MITO E REALTA NELLA POESIA DI DINO CAMPANA

di Angela Pennisi

( “Il Faro”, n° 5/6, gennaio/giugno 1997)

 

 

“Non invecchio mai perché la suggestione può anche ringiova­nire cento, duecento, tremila anni di vita, qua­lunque età. Sono stato tre anni senza vita in una forma di tortura e di sofferenza. Con la suggestione posso ringiovanire molti anni, posso vivere a volontà". Queste parole, dette da Dino Campana al medico che lo aveva in cura nell'ospedale psichiatrico di Castel Pul­ci nel 1926, certo in uno di quei momenti di lucidità, che, come intermezzi di vita, veni­vano ad illuminare la "notte oscura" della sua follia, costituiscono per il lettore della poesia campaniana una chiave di interpretazione e, possiamo dire, anche un messaggio di fede, dell'unica fede che il poeta di Marradi ebbe viva nella sua breve e tormentata esistenza. Basti leggere i seguenti versi per averne una riprova: “... Per l'anior dei poeti, porte / Aper­te della morte / Su l'infinito! / Per l'amor dei poeti / Principessa il  mio sogno vanito/ Nei gorghi della Sorte!" (La Speranza). Versi in cui, con parole già usate ne La Notte, viene riconosciuta al poeta una funzione mistica, quasi che egli, sacerdote dell'arte, (come aveva teorizzato Mallarmé) possa, come l'Orfeo greco, penetrare nel mistero buio della morte e dell'infinito, e capire, col suo canto evocatore, l'essenza stessa della vita. E CANTI ORFICI è il titolo che egli da ai suoi componimenti quasi ad avvertire il lettore del significato che attribuiva alla sua attività poetica e a predisporlo ad una lettura che non è certo facile e richiede una particolare disposizione dello spirito. Che il nostro autore avesse piena coscienza di ciò ne è prova il fatto che, quando egli vendeva personalmente il suo libro per il caffè di Firenze "si regolava secondo i compratori: la firma autografa a chi gli faceva buona impressione, alcune pagine in meno a chi gli era poco gradito, e agli antipatici, poi solo la copertina" (Salinari Ricci). Questo particolare che può essere interpretato come una delle tante stranezze dei suo comportamento, può anche essere inteso come il gesto di chi, poco fiducioso nella bontà e nell'intelligenza dei più, affida il suo messaggio ai pochi, secondo lui, capaci di leggere dentro al guazzabuglio delle sue parole sapientemente orchestrate e di intenderne il senso profondo. Se certamente orgoglio ed eccessivo senso di sé sono presenti in questo testo, è ancora vero che, quando egli parla della funzione orfica del poeta, non si riferisce mai solo alla sua arte, ma alla poesia in genere e ai poeti tutti. "Per amor dei poeti". Così inizia La Speranza. E ancora un Passo del poema Genova ci soccorre a conferma di questa fede salda nella vocazione mistica del poeta e nella funzione consolatrice della poesia: " ... E udii canto udii voce dei poeti / Ne le fonti e le sfingi sui frontoni / Benigne un pri­mo oblìo parvero ai proni / Umani ancor largire..." Dove il mito della poesia consolatrice degli animi afflitti (cosa del resto non nuova nel nostro panorama letterario: si pensi, tanto per fare un esempio al Pascoli, non soltanto cronologicamente vicino al Campana), appare il mito del passato, del remoto, del lontano, simboleggiato tra l'altro dalle "statue superbe" di alcuni versi precedenti e da “le sfingi sui frontoni", mito caro al poeta per quel senso di mistero che ciò che è relegato lontano nel tempo e anche nello spazio porta con sé. Già nel poema La Notte esordisce con una apertura spazio-temporale: "Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio delle colline verdi e molli sullo sfondo... e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio..."

Qui è già tutto Campana. I confini del tempo e dello spazio si annullano ad opera della memoria. "Quel ricordo" posto in posizione di rilievo mette sull'avviso il lettore: non di descrizioni realistiche di luoghi e di persone si tratta, come potrebbe sembrare di primo acchito, bensì di una trasposizione tempo­spaziale, di una trasfigurazione simbolica della realtà, dove i confini tra passato e presente sfumano in virtù di quella, per dirla col poeta, “suggestione", che gli consente di percepire, attraverso il silenzio profondo, le voci lontane, la "nenia primordiale", quel "mito lontano e selvaggio" quasi fosse stato in stato d'in­coscienza, addirittura "in trance", com'è stato detto. È la dimensione dell'inconscio dal quale il poeta coglie folgorazioni che, come lampi improvvisi, illuminano l'oscurità, il mistero in cui è avvolta la realtà. È in questi momenti che il poeta carpisce brandelli di verità, altrimenti incomprensibili e li fissa in un linguaggio in cui “l'insistenza ripetitiva si svolge come il dettato di chi sogna o è intorpidito dal sogno, ma interrotto da trasalimenti e cesure secche come il " ... e del tempo fu so­speso il corso", per dirla con le parole di Fortini.

