LE TRADIZIONI



LE TRADIZIONI

Secondo Johann Gottried, la tradizione è la sacra catena che lega gli uomini al passato e che conserva e trasmette tutto ciò che è stato fatto da coloro che l’hanno preceduto. Per Friedrich Hegel invece ciò che ogni generazione ha fatto ……. “è un’eredità cui ha contribuito con i suoi risparmi tutto il mondo anteriore”, per concludere che questo ereditare “è ad un tempo ricevere e far fruttare l’eredità”. Lo studioso sardo Francesco Alziator, parte dal principio che “la storia delle tradizioni popolari sia una disciplina storica e quindi un valido sussidio di quella che per la mentalità comune è la Storia”. Ciò può anche sembrare un discorso vecchio e per lo più scontato, tuttavia inserito e verificato in un contesto locale, ad esempio il nostro, della Sardegna, esso assume proporzioni e angolazioni particolari che giustificano perciò il riproporre e riprendere, almeno in parte, l’argomento. Le più antiche tradizioni sarde, sono state tramandate per via orale, e le documentazioni di cui si dispone, non vanno più indietro degli ultimi decenni del 1700. Per fortuna in questi ultimi tempi, i sardi hanno preso coscienza del profondo valore delle tradizioni e soprattutto i giovani, vi dedicano un rinnovato interesse, non esitando ad impegnarsi nella ricerca delle giuste fonti che, consentono di riproporre fedelmente singolari manifestazioni trascurate da molti anni, ma sempre vive nella memoria degli anziani. Così le usanze del passato s’innestano nel costume attuale e l’antico folclore rivive nella pratica d’oggi. E’ vero che hanno contribuito in questo senso le varie “Pro Loco” che in tutti i comuni, Ilbono compreso, profondono tanto impegno nel mantenere vivi tradizioni ed usi un tempo caratteristici e talvolta specifici di tanti paesetti, soprattutto di montagna. Noi ne presentiamo alcuni che ci hanno colpito per la loro particolarità e che ci è sembrato siano più vivi nel ricordo delle persone che ce li hanno raccontati.

Il costume maschile
Il costume maschile è composto da varie parti: “sa berritta”, è un lungo cappello che dopo essere messo sul capo viene piegato ed è in orbace nero con i bordi rossi. Sul collo si lega un foulard in seta che viene tenuto con un anello d'oro. Un altro elemento è la camicia bianca in cotone lavorata a mano con vari punti: punto oliva -“puntu olia”-, punto erba ecc. Sopra s’indossa la giacca -“su corpetto”-, tenuta abbottonata dai “buttonese”, bottoni d'oro; e le famiglie che non se lo potevano permettere usavano delle monete d’argento. I pantaloni -“sa braga”-, sono in cotone grezzo e sopra di questi viene indossato un gonnellino in panno nero, e sotto viene passato un filo, da una parte all'altra del cavallo, detto anche “su spacca troddiu”. Il costume maschile è completato dai gambaletti di stoffa nera con i bordi alti rossi -“is gambalisi”- che venivano poggiati sugli scarponi in pelle.

Il costume femminile
Una distinzione nel costume femminile era legata al ceto sociale delle persone. Infatti, quelle benestanti usavano un copricapo -“sa mantilla”- in panno rosso bordata di pizzo o nastro di colore diverso, di dimensioni e forme varie. Le persone appartenenti a ceti sociali più modesti, mettevano “su colore”, anche questo in panno rosso, rettangolare col bordo nero: era abbellito da un soggolo in argento lavorato come una catena, tenuta da “is gancius”. Questi due copricapi erano usati per le occasioni importanti come le feste e i matrimoni; per la quotidianità invece si indossava, come ancora oggi “su panniggeddu” e per andare in chiesa “su sciallu”. Quest’ultimo poteva essere in seta (per le occasioni importanti) o in lana pregiata (Tibet) e ambedue abbelliti dalle frange. Rivedendoli oggi ci ha colpito l’eleganza di questi due capi, sia i colori nero e viola che la finezza del tessuto e l’originalità della spilla in filigrana d’oro -“s’agulla”- che serviva da fermascialle.
C'è poi la camicia bianca, di cotone, indumento ricco e appariscente, infatti, è ricamata a mano con vari punti: punto oliva, il punto erba, lo “sfilato”, il punto inglese, il punto pieno e ad intaglio, solitamente è rifinita in pizzo. La camicia viene agganciata da dei bottoni detti “is buttonese de oro”. Sopra la camicia d’estate si indossava “su cosso” un bolero in seta operata guarnito da passamaneria multicolore, sostituito d’inverno da “su corpetto” sempre in seta ma a maniche lunghe. Col tempo questi due capi sono stati sostituiti nella quotidianità da “su gipone”, un indumento meno importante e più pratico. La gonna -“sa fardetta”- è lunga, pieghettata, solitamente con l'orlo impunturato e abbellito da un nastro con vari disegni. Sotto la gonna è indossata una sottogonna detta “su suntanu”, solitamente in cotone ricamato. Sopra invece si mette un grembiule nero, anch’esso ricamato, con tre pieghe orizzontali a balze, detto “s'antalena”.
Oggi il costume tradizionale si indossa solo in occasione di grandi feste popolari.

