Salvatore Quasimodo e “la terra impareggiabile"

 di Gisella Padovani  

(Il Faro, n° 21/24, gennaio/dicembre 2001)

 

 

Quanto, in affetti e ricordi, la Sicilia sia stata presente nel lungo arco dell’attività poetica di Quasimodo (circa un quarantennio) è stato attestato dalla successione, nelle varie raccolte liriche, di componimenti dedicati all’isola: da Vento a Tindari, che apparso nel 1930 nella silloge d’esordio, documenta già, nonostante la giovane età dell’autore, la prepotente conquista del suo vertice creativo; al capolavoro della maturità, Al padre; ai versi di Nell’isola, pensosa rievocazione di un passato ripercorso tra memoria individuale e memoria storica.

E quindi, da Acque e terre (1930), alla Terra imapareggiabile (1958) a Dare avere (1966) nella linea di un tormentato itinerario artistico, campeggia l’immagine della Sicilia, “terra impareggiabile” come suona il titolo della raccolta del ’58), luogo privilegiato della segreta topografia spirituale di Quasimodo.

Nell’immaginario dello scrittore transfuga, l’isola d’origine è assolutamente presente con la sua bellezza solare, con la magia dei suoi colori accesi, dei suoi aromi dolci e inebrianti, dei suoi miti, selettivamente greci, e delle sue favole antiche, con il suo fascino edenico di “paese innocente” nella accezione ungarettiana, ma anche con il suo peso di dolori secolari. La trama della sicilianità di Quasimodo rivela tutta la sua robustezza sia quando egli si abbandona al flusso di incantate rêveries sia quando, nelle liriche del dopoguerra, evoca il volto straziato di una “terra lontana, nel Sud,/ calda di lacrime e di lutti. Donne,/ laggiù, in neri scialli/ parlano a mezza voce della morte,/ sugli usci delle case” (A me pellegrino, in Giorno dopo giorno, 1947.

C’è in Quasimodo una evoluzione   nel   modo   di sentire, di avvertire la Sicilia nel tempo e nello spazio, per cui il paesaggio emozionale della “brigata lieve” di Vento a Tindari e di altre poesie di Acque e Terre, dove il cielo, il mare, il vento presenze infinite e misteriose, assurgono a emblemi archetipi della maturità incorrotta, risulta diverso e diversamente leggibile rispetto a quello vagheggiato in liriche  composte nei decenni successivi. Diverso per esempio da quello che, ad apertura della sezione intitolata Dalla Sicilia, nel Falso vero e verde (1956), si dispiega in chiave fiabesca e surreale, favolosamente popolato di re, saraceni, crociati, cavalli, rane, cicale, sotto un cielo sovraccarico di stelle: "Il vento, a corde, dagli Iblei dai coni/ delle Madonne strappa inni a lamenti/ su timpani di grotte antiche come/ l’agave e l’occhio del brigante. E l’Orsa/ ancora non ti lascia e scrolla i settembre/ fuochi d’allarme accesi alle colline, e non ti lascia il rumore dei carri/ rossi di saraceni e di crociati,/ forse la solitudine, anche in dialogo/ con gli animali stellati, il cavallo/ e il cane la rana le allucinate/ chitarre di cicale nella sera" (da Che lunga notte).

Brutalmente realistica è invece la descrizione della Sicilia consegnata dal Lamento per il Sud, a incipit de La vita non è sogno (1949). Qui è esplicita l’allusione alla sopraffazione della Storia (Oh il Sud è stanco di trascinare morti/ in riva alle paludi di malaria). Sono versi connotati dalla crudezza eletiva di segni linguistici di immediata espressionistica pregnanza. Non canti, ma bestemmie ed urla:è stanco di solitudine, stanco di catene,/ è stanco nelle sua bocca/ delle bestemmie di tutte le razze / che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Il registro formale si adegua all’idea di valore poetico che Quasimodo andava maturando in quegli anni (“Dalla mia propria poesia a quella più recente non c’è che una maturazione verso la concretezza del linguaggio”, affermerà in Una poetica del 1950).