L’insistenza su parole come: lontano, selvaggio, primordiale, sterminato, ecc., parole-chiave che torneranno di frequente nelle sue composizioni, ci confermano che di un mito si tratta: il mito della primitività, della barba­rie viste come elementi positivi di una realtà diversa da quella in cui vive e opera il poeta e ormai per sempre perdute. Così dirà più oltre sempre ne La Notte "... Ricordi di zingare, ricordi di amori lontani, ricordi di suoni e di luci... così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama scheletrico del mondo".

E questo mito sembra prendere consistenza nell'immagine della fanciulla “fine e bruna, pura negli occhi e nel viso", nel passo della Festa d'estate, ma si conclude con l'amara delusione di chi costata la verità del sogno di purezza che cozza contro la realtà corrotta: "... la seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo".

Ogni tentativo di recupero della genuini­tà e della purezza primordiale è destinato a sfumare come il sogno si dilegua dinanzi alla realtà del risveglio. Ma se questi sforzi verso l'irraggiungibile stato originale sono destinati a non avere esito positivo, rimane salda nel poeta la fede nella validità di tali tentativi, come è positiva la tensione da cui essi scaturiscono. Si legga a riprova di ciò: " ... Sorgenti sorgenti abbiamo da ascoltare / Sorgenti che sanno / Sorgenti che sanno che spiriti stanno / Che spiriti stanno ad ascoltare..." (Il canto delle tenebre), dove emerge quell'ansia di riscoprire le origini dell'umanità, quel che di selvaggio e quindi di puro vi era all'origine. "E allora figurazioni di un'antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi, di orge si crearono avanti al mio spirito. Rividi un'an­tica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro..." E con queste parole e con le successive immagini della "fanciulla selvaggia" della "Pampa sconfinata", dei "cavalli selvaggi", di quel paradiso puro, violento magari, ma autentico e irreparabilmente perduto si chiude la prima parte de La Notte.

Che sia un mito del tutto nuovo certo non può dirsi: esso si ritrova in tanta letteratura europea dell'Ottocento romantico, da quella tedesca a quella inglese e francese, meno in quella italiana dove compare alla fine del secolo, insieme a quel mito dell'oriente che pure si intravede nei versi citati e anche altrove nella produzione campaniana. Gli influssi letterari del resto riecheggiano nei versi del poeta di Marradi: il riferimento a Dante è chiaro in alcuni passi de La Notte; Foscolo è presente nel mito della sera consolatrice.

Basti leggere: "Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra..." (Il canto della tenebra), oppure in quello: "scalpitare di cavalli selvaggi" (sempre da La Notte) che ricorda il più famoso verso de I Sepolcri foscoliani. Per non parlare della poesia dell'infinito del tempo e dello spazio di cui si è detto il cui mistero avvinceva già Leopardi. E procedendo oltre, la critica campaniana ha rilevato influssi di Carducci e di D'Annunzio anche per quanto riguarda l'uso degli aggettivi e di certe tecniche compositive come la strofa lunga, tanto per fare un esempio. Come punti di contatto si possono riscontrare col contemporaneo Gozzano, specie per quanto riguarda il fascino dell'Oriente e soprattutto con i Futuristi cui lo accomunano quella forza vitalistica di ascendenza dannunziana ed anche nicciana e l'uso di "parole in libertà".

In questo contesto si spiega il senso del sottotitolo in tedesco dato all'opera che suona in italiano: La tragedia degli ultimi Germani in Italia e la dedica a Guglielmo II, imperatore dei Germani, dove germano è l'elemento barbaro, primordiale, simbolo di quella forza selvaggia, pura genuina cui Campana attribuisce valore ideale. Questi barbari puri stanno scomparendo e di questa estinzione il poeta sente la pena e la sofferenza che esprime nei suoi canti. È superfluo dire che a questi puri egli si sente vicino, anzi con loro vive in unione spirituale: " ... così puri come iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all'irreparabile" (Incontro di Regolo). Non è inopportuno, a questo punto, sottolineare la genesi psicologica e sociale di questo suo mito che lo ha portato a simpatizzare per l'impero germanico, a schierarsi con gli interventisti alla vigilia della guerra mondiale e ad offrirsi volontario per la grande prova. Purtroppo le sue condizioni fisiche non gli permisero di realizzare questo suo sogno e da ciò gliene derivò un senso di frustrazione che rese più cupo il suo carattere e forse accelerò il corso della sua demenza. Qualcuno parlò anche di pre-fascismo riferendosi agli atteggiamenti di cui si è parlato; ma se di una ideologia vera e propria non si può certo parlare a proposito di Campana in nessun senso, si può certo dire che sia la vita come la sua poesia sono lo specchio di quella crisi di valori che sta alla base della letteratura decadente, crisi che la classe intellettuale europea, quella italiana compresa, visse ed espresse in modi diversi e di cui Campana ebbe certo coscienza allineandosi, come qualcuno ha rilevato, alle voci più significative del nostro primo Novecento letterario da Svevo a Pirandello da Gozzano a Ungaretti. La condizione di conflittualità profonda in cui l'intellettuale borghese vive nei confronti di una realtà sociale per lui alienante, che lo ha emarginato e gli ha fatto perdere il senso del suo specifico ruolo, sta alla base sia della inquietudine dell'uomo Campana sempre errante da un luogo all'altro del mondo, sia del tono di amarezza che di quell'atteggiamento titanico di cui si alimenta la sua poesia. La società in cui il poeta vive gli appare sofisticata, corrotta, inautentica e contro di essa egli, come tanti altri intellettuali, non sa fare altro che opporre dei miti individualistici e irrazionali.

Basta soffermarci sul panorama poetico degli anni di Campana per vedere che i CANTI ORFICI vedono la luce da noi nel 1914, in un periodo cioè in cui vengono pubblicate tutte le cose più valide del nostro primo Novecento da I franunenti lirici di Rebora a Pianissimo di Sbarbaro, a Il porto sepolto di Ungaretti, tanto per citarne alcune, dove sono presenti come dice Fortini: "i conflitti di idee che percorrono e dividono la società borghese italiana" dell'anteguerra.

Ma se nessuna novità offrono al lettore i miti di Campana, nuova è la forza con cui il poeta li esprime e nuovo è l’uso che delle parole il poeta fa. Nuovo rispetto alla tradizione italiana perché, anche se Pascoli introduce nei suoi versi elementi e tecniche proprie della poesia decadente francese e tenta di rompere con le leggi della sintassi tradizionale, non è azzardato dire che Campana padroneggia queste tecniche a tal punto da conferir loro una impronta particolare sconosciuta alla poesia italiana. E se è vero che: "nelle parti di più debole controllo e di scrittura approssimativa, egli è legato al vitalismo spesso declamatorio delle avanguardie del primo decennio del secolo...". Come sostiene il Fortini, è anche vero che l'unità di fondo della sua opera e la capacità con cui egli riesce a evocare paesaggi, figure, ambienti e a ricreare suoni e colori col suo magistrale uso della parola, avvalorano la interpretazione di quanti hanno visto in lui, per usare ancora la parola di Fortini: "il primo e solo poeta che in lingua italiana (abbia) saputo affidare allo spessore della parola apparentemente incontrollata una zona psichica fino allora interdetta, di allucinazione e di rovina”  per cui "...  i suoi versi e passi più fulminanti hanno nutrito poeti diversissimi tra loro come M. Luzi, P.P.Pasolini e A. Zanzotto. Vere e proprie lacerazioni nella trama del processo letterario, i versi di Campana hanno posseduto direttamente, nel nostro paese, l'autorità che i grandi sovvertitori del simbolismo straniero avevano potuto esercitare solo indirettamente..."

Questo il grande merito di quel 1ucido pazzo che seppe misurare la sua distanza dai Futuristi, se nel 1928 durante la sua reclusione in manicomio e precisamente quattro anni prima della sua morte, ebbe a dire: “... lo non ero futurista. Il vero libero futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza colore e senza armonie. Io facevo un po' di arte".

Possono sconvolgere certo, ad una prima lettura, i versi del Campana caratterizzati come sono dall'elemento allucinatorio e simbolico, ma restano stimolanti.