CARNEVALE

Quando la primavera è ancora lontana, l’uomo, almeno con lo spirito, tende a scacciare l’inverno. Lo fa con il Carnevale, il momento della trasgressione, quello in cui si realizza il desiderio di dimenticare gli affanni della vita. Dopo la grande guerra questa festa è andata in progressivo declino forse legato alle difficoltà economiche della società del dopoguerra ed è riesplosa nei primi anni cinquanta, quando sono state riproposte con maggior vitalità rispetto al passato numerose manifestazioni. Si rinnova il rito pagano della gioia che coinvolge grandi e piccini e li accomuna nel condannare a morte un fantoccio di pezza, simbolo delle tristezze quotidiane. Alcune notizie al riguardo, sono state raccolte dagli alunni della IV^ classe elementare di Ilbono con le insegnanti Usai, Cordeddu e Spanu. Le riportiamo qui di seguito.
“Il Carnevale aveva inizio il primo giorno dell’anno. Tutte le domeniche, successive al Capodanno, venivano festeggiate fino alle Sacre Ceneri, con la partecipazione di tutto il popolo che cantava e ballava . Si riunivano in “Su Solocciu”, che era una grande stanza messa a disposizione da un privato, qui si ballavano i balli sardi e si cantava fino a tardi. Per quanto riguarda i balli c’era un rito particolare da rispettare: l’uomo, poggiando delicatamente la mano sulla spalla di una donna, poteva invitarla a ballare una sola volta, se la donna non accettava l’invito di quell’uomo, non poteva ballare nemmeno con altri.
I festeggiamenti venivano organizzati dal comitato degli “Obbrerisi”, otto ragazzi che avrebbero più tardi organizzato anche quelli della Madonna delle Grazie.Il martedì grasso, cioè l’ultimo giorno di Carnevale, ci si mascherava con stracci e costumi tipici del paese e si andava in giro per le vie, fermandosi ogni tanto a ballare. Ci si divertiva tirandosi le giacche a vicenda , spruzzandosi acqua dopo aver fatto finta di scattare le foto, facendo spaventare i bambini o annunciando a tutti finti fidanzamenti. Si mascheravano solo gli uomini mentre le donne si preoccupavano di preparare dolci tipici da offrire alle maschere “culurgionis de mendula, orrubioloso, sippulasa de ferru, gattoù”.Alcune maschere erano proprio particolari! C’era: s’Ursu, sa Filongiana, su Orruinosu, su Sonajau e ancora is Carottese e su Maimone.

S’URSU: era un uomo travestito da orso, con una pelle d’asino o di montone che lo copriva e una lunga catena in vita che serviva a trattenere la sua aggressività; aveva un aspetto orribile e si divertiva proprio a spaventare la gente.
SA FILONGIANA: era un uomo che si vestiva con stracci e uno scialle nero; aveva l’aspetto allegro e divertente di una vecchietta che filava la lana con il fuso.
SU ORRUINOSU: era un uomo che aveva l’aspetto di un malandato vestito di stracci scuri come la ruggine; fingeva di chiedere l’elemosina e si grattava in testa perché aveva i pidocchi.
SU SONAJAU: era un personaggio molto rumoroso perché aveva sulle spalle tanti campanacci (is pittaoloso) e mentre passeggiava si agitava in continuazione.
IS CAROTTES: erano uomini che si mascheravano in modi diversi con stracci vecchi, costumi sardi tipici, pelli di pecora e il viso coperto. Il loro aspetto era pauroso e trasandato e alcuni si munivano anche di bastoni e zappe.
SU MAIMONE: era un fantoccio di paglia preparato da is Obbrerisi. Aveva come testa una zucca vuota sulla quale venivano disegnati occhi, bocca e naso e portava un grande cappello; aveva una botte dentro la pancia, un fucile a tracolla e le cartucce in vita. Dopo averlo sistemato sopra un asino con le braccia aperte, is Obbrerisi davano inizio alla sfilata per le vie del paese, seguiti dalle altre maschere. Le donne, al loro passaggio, offrivano ciò che avevano: dolci, prosciutti, formaggio, pistoccu, olio e infine vino, che si versava sulla pancia de su Maimone. Tutto questo avveniva l’ultimo giorno di Carnevale di pomeriggio.
Arrivata la sera, su Maimone veniva processato sulla piazza principale del paese. Veniva accusato dalla popolazione di imbrogli, di fatti spiacevoli (veri o inventati; seri e scherzosi) accaduti durante l’anno appena trascorso nel paese di Ilbono. In questo “processo” c’erano: giudice, testimoni, accusatori, difensori, e veniva fatto un formale dibattimento. Alla fine, su Maimone veniva condannato al rogo e bruciato nella pubblica piazza. Il Carnevale veniva accompagnato dalla musica dell’armonica, de su sulittu (flauto) e dai muttettoso, (versi in rima inventati sul momento).Un’altra usanza era quella della Pentolaccia che si festeggiava la domenica dopo le Sacre Ceneri.Si riempivano tre pentole di terracotta con caramelle e topi vivi e venivano appese; le persone che partecipavano, a turno, con gli occhi bendati, cercavano di colpire le pentole con un bastone.

Le festività religiose tra sacro e profano

Strettamente legate alle tradizioni locali, sono le feste religiose, alcune non più sentite particolarmente come quelle di San Pietro e San Rocco; altre invece come quelle della Madonna delle Grazie, dell’Assunta e del Corpus Domini rivestono per la nostra comunità un’importanza fondamentale come momento di aggregazione e di pieno rispetto dell’antica tradizione. Le sagre sono infatti ottime occasioni per dare risalto al folclore, poiché oltre al svolgersi nel loro ambiente naturale, assicurano molto spesso la presenza di gruppi in costume che possono così esibirsi, nel modo più autentico favorendo una affascinante presa di contatto con le tradizioni di altri centri.

La Settimana Santa e la Pasqua
Molti studiosi affermano che i riti della Settimana Santa in Sardegna, sono stati introdotti dalla dominazione spagnola nel 1400 e che in seguito siano state però influenzati dalla tradizione sarda. Infatti i riti della passione di Cristo si fondono armoniosamente con gli usi e i costumi del passato, in perfetto connubio tra sacro e profano, collegati al ciclo dell’attività agro-pastorale, col risveglio della natura in primavera.
“Pasca manna”, ossia Pasqua grande, è così definita questa ricorrenza, per distinguerla dal Natale “Paschisgedda” ossia Pasqua piccola. Le funzioni religiose di questa festività sono più o meno uguali in tutta la Sardegna. A Ilbono i riti celebrativi iniziavano la Domenica delle Palme, quando per ricordare l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, avveniva “su ndellittu a porta”: i fedeli con il prete e le confraternite vestite di bianco uscivano dalla chiesa sul sagrato per la processione, chiudendo la porta. Dentro restavano i cantori a pregare e cantare in latino e ad aspettare il rientro dei fedeli. Allora il prete con la palma bussava per tre volte e i cantori alla terza volta aprivano, facevano entrare tutti e si celebrava la Messa. Il Giovedì Santo si faceva la processione e il Venerdì Santo si deponeva il Cristo nel sepolcro. Qui si sistemavano “is nennerese” ottenuti facendo germogliare dal mercoledì delle Ceneri, dei chicchi di grano in un piatto con bambagia, da tenere sempre umida, al buio. I chicchi, germogliando, assumevano un colore giallognolo, poiché veniva a mancare l’azione clorofilliana. Quest’usanza, indubbiamente pagana, ripropone il rito dei “giardini di Adone” della mitologia. Si celebrava poi la deposizione nel sepolcro. Dal Venerdì Santo inoltre venivano legate le campane in segno di lutto e al loro posto i ragazzini suonavano “is caragoloso, is sicchirriasa e sa matracca”. Intanto si preparavano i dolci tipici: “pardulasa” e il pane “su pani pintau” al quale se si applicava un uovo sodo, era “s’anguli e coccoi” per i più piccoli. “Anguli” trae origine dall’arabo angul, anche se a portarlo in Sardegna dall’Arabia, sono stati gli aragonesi. Il giorno di Pasqua al suono delle campane a tutti i simulacri presenti in chiesa venivano tolti i veli color viola che avevano tenuto per tutta la quaresima e si preparava la processione. Allora come oggi il momento culminante è “s’incontru” tra la Madonna e Gesù risorto che avviene nella via Roma.

Corpus Domini
Corpus Domini è la festività cattolica che ricorda la celebrazione dell’Eucarestia. Cade il secondo giovedì seguente alla Pentecoste o la domenica successiva. Ad Ilbono questa festa ha rivestito sempre tanta importanza, coinvolgendo anche i ragazzi. I preparativi iniziavano dal giorno prima, quando proprio i ragazzi andavano al fiume a raccogliere le felci, da stendere sulla strada, come un tappeto su cui sarebbe passata la processione col Santissimo. Le donne sceglievano nel corredo i ricami e i pizzi più belli per fare le cappelle: piccoli altarini allestiti negli angoli di varie strade.
A questi preparativi ci si dedica ancora oggi col massimo impegno e con un po’ di competizione. L’altarino veniva abbellito con vasi di fiori, statuette della Madonna o del Sacro Cuore. Al passaggio della processione dai balconi e davanzali delle case, sui quali venivano stesi i capi più belli del corredo, i bambini lanciavano manciate di petali di fiori. Terminata la processione, i ragazzi responsabilizzati al massimo, raccoglievano le felci, che avevano difeso con le ortiche da coetanei “predatori” e le conservavano sino alla notte di San Giovanni, quando ormai secche, venivano bruciate nel proprio rione. Saltare il fuoco, tra il fumo acre, era bene augurante.

San Giovanni
Un’altra tradizione molto sentita, anche se alquanto profana, era quella legata alla festività di San Giovanni Battista. Quella notte ha rappresentato a lungo un’occasione per far sbizzarrire la fantasia delle giovinette ed alimentare o deludere i tanti sogni matrimoniali. Infatti per quell’occasione le ragazze da marito, si recavano in gruppo durante la notte, in campagna; scherzavano, ridevano, e si rotolavano nei prati perché il Santo le aiutasse a trovare un marito che le proteggesse per tutta la vita. Poi si riunivano sotto un albero e delimitavano uno spiazzo. L’indomani mattina tornavano sul luogo e osservavano con attenzione quale animaletto si trovasse dentro: se c’era una formica il fidanzato sarebbe stato un pastore; se c’era uno scarabeo, sarebbe stato un contadino e così via per altri animaletti.

Madonna delle Grazie

La più importante di queste è quella della Madonna delle Grazie che si festeggia la prima domenica di Luglio. E' una celebrazione solenne che si ripete da secoli in onore della Madonna invocata anche dai paesi vicini, che si apre con un vespro, cui partecipano appunto tante persone di fuori. Il culmine della manifestazione è la processione affollatissima, che parte da Piazza di Chiesa col simulacro addobbato di moltissimi oggetti d’oro o argento che sono stati offerti per grazie richieste o ricevute. La Madonna viene trasportata da un carro a buoi, anch’esso abbellito da drappeggi e fiori come: ortensie, rose, margherite ecc.. Precedono il simulacro gruppi di persone vestite con il tradizionale costume sardo e con torte o dolci vari come amaretti, bianchini, pani de congiu, ecc. che dopo la processione vengono dati in offerta. Il percorso è allietato da canti, preghiere e scoppi di fuochi d’artificio. Talvolta il corteo è aperto da parecchi cavalli addobbati da drappi e da fiori o addirittura da carabinieri a cavallo in alta uniforme.
La processione dopo un giro lunghissimo si conclude in chiesa, dove viene celebrata la messa cui partecipano molte persone. Dopo la messa si rientra a casa per festeggiare con i propri parenti, consumando cibi tipici della cucina locale: culurgioni, prosciutto, carne arrosto. Al pomeriggio i ragazzi che hanno ricevuto soldi in regalo dai parenti, vanno in giro per le bancarelle comprando torroni e caramelle. Più tardi ci si ritrova tutti al campetto vicino alla chiesa dove, al suono della fisarmonica, si balla il ballo sardo che ultimamente è tanto apprezzato proprio dai giovani, che stanno riscoprendo i pregi della tradizione popolare.

San Pietro, San Rocco e San Cristoforo
Anche le feste di San Pietro, San Rocco e San Cristoforo, benché sentite religiosamente dalle persone, si riducevano alla celebrazione della messa campestre, seguita da balli nel sagrato. Quando San Cristoforo si celebrava il 25 luglio si teneva anche una fiera con la partecipazione di molti forestieri.

La ricorrenza dei defunti
In tutte le parti della Sardegna, e quindi anche ad Ilbono, il 2 novembre c’era la consuetudine di fare elemosina e promettere preghiere in suffragio dei propri cari defunti. Questa usanza, “is animas”, si riteneva particolarmente efficace se le preghiere partivano dai più innocenti, ossia i bambini che molto volentieri, giravano per le case del paese dicendo:
<>, mostrando un telo fatto a mo’ di cestino chiuso da due nodi. Solitamente raccoglievano mele, noci, castagne, cachi, fichi secchi, “sa paniscedda” (il dolce dei morti); ringraziavano in nome delle anime defunte promettendo qualche preghiera.

