LE VICENDE DELL'UOMO



La nascita

Anche nella tradizione del nostro paese, la famiglia ha sempre avuto notevole importanza: tanti figli significavano ricchezza, in quanto forza lavoro soprattutto nei campi. Lo affermava anche il proverbio "Cini indi tenede unu non di tenede manc'unu", quindi la nascita di un figlio era un momento di grande gioia e orgoglio che si manifestava offrendo da bere a parenti ed amici. Nelle consuetudini del passato, non rientrava naturalmente il parto in clinica privata o in ospedale. Il lieto evento doveva verificarsi entro le pareti domestiche, anche se ciò comportava l'allontanamento degli altri figli, e alla presenza della madre e della suocera della partoriente. Più tardi comparirà la figura de "sa maistra e partu", la levatrice, che si assumeva la responsabilità che sono attualmente prerogativa del ginecologo. Al massimo entro la prima settimana di vita, il bambino veniva battezzato, perché si aveva paura che se fosse morto senza aver ricevuto il sacramento , non sarebbe andato in paradiso. La vita della puerpera era inoltre considerata a rischio per quaranta giorni ("sa partera tenede sa tumba aberta po coranta disi"). La prima uscita infine aveva una meta obbligata: la chiesa, dove con la benedizione della messa lei si purificava. Non tutti i figli però avevano la possibilità di essere cresciuti nella agiatezza, ad esempio pochi avevano una culla, "su barsolu", o un corredino in lino già pronto; la maggior parte infatti veniva cullato da sorelle più grandi o dalle nonne che cantavano nenie e filastrocche tradizionali. