Salvo Vasta

DEL TEMPO E DEL MALE

Introduzione di Gisella Padovani

CIRCOLO SOCIO-CULTURALE

"IL FARO" - RIPOSTO

 

ã Proprietà letteraria riservata all’Autore






INTRODUZIONE

Nella dialettica contiguità semantica di quattro termini (tempo, Essere, parola, male) che già ad apertura della silloge assurgono a un ruolo tematico di assoluta centralità, si saldano le vertebre creative del discorso poetico di Salvo Vasta. Se il problema del "tempo" e quello del "male" si correlano in un nesso indissolubile, in quanto sono proprio la razionale consapevolezza della negatività dell’esistenza, la sperimentazione dello scacco metafisico e il senso del limite a impegnare l’uomo in un inesausto, perenne sforzo di autosuperamento e di proiezione nell’avvenire, e se l’Essere consiste proprio nella pénia, nella tragica condizione di finitezza e di insufficienza con cui il pensiero è incessantemente costretto a confrontarsi, la "parola" insorge come segnale di risposta e di rivolta a tale destino di caducità, come sfida all’effimero e apertura verso l’infinito ("Io qualcosa ho trovato/ nelle cantine solari,/ nei pungenti sotterranei della parola").

Poiché non c’è pensiero fuori delle parole che lo esprimono, è la poesia a fornire all’umanità la più ricca gamma di parole per allargare i confini del suo intendere, volere, vedere e presagire. L’eterna lezione della poesia, che si evince immediatamente dai versi che presentiamo, è quella che valorizza la funzione palingenetica e rigeneratrice della parola. Il verso è la scoperta di un sempre nuovo confine: metrico, sintattico, semantico e, in definitiva, umano, ma in direzione dell’ignoto e dell’imponderabile.

Con l’arcobaleno delle sue metafore e la rete fatale e innocente delle sue "parole", il linguaggio poetico coglie a volo farfalle distratte e misteriose, cioè i momenti strani o sovrumani che la maggior parte di noi non avverte o non cura. Vasta è abilissimo nello stabilire infinitesimali reticoli di interferenze di senso tra segno e segno della creazione letteraria, nell’accertare inedite scaturigini e/o mutue interferenze di significati, nel suscitare istigazioni semantiche tra lemmi, sintagmi, paradigmi, nell’investire di sorprendenti valenze espressive inconsueti accostamenti lessicali o impreviste dislocazioni del tessuto testuale. I suoi, sono versi che prediligono lo scatto nudo e secco, ma che, pure, trascinano nel gorgo del serrato procedimento analitico e della stingente capacità argomentativa.

La silloge si articola in tre sezioni che scandiscono, indicandoli per allusione simbolica già nei titoli, gli snodi del percorso riflessivo dell’Autore: AQVAM SUSTINERE, AQVAM PERDERE, KLEPSYDRA. La decodificazione dei tre sintagmi latini è offerta ad apertura del volume da quattro righi in corsivo che seguono l’epigrafe sciasciana. Il poeta che dapprima, impegnato ad enunciare i suoi itinerari meditativi, si illude di aver fermato per un istante il tempo, è poi travolto dal suo inarrestabile fluire, sicché "perde" la propria acqua fino ad acquisire la desolante consapevolezza di essere precipitato in una condizione di assenza e di vacuità icasticamente tradotta, sul piano iconografico, dall’effigie della "clessidra vuota".

Attingendo a un giacimento culturale di amplissima portata, Vasta si inoltra in un ambito concettuale e critico-riflessivo poco frequentato dalla poesia italiana contemporanea: quello che convoglia speculazione filosofica e inventio artistica. La sua imagerie rinvia ai canoni di un’antropologia letteraria che, privilegiando le categorie dell’instabile, del centrifugo e del frammentario, a partire dall’ultimo Ottocento dilaga in Europa come inquietante prodotto della destrutturazione del reale e della correlativa disarticolazione delle forme di comunicazione linguistica e culturale destinate a rappresentarlo.

Colta, raffinata, orchestrata sulla felice combinazione di oggetti onirici con centoni della cultura e dell’arte, e sul sottile gioco di rimandi che la memoria indiretta instaura con vaste zone della tradizione classica, la scrittura poetica di Vasta comunica al lettore la sensazione di una "luciferina frammentazione" e di un disordine - nel linguaggio come negli atti della vita - che metaforizzano la condizione dell’uomo contemporaneo, disperso come una goccia d’acqua in un "mare/ infinito che s’increspa e vive/ di vita presunta": palus putredinis, dunque, fumigante per i miasmi della decomposizione, sulla quale affiorano, spaventosamente tronchi e inoperanti, relitti materializzati del pensiero.

Ma dietro la metafora negativa s’intravede la possibilità di vincere "la doppiezza del limite", di andare verso "l’altro", di appagare la "disorientata necessità" di un’integrazione del "diverso" nella struttura profonda dell’io.

Il progressivo dissolversi o risolversi del pensiero dialettico di hegeliana memoria in una sempre meglio riconosciuta autenticità del discontinuo, le istanze destrutturanti che sia sul versante teorico sia sul fronte della produzione letteraria culminano nella canonizzazione del divided self, la critica della nozione stessa di soggetto in quanto subiectum, entità dotata di una struttura profonda e portante, sono fenomeni che, come ha osservato Vittorio Roda, "da certo positivismo associazionistico e da altre esperienze variamente precorritrici, si inarcano fino a Freud ed oltre, ed ai quali corrisponde, sul fronte della letteratura, il rinnovarsi dell’autoanalisi e dell’analisi del personaggio all’insegna delle categorie del discontinuo e del plurale".

Bisogna tener conto di tali presupposti culturali per lumeggiare l’intreccio delle tensioni problematiche che attraversano i testi poetici di Vasta, situabili lungo la direzione ermeneutica inaugurata nei primi decenni del nostro secolo dalle teorie di Kierkegaard e di Barth, dalla scuola fenomenologica di Husserl e, soprattutto, dall’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers, teso ad accentuare l’incontro-scontro tra il finito e l’illimitato, fra il tempo storico e l’eterno dell’interiorità dell’individuo, sospeso fra i due termini di un’inconciliabile antinomia che lo spinge a "trascendere" continuamente se stesso nel tentativo di fermare il transeunte in una dimensione di infinitezza.

Accensioni utopiche e cedimenti pessimistici si avvicendano nelle tre sezioni in cui si articola l’opera poetica di Vasta, sostenuta da chiare e precise isotopie semiche che la preservano dai rischi della dispersione e la orientano verso esiti severamente raziocinanti: l’amara visione della vita come "male incarnato" e dell’umanità come "carnaio aggrumato di geni", come caotico e indistinto conglomerato di materialità corporee, non preclude l’avvento salvifico della speranza.

All’estrema disforia dell’annientamento totale, che al livello figurativo connota la catabasi in uno spazio negativo materialmente determinato come esclusione da ogni fonte vitale ("ci sentimmo forti, ma precipitammo/ nel baratro più profondo"), fa riscontro, al polo euforico, il solare intervento della speranza, che se è miracolo di "luce" e di "resurrezione", è però destituita, come la stessa poesia che la celebra, della capacità di assolvere ruoli consolatori e di alimentare illusioni gratificanti.

Spogliata da ogni implicazione ottimistica e rasserenante, affrancata dai rituali sottintesi spiritualistici, religiosi e provvidenzialistici, la speranza, per Salvo Vasta, è lacerante e proficua tensione verso l’eternità, è sforzo titanico di sottrarre la vita umana al distruttivo fluire del tempo, assicurandole una durata perenne.

Il materialismo negativo dei pensatori antichi e di alcune moderne correnti filosofiche rappresenta per Vasta un punto fermo di riferimento la cui funzione paradigmatica è chiaramente attestata dai versi con cui si apre la seconda sezione dell’opera: "Sta scolorendo ogni cosa:/ di quelle che sembrano avare,/ avvizzite, di frutti tarlati,/ consumate nei rami avvinghiati/ e contorti dell’edera."

L’incanto dell’immaginazione si nutre del fascino ambiguo di un cupio dissolvi alimentato dalle malinconiche considerazioni sull’eterno circuito di creazione e di annientamento attivato dagli spietati strumenti della macchina cosmica. Se la morte inerisce all’essere, il destino umano è segnato da un’aporia che lo contamina alle radici. Nessuna salvezza può visitarlo né può venirgli in soccorso l’intelletto, che proprio nell’incapacità di spiegare questo paradosso ontologico avverte il suo limite più grave.

Questo doloroso senso di insufficienza si rivela in tutta la sua concretezza in Tempo III, dove viene sollevato un quesito al quale, per il momento, il poeta si limita a rispondere con una sospensione di giudizio: "Cosa potrei allora temere,/ cosa tenere per dopo/ quando le trombe del giudizio dipinto e le/ ferali/ riconoscenze di gloria passata saranno/ come ali/ fluttuanti nel denso pulviscolo scosso/ dell’universo?/ Se cedono gli alberi, le ralinghe, i fasciami/ cosa rimane di questa sperduta nave/ che non sia poi in un mare?"

Le forze che operano oscure nell’alvo della materia sembrano condannare l’uomo a un male irrisarcibile. Pur affermando con risolutezza le ragioni della sua filosofia désespérante, il poeta evita programmaticamente di insinuare nel cerchio della negatività interamente oggettivata disposizioni etiche e sentimentali che preludano a risposte consolatorie: "Non chiedermi allora di guidarti,/ perché sono cieco, un rimedio femminino/ per una virago e che mal s’accorda/ con la forma del vestire./ Non mentire allora, non consolarti/ mentendomi".

È evidente il riecheggiamento di un celebre incipit montaliano, quello della lirica che in Ossi di seppia apre la sezione eponima del volume: "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco,/ perduto in mezzo a un polveroso prato". La poesia non può essere più (come era, o pretendeva di essere, una volta) spiegazione del mondo, e tanto meno può prefiggersi compiti consolatori; essa può solo, con scabra durezza, comunicare la tragica, impotente desolazione dell’uomo.

È questo l’asse tematico lungo il quale il messaggio trasmesso da Salvo Vasta ("Non mentire allora, non consolarti/ mentendomi) coincide con quello che settant’anni fa Montale affidò alla sua opera d’esordio ("Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo").

Anche il significato metaforico del "male di vivere", sul quale Vasta pone spessissimo l’accento nei suoi testi poetici, rinvia ad una delle fondamentali componenti ideologiche dell’ispirazione montaliana. L’incidenza dell’autorevole modello (rispetto al quale, comunque, il giovane poeta siciliano non assume mai un atteggiamento di dipendenza epigonica) si coglie agevolmente accostando i versi con cui Salvo Vasta conclude la sezione KLEPSHYDRA ad un altro notissimo componimento dell’Autore di Ossi di seppia.

Scrive Vasta: "Perché scoprimmo che il male/ è solo male di essere:/ coniugare l’esistenza al passivo/ cammino di un aratro a versoio,/ ciclicamente e in tondo/ sulla nostra terra". Anche Montale aveva espresso con movenze incisive e lapidarie il suo senso della vita quale male assurdo, lenito solo dall’effimero conforto di fugaci illusioni, e la sua concezione dell’atto poetico come indagine razionale della realtà secondo un’ottica fenomenologica e contingentista tesa all’estrema evidenziazione dell’oggetto e rigorosamente immune da cedimenti a seduzioni di matrice idealistica: "Spesso il male di vivere ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l’incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato".

Salvo Vasta avverte che l’esistenza è contrassegnata da un’assoluta negatività, da uno "stanco perduto dolore" ineluttabile perché relativo non a condizioni particolari ma ad ogni forma di vita e modo d’essere.

All’uomo, condannato a percepire "la notte, l’inganno/ dietro la paura, la morte dietro la vita", resta solo la possibilità di cogliere l’eternità nell’attimo platonico, di vincere il Male (identificato con la corruttibilità del tempo) prendendo coscienza della sua presenza e dominando l’istante in cui esso si racchiude: "Una vittoria in solitario molte volte ci fece grandi come un dio. Lui è un numero enorme; noi, da soli, non saremo mai come lui, se non in un attimo di Male. Lì, pensando ogni cosa, forse avremo il tempo di essere tutto".

La frammentazione dell’ego penosamente scisso e pluralizzato, e tuttavia spasmodicamente anelante al recupero della sua perduta, epica compiutezza unitaria, si risolve organicamente ad explicit della raccolta nell’immagine del donchisciottesco eroe che ingaggia la sua solitaria battaglia contro il Male, contro la morte, contro tutti i limiti imposti dalle ferree leggi del destino umano.

All’audace sfida del mitico Icaro, che nel primo componimento del volume ha emblematizzato il sacrificio supremo a cui è votato chi si rifiuti di essere travolto dal "tempo mutabile", corrisponde, con perfetta simmetria costruttiva, il patetico e insieme grandioso cimento di "Chesciada/ che supplica il cavallo di portarlo,/ lui cosciente, all’ultima battaglia."

In entrambi i casi l’impari lotta fra l’uomo e il Male assume i tratti inconfondibili di un’epifania salvifica.

Si conclude così, con un gioco iridiscente di bisticci, calembours, allitterazioni, paronimie ed eleganti enjambements, l’ammaliante sarabanda dell’immagination poètique di Vasta, che corre liberamente su percorsi inusitati, accumula sequenze oniriche, lacerti autobiografici, tranches de vie, reminiscenze erudite, inserti del parlato quotidiano, preziosismi letterari, citazioni dotte, stilemi idiomatici, nell’ansia di "reinventare" il lessico, di affrancarlo da contesti banalizzanti e da forme ormai consunte, restituendo alla "parola" la sua autenticità di esperienza originaria e la sua primigenia, quasi magica, forza evocativa.

Gisella Padovani

Università di Catania

 




Ho fermato la mia acqua

Ho perso la mia acqua

Sono dunque una Klepsydra.

Vuota.





AQVAM SUSTINERE








INCMARO DI REIMS

(806-882)

 

Non è certo possibile che chi creò il tempo

si muova nel tempo mutabile

senza rimanerne travolto.

 

Io dico (ma non posso dimostrarlo):

non è anche possibile

che chi non ha creato il tempo mutabile

si muova in un tempo immutabile

senza rimanerne travolto.

Per non essere travolti basterebbe rimanere

sulla terra,

anche alle condizioni di Icaro

anche senza le sue ali

purché domani (ma non dovrei dirlo)

il sole sia per tutti come la luna.






1

Davanti a un oriuolo fermerò quel tempo.

Fermo, fondo:

fermerò al profondo il suo respiro;

lungo, nell’abisso dell’anima.

E coi grani...

. E coi rami ... Tu scenderai

con loro nella china profonda

e irrisolta di me.

 

Ti fermerai a quel segno.

Anche tu.

Anche gli altri che vogliono

la nostra coscienza.

 

Ti fermerai a quel cumulo

che qualcosa nasconde,

dietro i rami di un salice nudo

dietro un opaco verdeggiare

che non è più speranza.






2

Rossa luce di infetti postriboli

calda rivelazione di giovani

amanti dal grasso puro sudore,

di nettari proibiti dal cielo,

ascolta l’angoscia disperata

del bene mancato, della falciata

improvvisa che arrossa di colpo

una pur sempre voluta speranza.

 

Ci vuole un racconto senza fine

per restituire ognuno nel bianco

uniforme del piatto di Newton.

 

Ma anche quel rosso scarlatto fa parte

del tutto svelato, del mestiere

umano di vita che risorgerà.






3

Rivelazione come sangue

come stortura umana del divino

come pietrificazione dell’incoscienza

come sentore del buio,

addendo di una somma sconosciuta

calcasti un punto dilatato

infinito, trattenuto a stento

dalla sottile scansione

della parola. Fosti qualcosa.

Mi estraesti dalle viscere,

dallo spasmo truculento

tutto innervato nel bisogno;

fosti per me qualcosa: un modo,

uno dei tanti di essere qualcosa:

fosti Me stesso che tornava

che spariva, s’innalzava.

Fosti un artiglio di sapere

il limite delle acque

la passione e il tacere riposato

dopo Sisifo.

Eri il ri-essere dopo il nulla

un ri-tornare senza mai

essere partito; un patire feroce

(oltre la conosciuta, dolorosa sopportazione)

quel limite

che nella eternità corrotta

di settecento lune

ci sembrava quasi invisibile.

Fosti proprio quel limite,

quei cavalli di Frisia

che ci immortalarono codardi giasoni

dopo un’inattesa resurrezione dell’Essere.






4

Rivedere se stessi

solo nel cercare un’orciata di luce

in mezzo a cieli semiscuri

cupamente riflessi

da un blu dato alle finestre

con mano ferma e non approssimata

di imbianchini farisei.

 

 

Aggravare nei tratti

quella ricostruzione mancata di volti

di flutti, di letti disfatti

persa timidamente da noi

nella lotta di prese

in un pancrazio moderno e luttuoso

senza speranza di premio

 

....................................

C’è sempre quell’atto, voluto

instancabilmente cercato:

un particolare beninteso sconosciuto

nato da forme desuete

e sotto l’intesa martellante dell’anima

fatto piccolo, sino a sparire.

 

Ma l’averlo preso

non è che tutto quell’apprendere.

Intatto.

E’ come un resuscitare improvviso

quell’olfatto inoperoso di bambino

che amava raschiare dal fondo rappreso

il miracolo del vino.






5

Non c’è durevole condotta

nell’annunziare che il fariseo di passaggio

e che s’afferma in noi

sta per passare ad estrema risoluzione

nel prender posto nel simile.

Egli comunque s’illumina,

macchiando improvviso il suo capestro

nel maldestro tentativo di sottrarvisi

come cera alla lucerna.

 

E tuttavia non basta la riflessione,

una passione nascosta nel fondo

per la trascendenza,

un genuflettersi pietosi di fronte a un dio.

 

Il suo mirare non scorge alcuna luce

la sua faccia multiforme diventa infinita

eppure riunita insieme

in un’unica possibilità.

 

In essa fingo di Esserci anch’io.






6

Mi parve di vedere in uno schisto di pietra

la fine moribonda di un sentimento.

Era allora, quando il solo col pensiero

l’accordò per niente,

perché la lotta si sentiva vicino.

Un tino colmo d’etere

è già una raccolta di odî e di speranze

per questa ingenua vita che poi diciamo

[ordinata

(essa pure si mostra soddisfatta dal farsi

ritenere tale).

Ridarà le gioie di un presunto futuro

di bellezza, dove ognuno ed io

potremo adagiarci per sempre?

 

Io qualcosa ho trovato

nelle cantine solari,

nei pungenti sotterranei della parola.

[...

- Qual è la parola?

- Io non ti rispondo

- Vorresti indicarla?

- Io non ho segni...

(Già li perse questa vita)

- Ammira in me il tuo volto

- Tu lo dici: ma i miei occhi non

hanno voce

- Io sento profonde le loro grida!

- Ti inganni.

- E’ solo il bene

che circonda questo vuoto

profondo.

 

...]

 

 

a)

Perché se non fosse che in questa vita

un riconoscimento rimane,

di fittizio genere o tuttalpiù contrario,

sarebbe presto raggiunto lo scopo

di considerarla semplice risposta

d’acrimonia

alle bellezze divine.

 

 

b)

Così ci accordammo per una fine

di colatoi e sbavature fatte d’onnipotenza

risorte a fatica fiorenti

da cere scure

di luciferina frammentazione.






7

A noi una fede

sostiene la tenzone

e la luce che forse pensi fu segno

scomposto

di rispetto, di stolidità tremenda.

 

Ora non abbandonare,

non prendere a prestito un pegno di altri:

rigirare tra le mani uno schivo guadagno

intristisce la borsa

intestardisce l’anima.

 

L’anatèma che scegli per te

sembra certamente ‘virtù’:

non lo riconosci tu, se non a metà,

 

ed esso si prende gioco di te.

 

Forse vorresti salire da mozzo

sulla nave dei folli,

calarti nel buio della stiva

per riconoscere una storia diversa.

Non so se tu sbagli, né se io riconosco

la giusta risposta.

Essa pure è racchiusa tra noi,

sottratta e cerchiata dal buio

allungata al profondo.






8

LA PREGHIERA DEL MALE

Noi, come gocce d’acqua in un mare

infinito che s’increspa e vive

di vita presunta, dopo l’immensa tempesta

dal giogo sempre più forte.

 

Noi, amanti della Gestalt

del tu diffuso

della promiscuità di Sade

della vita nullipara, del sangue

del nulla dies sine linea,

 

abbiamo sicuramente imparato

che la malversazione spirituale

non può essere frutto d’un tiro di moro

né dell’età sinodale.

 

(C’era un mammamia perfetto, uno strumento eccelso dell’onnipotenza che ondeggiava sicuro nel timbro squisito del salterio; che mai affondò in qualche pozza, che mai annegò in un bicchiere d’acqua, che mai pensò un grido, un accenno di saluto, un fiuto dimenticato di segugio vespertino che tra le frasche deposita la pazienza del padrone. Era il primo pietro, il pescatore senza menaide, senza ruga, senza sale...

Anche lui, come me, malvivo....)






antifona

E’ un male incarnato, la vita,

che deve vivere e morire

che aspetta un necessario traviamento:

la sua razionalizzazione.

 

Bisogna tornare al punto ortivo

a quella piccola escrescenza di luce

che vomitò stelle nell’abisso

che precipitò un atavico diluvio

e ci fece partire.

Vedemmo il punto dilatarsi,

accrescersi a riprese nel millennio

e limitare la morte

nel carnaio aggrumato di geni.

 

Era ancora un baro:

tiravamo a indovinare la sorte migliore.

Ma l’avversario era più forte:

riuscì solo a farci ricordare che un punto,

un cerchio ed un quadrato

avrebbero aggrappato nel mille

gli occhi ad un altro dio.






epilogo i

Fu come nei giorni di Aggeo,

in giorni di scarne vivande

che durano per tutta la vita,

che noi volevamo avanzare

per dissetarci con una mistura di nardo

versata in un napoleone di cristallo.

 

epilogo ii

Puledri di due anni,

partecipammo ad un criterium fatto

per dei;

ci sentimmo forti, ma precipitammo

nel baratro più profondo:

quello dei magri epuloni.

Ed anche noi desiderammo una luce,

una resurrezione.










AQVAM PERDERE










9

Sta scolorendo ogni cosa:

di quelle che sembrano avare,

avvizzite, di frutti tarlati,

consumate nei rami avvinghiati

e contorti dell’edera.

 

Sta scomparendo qualcosa,

- lo sento -: odo il suo scorrere

di turbina che allima nel piano

i mondi. Mi sfuggono anch’essi,

come il sale, come il cinnamomo.

 

Mi manca qualcosa - lo sento -:

la trae via la calamita invisibile

che qualcuno solleva.

................................

Anche l’amarena adesso è dolce.

Anche un dolore che mi vide nascere.






10

Come un ussaro allo specchio

tento di rivoltarmi l’anima, bellicoso,

così come è deposta la casacca

(vecchio ingegno della vecchiaia superba)

al chiodo arrugginito e tristo del tempo.

Forse perché l’appendere

ancora una volta dimostra stanchezza

sdrucimento da uso o fine, addirittura,

di qualcosa

a cui si tiene, che si odia.

 

Non è istinto di conservazione

ma illusione di trattenere l’***

e, per giunta, strumento di vendetta.

 

È come un cristo quell’atto,

l’atto della conservazione e del riscatto

l’atto del giudizio (positivo e negativo)

la potenza dello specchio di noi,

bassezza e orgoglio del possesso.

 

Eppure ciò che è appeso rimane

ciò che è tolto non è più:

l’esposto confina con l’(essere)?

il mostrarsi una rivelazione

(l’apparire è ben poca cosa)

il guardare una sanzione

(il vedere è cecità)

il traslare, la prefazione del nulla.






11


TEMPO I

Sarebbe logoedica una vita

che unisce il lamento alla pazienza:

quella senza la virtù sarebbe il ramo secco

della perplessità, della infingarda necessità

di sapersi migliori: ma il loglio, purtroppo,

non fruttifica le messi,

né io conosco il talismano che permette

a un dorato contadino di raccogliere

a-priori una diversa seminata.

Qual è allora la totale divisione dei

compiti?

Qual è la forma di un conoscere illimitato

che traspare, per necessità, silenzio?

Non dubito nel sapere ciò di cui si possa

dubitare -

la doppiezza del limite, all’assurdo stremo

delle forze -

ma del fatto stesso di dubitare,

di riportare daccapo senza speranze,

senza alleanze durature,

una qualsiasi forma di conoscenza

al suo iniziale destino.

 

Se è tardivo un moto verso il sublime

io lo riconosco dalla vita di ognuno,

dal duro nucleare per punti il passato

in nuance sempre meno densa.






12


TEMPO II

Qual è allora la giusta direzione

della diversità: se latente rimane,

rimane forse ampliata nel silenzio,

nel quasi singhiozzo

della formula antica che uno spirito

nottivago

vuol rivelare alla luna.

 

Una preghiera è tale nel voler esprimere

questo:

che gli uomini sperano ottenere pregando

un giudizio

che asserisce uniforme la loro totale

capacità

di distruggere due cose, senza prima

conoscere

né l’una, né l’altra.

 

E l’Indistinto si prende gioco di noi

poiché esso è la loia più comune

che si trova negli uomini:

il suo valere nel mondo,

probabilmente, fa ancora grandi alcuni tra

loro.






13


TEMPO III

Metto ancora le mani dentro la riflessione.

Nelle scansioni di memoria

nella convinzione del domani

tinto da un equoreo colore

(mistura fatiscente di un normale infinito).

 

Perché, se poi d’un tratto la speranza

diviene malinteso, e anche il più modesto

guerriero

batte ritirata,

la sorte ugualmente non può che apparire

un necessario destino, un rodomonte

poliedrico

un tentennante contratto.

 

Preferisco allora rimirare d’un tratto le cose,

bere tutte insieme le figlie di bacco,

consumare a limitati banchetti

l’infinito cafìso mancante del fondo,

inebriarmi d’etere.

 

Improvvisamente

di questi delitti poi piango,

di queste rovine precise,

di questi sogni coscienti

che vivono nel nulla di me.






14

Quanto poi all’anima mi sento poligrafo;

quasi talvolta intimidito di me stesso,

degli alterchi che si stagliano improvvisi

- come l’onda del mare sopravvento -

su sè stessi,

immersi totalmente dal dubbio,

dalla polimatìa che oggi invadente

trebbia pure tra i morti.

 

Eppure sono lontano (lo sento)

innervato nella testardaggine più astrusa,

reietta agli altri

quasi come prelogica virtù.

 

Cosa potrei allora temere,

cosa tenere per dopo

quando le trombe del giudizio dipinto e le

ferali

riconoscenze di gloria passata saranno

come ali

fluttuanti nel denso pulviscolo scosso

dell’universo?

 

Se cedono gli alberi, le ralinghe, i fasciami

cosa rimane di questa sperduta nave

che non sia poi in un mare?






15

Non chiedermi allora di guidarti,

perché sono cieco, un rimedio femminino

per una virago e che mal s’accorda

con la forma del vestire.

Non mentire allora,

non consolarti mentendomi.

La corda si tende con l’arco,

scocca il dardo,

violento s’incunea, penetra l’aria

distrugge il bersaglio.

E quel bersaglio s’abbatte potente,

nell’evo uniforme e limato di Huizinga e

[ Hirzel

nel tempo di Ricoeur e Sorabji.

Nel far rimbombare solo echi e mai più

parole.

Conviene allora montare in arcioni

dirigersi al piccolo lume sopra l’antica bugia

imitare il senso inesprimibile delle cose

vendicarsi prima del dopo.

Ma non so se questa incosciente speranza

possa brillare un giorno d’un tratto come

[ vibrìte,

scandire nel cielo alternate l’eclisse e il

lampo del faro,

far tremare dio: lui, forse, non lo conosco.

E non mi illudo che ancora ci sia il tempo

che trasli ossa impaurite,

che nelle trite virtù degli uomini

ci sia ancora una qualche speranza.





16

Ed è sempre un parlare di male

di stanco perduto dolore

mentre nelle ossa s’avviluppa lento

il desiderio di lenire

gli indecisi lamenti

di un indicibile amore.

 

E tu aggrappi per sempre il tuo flatus vocis

alla disorientata necessità

per la presenza del diverso -

specie dopo le sofferenze spietate

delle dialettiche filosofiche -

nei pomeriggi resi profani

dagli intimi abbracci alle essenze,

alle fessure di cielo, all’altro tuo essere

alle temute speranze.