Le superstizioni
Su tutte le tradizioni popolari, e quindi anche in quella ilbonese, erano presenti tanti aspetti superstiziosi che riguardavano la quotidianità e ai quali si attribuiva tanta importanza. Noi non vogliamo farne un elenco, anche perché di qualcuna ne abbiamo parlato nella parte relativa alle vicende umane, ed inoltre non ci pare contengano alcunché di peculiare.

Le Leggende
Secondo Ferdinando Gemina (1930) la leggenda è <>. In effetti, si tratta di racconti che pur prendendo spunto da un fondo di verità, vengono alterati dalla immaginazione a tal punto da non trovare riscontro in alcun documento autentico. Si può risalire addirittura alle origini del mondo per attribuire la forma della Sardegna al Sandalo del Creatore; la costruzione dei nuraghi alla genialità di Dedalo; quella delle tombe dei giganti all’esistenza di esseri umani preistorici di dimensioni tali da richiedere sepolcri adeguati; coinvolgere la mitica Diana in quelle “domus de janas” in cui sarebbero vissute piccole fate impegnate a filare e tessere su telai d’oro, talvolta anche incantatrici, col potere di fare doni agli uomini, ma anche di portarli alla pazzia e alla morte. Molte leggende sono permeate di paganesimo e subiscono l’influenza della superstizione, alla stessa stregua delle credenze sulla nascita o dei rituali del matrimonio. La stragrande maggioranza delle leggende è in stretta connessione con la religiosità dei sardi.
A subire l’influenza di questo sentimento di fede sono state molte di quelle pietre alle quali il culto pagano aveva dato un significato fallico fecondatore e che, con il Cristianesimo, hanno assunto il ruolo di esseri umani pietrificati da Cristo, dalla Madonna o dai Santi, perché si erano mostrati irriguardosi nei loro confronti, oppure avevano dimostrato avarizia, rifiutando elemosine. Forse a questo concetto è ascrivibile la leggenda di Perdu Palitta e Mariancani. Altre volte le leggende si originano da ritrovamenti di statue come appunto quella della nostra “Madonna delle Grazie”. Ambedue le hanno raccolte dalla voce degli anziani e raccontate gli alunni della V^ elementare con l’aiuto dell’Insegnante Maria Mereu.

Leggenda di Nostra Signora delle Grazie
Era l’anno 1600 circa, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Il cielo era azzurro; qualche nuvola bianca vagava nel cielo; il mare era calmo; il sole brillava come una gemma.
Una nave di pirati molto avari veleggiava lungo le bellissime coste del Mar Mediterraneo, in cerca di razzie. I loro sguardi avidi furono immediatamente attratti da una meravigliosa chiesa, posta su un’altura. I pirati presero quella direzione e decisero di saccheggiarla. Mentre compivano quella razzia, trovarono una bellissima cassa di legno e, convinti che contenesse un vero tesoro, la rubarono. Così si avviarono alla loro nave convinti di essere diventati ricchi. Navigarono ancora per alcuni giorni diretti verso la loro patria, soddisfatti di ciò che avevano fatto. Quando furono vicini alle stupende coste della Sardegna, si scatenò un’orribile tempesta e il vento impetuoso fece infuriare le onde, che divennero minacciose e terribili. Il cielo si fece cupo e si diffuse una fitta nebbia. Il capitano, preso dallo spavento, nel tentativo di scongiurare il naufragio, ordinò di buttare in mare tutto ciò che appesantiva la nave. I pirati, presi da un forte panico, decisero di buttare tutte le cose possibili. Fra queste, con loro grande dolore, dovettero gettare anche la grande cassa, che secondo loro conteneva un vero tesoro. La nave si spostava da un posto all’altro, trasportata dalle onde impetuose, i pirati si abbracciavano e invocavano l’aiuto divino. In quel terribile momento, il tesoro più grande era la salvezza della vita, ormai in grave pericolo. La cassa, caduta in mare, scomparve agli occhi dei pirati, che la seguirono con grandissima tristezza, vedendo scomparire con essa tutte le loro speranze di ricchezza. La tempesta, non si sa come, cessò d’improvviso e i pirati, a braccia aperte, ringraziando Dio, continuarono a navigare senza più rimpiangere la cassa misteriosa, ormai perduta per sempre. Ma la cassa continuò il suo viaggio calmo e tranquillo con una direzione ben precisa: la Sardegna, anzi, più precisamente la bellissima spiaggia di Cea, in Ogliastra. Quel giorno, nei pressi di quella spiaggia, un gruppo di contadini era intento a mietere il grano. Erano Ilbonesi, Arzanesi, Villagrandesi, Elinesi, Lanuseini. Vicino a loro, c’erano anche dei pescatori di Tortolì. Qualcuno di loro sollevando lo sguardo verso il mare, vide qualcosa di misterioso, portato dalle onde, che si avvicinava sempre di più alla spiaggia. I contadini, impauriti, pensavano che si trattasse di un mostro marino. Immediatamente, tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze accorsero per vedere cosa fosse: era una cassa di legno, che, tutti insieme strapparono alle onde. Credevano forse che potesse contenere un tesoro, che li avrebbe arricchiti. Immediatamente, tentarono di aprirla, con difficoltà e ci riuscirono con fatica. Tra lo stupore e lo sbigottimento, videro che la cassa conteneva una splendida statua della Madonna col Bambino in braccio. I contadini volevano la statua ognuno per il proprio paese e iniziarono immediatamente a litigare. Dopo molte discussioni, pensarono di far decidere alla sorte la destinazione della statua. Stabilirono di caricarla su un carro trainato dai buoi e, là dove essi si fossero fermati, la statua sarebbe rimasta. Pregarono e si affidarono al volere divino. Si dice che il carro ed uno dei buoi appartenessero agli antenati di Battista Loi, residente in Via Crispi ad Ilbono. L’altro bue apparteneva ad un’altra famiglia non ilbonese. I buoi presero la strada per Tortolì e i pescatori che vi abitavano cercarono di spingere il carro verso la loro chiesa, ma inutilmente: i buoi presero risolutamente la strada verso il centro dell’Ogliastra. Arrivati al bivio di Villagrande, i villagrandesi ripeterono il tentativo di far andare i buoi verso il loro paese, ma i buoi, imperterriti, continuarono la strada per Ilbono. Secondo un’altra tradizione, il tentativo di dirigere la marcia dei buoi verso i paesi dei vari gruppi di contadini si sarebbe verificato anche prima di Barisardo, nel bivio di Gelenuni, in quello per Tarè e nella strada di Parendaddai. Ormai sembrava che la Madonna avesse scelto la sede per la sua statua: la chiesa di San Giovanni Battista di Ilbono. Lì, infatti, si fermarono i buoi. Diffusasi la notizia di tale evento, tutti gli ilbonesi si riversarono nella chiesa parrocchiale, commossi ed entusiasti. Pregarono con viva fede e diedero alla statua il titolo di Madonna delle Grazie. Da allora la invocarono con tale nome e la Madonna, come Madre amorosa, concesse e continua a concedere numerose grazie ai fedeli. La statua sarebbe arrivata ad Ilbono il due luglio dell’anno milleseicento, alle ore undici. Da allora è in tale data che ancora oggi si celebra la festa della Madonna delle Grazie e la processione inizia alle undici. L’arrivo del simulacro ad Ilbono suscitò un profondo senso religioso. Si approfondì la devozione alla Madonna, si fece a gara per essere chiamati come “obrieri” ad organizzare la festa del due di luglio e, anche negli anni più difficili, quali quelli di guerre e carestie, si cercò di rendere ricca e bella la giornata dedicata al culto della Vergine. Da quel periodo si diffuse l’uso del nome Grazia e Maria Grazia, non solo ad Ilbono, ma anche in tutto il circondario. Dai paesi vicini i fedeli, a piedi, arrivavano fin dalle prime ore per pregare e chiedere la protezione della Madonna.