Nei versi citati è possibile notare come il termine cuore, parola chiave della scrittura quasimodiana, si carichi adesso di valenze sociali.

Nel sistema tematico-lessicale del Quasimodo anteguerra il cuore è privo di ogni valore relazionale; le connotazioni sentimentali del vocabolo vi sono assenti, ad eliminare ogni banalità romantica, ma anche per sgombrare il campo da ogni elemento di affetto e quindi di relazione. Sono chiarificatrici a questo proposito due lettere a Maria Cumani rispettivamente il 31 luglio1936 e il 5 ottobre dello stesso anno. Nella prima, è evidente la preoccupazione di sfuggire alle convenzioni sentimentale: ”Sei diventata ‘il mio cuore’. Capisci? Ecco si chiarisce talvolta il significato di una frase consumata”. Nella seconda, si allude alla funzione psicologica del cuore come luogo profondo di identificazione, come rifugio dell’ intimismo solipsistico e baluardo difensivo rispetto alle forze centrifughe del rapporto con l’altro: “Sognavo di vederti danzare sul filo di una spirale, ma dalla periferia verso il centro (...) poi al centro non rimase che una sorgente di luce, intensissima, quasi verde. In questo verde mi trovai a correre... alcuni spaccapietre lavoravano sotto un sole tremendo. Appena mi videro, questi uomini cominciarono a lanciarmi delle pietre. Tutti i colpi arrivavano al cuore (...). Quale presagio ne trarrebbe Freud, con tutte le sue teorie sul subcosciente?”

Il cuore qui è ancora un oggetto puro, luogo esclusivo o privilegiato, deputato all’autoauscultazione solitaria: “Ha pure un suo nido il mio cuore/ sospeso nel buio, una voce; /sta pure in ascolto, la notte...” leggiamo in Rifugio d’uccelli notturni (da Acque e terre), che conferma l’adesione a una tradizione semantica codificata dal Leopardi del Risorgimento (da te mio cor, quest’ultimo/spirto, e l’ardor natio,) e di A se stesso (or poserai per sempre , stanco mio cor), e accolta poi dai crepuscolari (“Mio cuor, monello giocondo che ridi pur anco nel pianto,/ mio cuore, bambino che è tanto felice di esistere al mondo,/ pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori/ sovente qualcuno che picchia”), scriveva Gozzano nella tenera allocuzione al proprio cuore che introduce il colloquio Alle soglie, a quello retoricamente alto su cui si attestano, tra gli altri, Ungaretti (“Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ È il mio cuore/ paese più straziato” in S. Martino del Carso) e appunto Quasimodo (“... Parole/ avevi chiuse e rapide, che mettevano cuore/ nel peso di una vita” da E la tua veste è bianca in Acque e terre).

Ma se, come si è detto, nel Quasimodo della stagione ermetica il cuore si situa all’interno di un sistema comunicativo chiuso, dove il poeta è l’interlocutore di se stesso (“Acqua chiusa, sonno delle paludi [...] sei simile al mio cuore [...]. Così, come su acqua allarga/ il ricordo i suoi anelli, mio cuore;/ si muove da un punto e poi muore” da Acquamorta, in Acque e terre), nelle poesie del dopoguerra, invece, obbedendo alla precisa esigenza ideologica del poeta, il cuore diviene il canale di una nuova dimensione comunicante. Quasimodo lo chiama a contrario in Alle fronde dei salici (E come potevamo cantare/ con il piede straniero sopra il cuore) e in forma asservativa,  sempre in Giorno dopo giorno: “... Le parole ci stancano,/ risalgono da un’acqua lapidata;/ forse il cuore ci resta, ...” ( in Forse il cuore).

