazza di Mizpa.