LEGGENDA DI PERDU PALITTA E MARIANCANI
Tanti e tanti secoli fa, una giovane coppia di sposi, Perdu Palitta e Mariancani, abitava in una capanna situata in una fertile collina non lontana dalla splendida zona nuragica di Scerì. I due sposi lavoravano sodo per procurarsi il cibo di tutti i giorni, perché erano assai poveri. Ma si volevano molto bene e questo era tutta la loro ricchezza. La mamma di Perdu, che abitava in una capanna non lontana, era molto religiosa e tutti gli anni, per la festa di Sant’Antonio, preparava “sa paniscedda” per le anime, perché fosse distribuita all’ingresso della chiesa, alla fine della messa, a tutte le persone che erano presenti. La chiesetta di Sant’Antonio era situata in zona Tarè, con precisione nella valle tra i due monti (Intramontes). La mamma di Perdu, anche quell’anno, aveva preparato “sa paniscedda”, però era un po’ anziana e non ce la faceva, non tanto a camminare, quanto a portare pesi. Allora chiamò Perdu e gli affidò l’incarico di portare i dolci, con l’impegno di non mangiarne per strada, ma di distribuirli tutti a beneficio delle anime dei morti. Perdu accettò l’incarico e lo propose alla moglie Mariancani, che acconsentì. Così la mattina successiva, al canto del gallo, la donna si mise il canestro in testa, presero pane e formaggio per il loro pranzo e partirono. Cammina cammina, attraversarono valli e colline, videro piante e fiori di ogni tipo e animali di ogni dimensione: cinghiali, mufloni, daini, cervi, volpi, e tutti, al loro passaggio, si nascondevano. Finalmente arrivarono sulle rive di un limpido e splendente ruscello, dove trovarono un bellissimo bambino, dagli occhi azzurri e dai capelli biondi e lunghi che gli ricadevano sulle spalle. Il bambino si avvicinò e sentì il profumo e la fragranza “de sa paniscedda” ancora fresca. Aveva molta fame e chiese da mangiare dicendo:
Perdisceddu, Perdisceddu,
donamindi unu ‘nconeddu,
donamindi pagu pagu.
Impara a donai
E non bollas mai
Tottu a sa sola.

I due sposi compresero bene il discorso, ma allo stesso tempo, ingordi ed avari, si scusarono dicendo che non avevano niente da dargli e avevano fame anche loro. Lasciarono il bambino piangente e, senza nessuna preoccupazione, continuarono la loro strada. La strada cominciò ad essere in salita, quindi più difficoltosa, perciò la stanchezza e la fatica si facevano sentire sempre più. Arrivarono ad una limpida sorgente e, poiché erano sudati, si diedero una buona rinfrescata e si riposarono all’ombra di una grande quercia. A quel punto, non si sa da dove, sbucò un vecchietto, vestito di stracci, coperto di rughe e di piaghe, appoggiato ad un bastone e tutto zoppicante. Si avvicinò al canestro di Mariancani e sentì il profumo “de sa paniscedda”, si leccò le labbra e, con un grande languore allo stomaco, perché aveva molta fame, chiese qualcosa da mangiare dicendo:
Perdisceddu, Perdisceddu,
donamindi unu ‘nconeddu,
donamindi pagu pagu.
Impara a donai
E non bollas mai
Tottu a sa sola.

Perdu Palitta e Mariancani si scusarono dicendo che non avevano cibo, ma solo pietre di porfido rosso e, senza avere la minima premura per il povero e senza avergli prestato il minimo aiuto, ingordi e incapaci di condividere, continuarono la loro strada, finché arrivarono nella piazza della chiesa di Sant’Antonio, il santo che aveva rubato il fuoco dall’inferno per portarlo agli uomini.
La piazza era gremita di persone, cavalli, asini e animali di tutti i tipi. Perdu Palitta e Mariancani vi erano arrivati al momento giusto per ascoltare la messa mattutina e distribuire “sa paniscedda” a favore delle anime, ma, non si sa se per combinazione o per volere divino, i due si persero di vista. Mariancani, con il canestro in testa, andò da una parte, mentre Perdu, alla ricerca di Maria, andò verso un’altra. I due giovani si cercarono e si chiamarono a vicenda, ma tutto fu inutile. Si addentrarono in un bosco oscuro, molto fitto, e lì vagarono tutto il giorno e tutta la notte successiva, senza ritrovarsi e affrontando molte difficoltà. Nel frattempo arrivò alla chiesa di Sant’Antonio la madre di Perdu. Quanto grande fu il suo dolore, quando si accorse che “sa paniscedda” a beneficio delle anime non era stata distribuita e che Mariancani e Perdu erano introvabili! La povera donna, disperata, cominciò a cercarli e a chiedere a tutti:
A Mariancani e Perdu Palitta
bittusu mi ddu seisi, andànduru a missa?
Bittusu mi ddu seisi, andanduru a baddai
A Perdu Palitta e a Mariancani?

Arrivate le prime luci dell’alba, Mariancani, presa dalla disperazione e dalla forte stanchezza, si sedette su un masso. In quello stesso istante, Perdu scivolò e smosse delle pietre, che incominciarono a rotolare. Mariancani, attratta dal rumore, sollevò lo sguardo e vide Perdu che si avvicinava. I loro occhi si illuminarono di gioia e si riempirono di lacrime. Si abbracciarono e si fecero festa a vicenda. Allora, essendo molto affamati, ma felici per lo scampato pericolo, i due si sedettero e incominciarono a mangiare. Mangiarono prima il pane e il formaggio che avevano portato per il pranzo, ma poi, con grande ingordigia, mangiarono anche tutta “sa paniscedda” che doveva essere distribuita per le anime. Ormai sazi e riposati, stavano per riprendere il cammino, quando furono avvolti da una luce sfolgorante. I due, spaventati, si alzarono in piedi e cercarono di scappare. Ma apparvero subito il bambino dagli occhi azzurri e il vecchio appoggiato ad un bastone. Insieme urlarono:
Scomunigada, scomunigau,
poite non eisi ascurtau
su prantu e i su lamentu
in perda siaisi furriausu!

Così i due sposi furono trasformati in due grandi massi di porfido rosso, sotto lo sguardo atterrito della madre di Perdu, che in quel momento li aveva finalmente raggiunti. La madre comprese il loro errore e la punizione divina. Piena di dolore ma rassegnata, ritornò nella sua capanna e continuò ogni anno a fare “sa paniscedda” in favore delle anime del purgatorio, finché visse, ma non le affidò più a nessuno e, sempre, a cavallo di un asinello, raggiunse la chiesa per distribuire i dolci.
Nasce forse da qui l’usanza, ancora seguita in alcuni paesi dell’Ogliastra, di distribuire “sa paniscedda” a tutti i fedeli che partecipano alla messa per la festa di Sant’Antonio Abate. Riguardo alle due “statue” in porfido rosso, chi vuole e può arrampicarsi sul costone di monte Tarè, dal lato verso Barisardo, può ammirarne ancora una in piedi (Mariancani), mentre Perdu, colpito da un fulmine, si è rovesciato. Forse questo è successo perché non si era ancora pentito! Mariancani si può ammirare anche passando per la vecchia strada che congiunge Loceri con Lanusei. Di questa leggenda esistono diverse versioni, tutte diverse tra loro nei particolari. Hanno in comune il nome dei personaggi, la trasgressione e la punizione divina e, per la maggior parte, anche “sa paniscedda”.

La “medicina” nella tradizione popolare

Anticamente gli ilbonesi per curare i loro malanni non si limitavano soltanto all’uso delle erbe, ma facevano ricorso a tutto ciò che era ritenuto capace di procurare la guarigione. Si passava così, con la massima disinvoltura dall’acqua ai rituali magici, dalle superstizioni alle invocazioni a Dio e ai Santi. Purtroppo per tanti anni certe credenze e certe pratiche, hanno costituito parte integrante della cultura del paese, dalle quali è però opportuno “staccarsi”. Su questo argomento noi ragazzi abbiamo raccolto numerose testimonianze fra i nostri anziani, ma d’accordo con i nostri docenti, abbiamo deciso di non riportare notizie perché siamo convinti della non bontà di certe pratiche e poi…….. perché ci reputiamo “moderni”. Siamo però convinti che curarsi con le erbe non significa regredire nel tempo, pensiamo all’omeopatia, ma anche cercare nella natura un aiuto alla medicina scientifica. Ecco di seguito un elenco di alcune piante e di ricette curative da quelle ricavate così come le preparavano i nostri anziani. Le hanno raccolte gli alunni della 5° elementare a.s. 1997/1998 con le insegnanti Anna Delogu, Lina Pirarba e Mariella Congiu.

ALLORO (laueru)
Digestioni difficili: preparare una tisana facendo bollire otto foglie e due scorzette di limone per cinque minuti; far intiepidire, filtrare e berne un bicchiere con aggiunta di zucchero.
Tosse: far bollire alcune foglie in acqua, aggiungendone alcune di menta e d’eucalipto; filtrare e bere la tisana ben calda prima di andare a letto.
Sudore ai piedi: preparare un decotto a base di bacche, quando è tiepido immergervi i piedi.
Reumatismi e contusioni: si versano alcune bacche secche in un vasetto d’olio e all’occorrenza frizionare sulla parte interessata.

CICORIA (cicoria)
Intossicazioni: si fa un decotto di foglie o radici, si filtra e si beve tiepido.
Cistite: si prepara un decotto di radici, si aggiungono gramigna, orzo e parietaria; si filtra e si beve.
Carenza di ferro: si fanno lessare le foglie in acqua, si scolano, si fanno raffreddare e si mangiano condite con olio e sale.

SAMBUCO (samuccu)
Ascessi: fare un cataplasma di foglie fresche pestate ed applicarlo sulla parte interessata.

EQUISETO-Coda cavallina (erba de neu)
Disfunzioni epatiche ed anemie: mettere sul fuoco una pentola con due litri d’acqua, portarla ad ebollizione e aggiungere un’abbondante manciata di foglie secche e far bollire per venti minuti tenendo il recipiente coperto. Far intiepidire e filtrare; versare in una bottiglia e conservare in luogo fresco; berne tre bicchieri al giorno: uno a digiuno la mattina, uno prima del pranzo e uno la sera prima di andare a letto.