La parola assoluta è divenuta parola militante, e il trapasso dall’una all’altra è stato mediato dal trauma dell’esperienza bellica. “La guerra richiama con violenza un ordine inedito nel pensiero dell’uomo, in possesso maggiore della verità: le occasioni del reale incidono nella sua storia”, scriverà Quasimodo nel Discorso sulla poesia del ’54.

Anche nella raccolta più marcata dall’impegno ideologico e civile, accade tuttavia che l’isola, sottratta alla dimensione della atonalità storica, si configuri talora come puro mito della fantasia, filtro mnemonico  per  rilevare  impressioni di dolcezza o per recuperare luoghi, figure, oggetti accarezzati dal rimpianto e dal desiderio. Si pensi per esempio a Un’ anfora di rame, compresa nella silloge La terra impareggiabile (’58), in cui si decantano certi fenomeni minimi che distolgono dalla quotidianità, momenti della natura e della vita sorpresi nel punto in cui stanno per rivelare   il  loro  significato profondo: “... Che cosa racconta / la terra, il fischio dei merli/ nascosti nel meriggio affamato/ di frutta dura di semi/ viola e ocra. I tuoi capelli/ sulle orecchie in tempesta/che non si svegliano ora, capelli/ d’acquarello, di colore perduto./  Un’anfora di rame su una porta / luccica di gocce d’acqua e fili rossi d’erba”.

Ricordi che riaffiorano dai gorghi della coscienza o dall’abitudine antica di contemplare le cose con stupore incantato, memoria di momenti goduti nell’infanzia, scorci di felicità fugacemente intravista, effigi femminili di gusto neoclassico che iconizzano misteriosi trasalimenti dell’anima, voci arcane, e cieli, e acque e vento che fa stormire gli alberi o scompiglia i capelli della donna amata, il “vento del sud forte di zagare”, (Ride la ragazza, nera sugli aranci da Nuove poesie), il vento “acceso/ nelle criniere dei cavalli obliqui” (Strada di Agrigentum), il vento che unisce il suo sibilo al lamento dei gabbiani (S’ode ancora il mare). Un grande tema, quello del vento, che a partire da Acque e terre convoglia una congerie di motivi e spunti ispirativi destinati a dilatarsi e a prolungarsi lungo la traiettoria biografica di un artista meridionale precocemente emigrato al Nord ma incessantemente impegnato nel colloquio con l’isola natale, centro del suo mondo geo-etico, simbolo di vitalità primigenia e di resistenza, che oppone la propria perennità alle forme corruttibili del tempo storico.

Terra impareggiabile, dunque, prodigiosa madre comune verso cui il poeta si riconosce da sempre debitore di “parole d’amore”:Da tempo ti devo parole d’amore:/  sono forse quelle che ogni giorno/ sfuggono rapide appena percorse/ e la memoria le teme”.

Terra della storia e terra del sogno, ricreati e trasfigurata dalla frenesia oppure viva, concreta, con le spiagge luminose che il poeta conobbe fanciullo, con le campagne a lui familiari, con l’arancio greco che esplode persino nel buio delle latomie, con le agavi, i lentischi, gli eucalipti, amiche presenze vegetali, e con i “pianori d’Acquaviva,/ dove il Platani rotola conchiglie/ sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli/ di pelle uliva” (Che vuoi, pastore d’aria, in Nuove poesie).

In grazia di quel sogno, il poeta può vincere la durezza dell’esilio, dei lunghi anni del distacco, può ascoltare “passi ignudi di angeli”, può persino, ormai prossimo alla morte, riimmergersi miracolosamente per un attimo nell’alba della propria esistenza: “Oltre le case, laggiù, fra i lentischi/ delle lepri, c’è Solunto morta./ Salivo quella collina un mattino/ con altri ragazzi lungo/ Interni silenzi. Dovevo/ ancora inventare la vita. (Nell’isola, in Dare e avere)