 

E ti accorgi che è sempre più

un parlare di male

di uno stanco, perduto dolore

di un cuore di carne

battuto su di un maglio dorato

e di quella voce impastata

dalle valanghe sanguigne di risate

acquistate a caro prezzo...

 

..........................................................

 

mentre tu sei ancora aggrappata ad un filo,

mente, io pesante, affondo le caviglie

nella sabbia purissima e fine

del progredire a ritroso

fino ai Misteri di Giamblico.

 

Lì, ove mai sia possibile,

ci divineremo in statue fuse

col sigillo dell’ex-sistere,

insieme alla fierezza del tormento

e alle Vaticane epicuree.

 

 

 






Dico dunque che l’uomo, pensato come elevato alla divinità del mondo delle idee eterne, precedentemente unito alla contemplazione degli dèi, è entrato in un’altra anima adattata alla specie umana della sua forma, e perciò è venuto a trovarsi nei vincoli della necessità e della fatalità. […]

E quando ha unito l’anima con ciascuna parte del tutto e con le divine potenze universe che le pervadono, allora la teurgia la conduce al demiurgo universale, la pone accanto a lui, e al di fuori di ogni materia la unisce alla sola ed eterna ragione.

Giamblico, De Mysteriis






17

Ora, se mai avessi qualcosa da scrivere,

scriverei che talvolta

l’anima si è fermata, qui, al punto

dove da sola è ripartita

per il viaggio assassino

della solitudine.

Se rischiassi poi ad accompagnarla

fino al limite estremo

(ma poi sarei lutulente)

mi accorgerei che lì

presenterebbe congedo con grazia,

con voluttà servente

del cicisbeo raffinato.

Sarebbe sola,

fuori anni luce dal dispetto

che la circonda qui, tra gli uomini.

 

(In quale radura o, peggio, ascensione di cielo

dimostrerebbe d’essere finalmente felice?)

 

- Mi astengo dal giudizio

nella speranza che ogni morte

l’abbia condotta nel giusto posto.

Qui, tra noi.






18

Da Lì qualcuno ha detto

che l’inferno è due:

il desiderio mesto di speranza

lì s’accende invano.

E sperare non conta;

c’è l’opaca tristezza

del bicchiere intartarato

del sale di china.

 

Ma Qui è il dolore

qui non è la speranza;

qui arde la lampada unica

della nostra paglia.

Ed è cilestre pure il cielo

perché non è vero il fumo.

E’ solo pallido, non scuro.

 

E ancora il nome di Epulone

qui s’accascia tra le briciole.






19

Forse bisogna conquistare

stabilità sapienziale

ritmi armonici, neumi puri.

 

Forse è necessario riguardare

alla destrezza spirituale

alle forme pure dell’anima.

 

Non è decisione antica

questo svolgersi per salmi,

per salteri austeri

che tingono un poco di nulla,

della vita d’ognuno

che poi tristemente pare all’ultimo

legata a un filo.









KLEPSHYDRA









21

Mai pronunceremo le parole che ogni qualvolta ritroviamo semplici, hanno poi del vuoto e dell’elementare.

Attrae la loro bellezza, ma la vita che esse offrono finisce col diventare male di vivere e quindi principio di ogni vita.

Perché ogni vita è male di vivere, è gioia piena della conquista dell’***.

È vigore, vittoria, frutto di noi stessi, come la pota della vite (o della vita?): rivive in una nuova strada di dolore che diventa verde piacere, e poi dolore.

Intanto quel sanguinolento frutto s’insinua nelle mie ossa, si fa in me dolore, estasi, essenza.

Sento la lotta interiore, la notte, l’inganno dietro la paura, la morte dietro la vita.

Ardiamo essere accompagnati, come uomini comuni, perché non vogliamo saperne di vincere da soli.

(Una vittoria in solitario molte volte ci fece grandi come un dio. Lui, in ogni caso, è in numero enorme; noi, da soli, non saremo mai come lui, se non in un attimo di Male. Lì, pensando ogni cosa, forse avremo il tempo di essere tutto.)

 

Comunque preferisco combattere sempre contro me stesso.

Da solo.






22

S’appresta a torcersi

il nervo ulivigno

come una vigna esaurita

dopo fiumi di vino.

Il sentore degli auspìci

fu rinnovato per tempo

ma mancavamo del lituo

per sostenerci.

 

Ora aggiornano confuse le vittorie

come le frasche remolate a frotte

sotto i marciapiedi del lungomare:

tu le vedi, ma non io.

 

Rivedo invece il limite in quella linea

gialla, infinita;

in un occhio al mare - penso -

potrebbe perfino consumarsi l’esistenza:

quello stormo d’uccelli a vu

che si presta a sfiorare il mare africano

per farmi tremare di paura

nel mezzo di un nuovo, ennesimo

settembre.