EUCALIPTO (ocalittu)
Mal di gola, tosse, raffreddore, stomatite: si porta ad ebollizione un litro d’acqua e versare una manciata di foglie secche di eucalipto, due scorze d’arancia, un quarto di mela cotogne, due fichi secchi. Lasciar bollire per cinque minuti, filtrare e bere caldo con l’aggiunta di un cucchiaino di miele.

FINOCCHIO (Frenugu)
Alitosi: preparare un decotto di semi in acqua; fare intiepidire, filtrare e berne una tazza da caffè alcune volte al giorno.
Disturbi digestivi: preparare un infuso di semi in acqua; lasciare riposare alcuni minuti, filtrare, zuccherare e berne una tazza.
Ascessi: preparare un cataplasma con foglie bollite in poca acqua ed appoggiare sulla parte interessata.

MALVA (narbedda)
Ascessi e mal di denti: si prepara un cataplasma di foglie e fiori e si applica sulla parte interessata.
Disturbi gastrointestinali: si beve a digiuno un decotto di foglie e radici.
Eccitazione nervosa: si prepara un infuso di foglie e fiori; si fa intiepidire e si beve.
Infezioni: far bollire le parti tenere della pianta in acqua; far intiepidire, filtrare il liquido e fare degli impacchi sulla parte interessata.

ORTICA (orciada)
Epistassi: pestare in un mortaio foglie e steli in abbondanza. Inzuppare dei piccoli batuffoli di cotone nel liquido ottenuto ed infilarli nelle narici.

PARIETARIA (erba ‘e entu)
Raffreddore: versare in acqua alcune foglie di parietaria, alcune foglie di arancio e un rametto di edera; portare ad ebollizione ed aspirarne i vapori (suffumigio).

ROSMARINO (orromasinu)
Catarro: si aspirano per alcuni minuti i “fumi” gettando su una lastra metallica calda delle foglie secche.

SALSAPARIGLIA (teti)
Artrite e nevrite: preparare un decotto, far bollire per una decina di minuti due cucchiai di radice essiccata in un litro d’acqua, lasciare riposare per un quarto d’ora, filtrare e berne mezza tazza due volte al giorno lontano dai pasti.

SALVIA (salvia)
Mal di testa: mettere sul fuoco un tegamino con un quarto di litro d’acqua, portarla ad ebollizione e aggiungere 30 grammi di foglie di salvia; lasciare in infusione cinque minuti, filtrare, zuccherare e bere.

PROVERBI E DETTI

Sono certamente le secolari esperienze di vita ad aver suggerito all’uomo quell’infinita varietà di proverbi che spazia in tutti i campi dello scibile. Se ad essi si aggiungono i modi di dire che l’arguzia popolare ha sempre saputo trarre da molti eventi (da quelli storici fino alle calamità naturali), ci si ritrova con una quantità tale di materia prima veramente notevole. Quelli che noi abbiamo raccolto sono per lo più diffusi in tutta l’isola, anche se il modo di esprimersi varia da una località all’altra. Ecco come noi li ripetiamo a Ilbono:

PROVERBI
Arbili ognia lepore torrada a coili.
Lampadasa, cini non moridi campada.
Beranu forte, trigu a corte.
De paschixedda in susu friusu e famini in prusu.
Cini corcada cun is canisi sindi artiada puligiosu.
Candu su figiu erricada, peri su babbu impiccada.
A su sole de marsu faeddi de passu.
A su sole de arbili circa de di fuiri.
A su sole de mau apparaddi costau.
Marsu prugada e arbili tudada.
Sa canna prusu arta este sa prima ci tontonada.
Sa brocca lompede a funtana finu a candu non si scioppada.
Finu a candu non bisi su santu, non crese a sa festa.
Auredu auredu si faidi s’umbudeddu.
De mandai malu cumissu mellus ci di andidi issu.
A cini curridi centu lepporese non di curridi mancu unu.
Narami cun cini abitasa ca ti nau eccini sese.
A sa cosa arregallada non si separa pilu.
S’erriu mudu s’ommini indi liada.
Mellusu pilloni tentu chi non bolandu centu.
Mellusu ai strintu in domu sua ci non ai largu in domu agena.
Saccu irboidu non abbarrada stantargiu.
Pilloni chi non biccada adi giai biccau.
Su cuaddu friau sa sedda di toccada.

DETTI
Non agattai abba in mari.
Piga fama e corcadì.
Giai sese cortesu.
De sa cancala a s’arrabiu.
Unu malu s’attru peusu.
Po s’amor’e Deusu.
Non sperrasa una faa.
Pagu genti, mellu vesta.
Centu concasa, centu berrittasa.
Fattu e lassau.
Sa matta torta s’aderessada a pitica.
Cun maccusu e cun santusu non faidi a brullai.
Tristu e miserinu ti ettada funi a corroso.

Stagioni
Beranu - Primavera
Istadi - Estate
Atongili - Autunno
Ierru - Inverno

Mesi
Gennargiu - Gennaio
Freargiu - Febbraio
Marsu - Marzo
Arbili - Aprile
Mau - Maggio
Lampadasa - Giugno (Per i falò che si accendevano per San Giovanni il giorno 24)
Mese e orgiolas - Luglio (Trabbiature nelle aie “orgiole”)
Austu - Agosto
Cabudanni - Settembre
Mese e ladamini - Ottobre (concimazione dei terreni)
Donnissanti - Novembre
Mese idasa - Dicembre (forse in coincidenza con le idi romane di questo mese)

Giorni della settimana
Lunisi - Lunedì
Martisi - Martedì
Mercurisi - Mercoledì
Giobia - Giovedì
Cenarba - Venerdì
Sabadu - Sabato
Dominigu - Domenica

LE FILASTROCCHE E I MUTTETOS

Le vicende dell’uomo dalla nascita all’età adulta sono state accompagnate in situazioni di gioia, ma anche di dolore, da filastrocche e mutteti. Le prime erano solitamente dei “nonsense” (senza un preciso significato) cantate o per far addormentare i bambini o come “conte” dai ragazzini durante i loro giochi. Ben diversi erano i “muttetos”, veri componimenti poetici in rima, spesso a tema preciso, che si cantavano nei momenti di festa o di allegria. Noi ne abbiamo raccolti tanti, ma presentiamo quelli che ci sono piaciuti di più.

Orrundili, orrundili
Orrundili, orrundili,
imparami a tundiri,
imparami a tessere,
quandu duada essere in punta e campanili,
ti dappu ad acciri con una scoppettada,
orrundili, orrundili
orrundili scoada.

Mariola, Mariola
Mariola, Mariola,
bai a Casteddu e bola,
e battimi s’aneddu,
s’aneddu pò sposai,
e ti dappu a pagai,
in dinai e in trigu,
Mariola, Mariola,
Mariola farigu.

Serra serraddu
Serra serraddu,
argentu e coraddu,
coraddu e argentu,
de liras centu,
e centu lirasa,
e duas pirasa,
piras de oro
seraccu bonu,
bonu seraccu,
non sias maccu,
maccu non siasa,
binu non biasa,
binu nieddu,
seraccu e Casteddu.

Cuccheddu cantada in Sarremasone
Cuccheddu cantada in Sarremasone,
beru ca sese indovinadore,
beru ca sese po mi indovinai
in santa Crara appu a intrai
in santa Crara e in santu Asili
po mi fai un cinsu fini
unu cinsu fini in sette cannacasa
in domu ‘e babbu du adi tre seraccasa
tre seraccas impari ci imparanta a nadari
a nadari in s’erriu
Cristolu bagadiu, bagadiu cent’annusu
fai su mesi in pannusu
su mesu in pannisceddoso
carriau de aneddos
de aneddos carriau
cantu funti costausu
tre liras e tre soddos
cambiausu is coddoso,
is coddoso e ir manus
ir bellos capitanusu
capitanusu de idda
ca pigada s’anguidda
s’anguidda salia
e cini i d’adi battia
Antonicu Cubeddu
cuddu ci non lassada
binu in su cubeddu
cuddu chi non lassada
binu in sa carrada
gomari Orrosa
in su lettu corcada
giopari Micheli
in sa matta de s’orgiola
pudda niedda a conca preugosa.

Anninnia Anninnia
Fida e consolu mia
bellu in trattu e in modu
de mamma su consolu
anninnia anninnia
bellu comente e coraddu
fida e consolu de babbu
anninnia anninnia
ses bellu che i s’oro
de mamma su tesoro
anninnia anninnia
che tesoro ses bellu
parisi unu gravellu
anninnia anninnia
i paridi un’errosa
cara luminosa
anninnia anninnia
luminosa sa cara
comente perla rara
anninnia anninnia.

Tittia, tittia
Tittia tittia
su frittu de cucca sia
de cudda sia strangia
ci ende castangia
a imbudu a imbudu
indi pigu unu scudu.

Su fogu
Tene, tene su fogu
ad’ a benne Antiogu
Antiogu Marani
e i di atti pani
pani infustu cun mele
su fogu tene, tene.

Dillulueddu
Dillulueddu et’appo agattau
dduasi s’amorosa cun s’innamorau
in d’una matta de murmureu
curridi e curridi su cuaddu meu
e ddu curridi piccioccu Stochinu
e curridi finasa a Barigau
dillulueddu et’appo agattau.

Pettena pettena
Pettena pettena
pilu e seda
pilu de colombu
faeddu longu
longu faeddu
comente sa coa de burrincheddu
comente sa coa de burricu mannu
faeddu longu
faeddu mannu.

Pibiri in sambani
Pibiri in sambani
andada in sambani
andada e benidi
in bia enidi
in bia torrada
passada e portada
passade ‘e manu
torru eranu
tottu austu
su peustu
su peali
spissula e cumanda e bai
a domu de nannai.

Bribilloi
Bribilloi bribilloi
una matta ‘e succaroi
una matta ‘e succarera
bribilloi caffettera.

Luna luna
Luna luna
donami fortuna
donami dinai
po mi coiai
po mi fairi bella
sa luna cun sa stella.

Agatta agatta
Agatta agatta
corru ‘e acca
corru ‘e boe
inditta mi ddoe
a santu Franciscu
ca no ddue ixiu!

Proe
Proe, proe
s’axina coe
proe, proe
s’axina manna
ca ind’app’a donai
a babbu e a mamma
e a manneddu
ca dda pappada
de piticheddu

Duru duru
Duru duru,
a sa pipia dda surranta puru
a sa pipia dda surranta a pala
po ndiddi essiri sa bettìa mala
po ndiddi essirisa mala bettìa
po no ddu fai a s’attera ìa
po no ddu fai a s’attera orta
tandu surrausu a pipia nostra.

MUTTETOS
Pilloneddos chi bolaisi
e cun is alasa de oro
deube este chi beineisi
pilloneddos chi bolaisi
si meisi bittu a coro
poite non mi naraisi
e cun is alasa de oro
poite nono mi naraisi
si meisi bittu a coro
deube este chi beneisi
poite non mi naraisi
si a coro bittu imeisi.

S’immagini de Maria
E s’immagini de Maria
i la tengo a conca e lettu
e in quadru de oro
e s’mmagini de Maria
a che angelu perfettu
tappu istuggiau in su coro
e cun vere simpatia
i la tengo a conca e lettu
e cun vera simpatia
tappu istuggiau in su coro
e che angelu perfettu
e in quadru de oro
e che angelu perfettu
e cun vera simpatia
tappu istuggiau in su coro.

Sonetto

A Ilbono
Ilbono de coros dulches se reina
e dae passionese ses funtana
sa fama tua pomposa e galana
scaturidi che granitica aba fina.

Oe pro s’arte poesiana
non parede no chi este ozastrina
ma che gema ispeciale corallina
che este regalta de su fundu de soceanu

Tue possiedese fruttoso e armentoso
e giardinagiu de cada genia
passionese e ardidos sentimentoso
rancore infinitu e gelosias
pro chie agattada nobiles momentoso
po discurrere in sarda poesia.