 

 

 






23

Dopo (o prima?) la verità viene il giudizio:

invadendo l’essere si placa così l’angoscia;

penetrandolo della sottile follia di uomo.

Violando seriamente la speranza

si arriva alla fede universale

al possesso della verità.

E’ discutibile la speranza nella forma,

ma (gran ventre ingordo) il vero ci attira

seppur bituminoso

(ma per ciò che conosciamo fluido);

ci lascia ancora impastati nel tempo,

abbandona dopo averci violentato.

E quel poco di cui siamo sozzi

ci ammalia come aloe, come incenso greco.

 

 

Grande è la bellezza della verità:

è come la poesia lesbica di Saffo.

Rimane comunque per sé grande meretrice

che dopo averci fatto godere, lascia

avendo solo preteso

il prezzo di un patto leonino.






24

Se la solitudine che intendo

fosse come mangrovia rettilinea

mi sentirei nell’intimo di chiamarla

‘innocente’,

per la sua capacità di cogliere nell’anima

gli identici legami con la coscienza.

Ma ogni prodese che tira alla banchina

non trae a sé la nave: si spezza,

riannodando vanamente i legnoli del

[passato.

Non è da compiacersi di questa ineffabile

[tensione,

di questa strada tremenda che è la parola

e che come sàmara trascina in là.

………………………………

Ho udito una salva improvvisa:

repentina si è svuotata nell’aria

quella forma ignea dotata di ‘rispetto’

di diletto vile per la tenacità.

Io, mi sono fermato a guardare:

ho tenuto ferma la ragione,

ho gridato ciecamente.

Ora desidero ancora rimaneggiare qualche sillaba,

qualche stortura intelligente, qualche

perdono :

misurerò ancora i prodigi annunciati

e un sanctus servirà solo

per inneggiare a dio.






25

Vita, che dondoli tra parole

tra mal-esseri infiniti di giornate

che spegni lentamente nella morra

di chi per primo possa indovinarne la fine.

 

Sconosciuta profezia per molti

ed anche per noi due

meno che agli altri sospetta

in quel progressivo ricordare le ore di prima,

il precedente immediato, il caso e le

[combinazioni.

Poche intenzioni resistono col tempo

come questa

che si fa sempre più amante illustre

delle mentali perversioni

e non della divina conoscenza della nostra

intimità:

nell’ultimo momento, prima,

vorremmo avere la conoscenza del suicida

ma per regalarci l’illusione che almeno

quell’atto

fu voluto da noi e non da altri;

che ci fu restituito il mal tolto:

quella coscienza inespiantata del contorno

della tana accogliente per tutti

dell’ultimo cosciente saluto,

della benedizione.






26

Se chiudere o aprire ogni porta è uguale

se il criterio e l’estensione del giudizio

si equivalgono logicamente,

anche il modo e la sua verità, probamente,

sono poco meno del paradosso:

è non c’è più Newton o dio a sorreggerlo.

Manca la fede e le postille dei filosofi

si rincorrono come tante tartarughe

mutano in ombre, si dividono.

Se i teoremi di giustizia, l’assiomatica verbale,

i palmi delle mani battendo insieme

colpissero, stramazzando forte il muro

della umana incongruenza,

sentirei il processo di un creato ergersi

insieme in musicali infiorescenze,

colmare ancora di più le sinfonie

riempire gli interstizi dei muri,

coprire il Male.

Perché sento di sera le voci maligne,

sensibilmente fuorvianti, che incalzano.

Le sento cosmopolite, quasi rinverdite per

[assurdo

dello spirito universale.

Perciò le addìto: per tingerle di luce,

per sfruttarne l’impulso di forza

rappresentandole metafisicamente in Male.






27

Bestemmia dorata

portanza di ali blasfeme

che tendono all’alto

sotto la spinta di un’umana,

sovrumana fatica

che tenta, solenne, di riconquistare se stessa,

di farsi vittoria perenne.

 

Perché scoprimmo che il male

è solo male di essere:

coniugare l’esistenza al passivo

cammino di un aratro a versoio,

ciclicamente e in tondo

sulla nostra terra.

 

Ho scoperto allora di ri-essere

che pensare quello stesso male era esistere,

stringerlo a me come un cristo.

Perché mi fece essere uomo.






28

Ti dico che solo ora apprendo

della tua campa che nella ferale

parola mors si spegne all’improvviso.

Ti ha afferrato, morsa, lasciata,

 

rimorsa, battuta, lacerata. Mai

come ora solo apprendo quel che ti dico:

mi rimane il rimorso serioso

di ricordarti così: labbro torto

 

di limata ceramica che ora

offri a chi te stessa nelle bugie

di vive cere perse. Non saprò mai

 

cosa più lì brucerà se non l’altro

morso, nel consumo di Chesciada

che supplica il cavallo di portarlo,

 

lui cosciente, all’ultima battaglia.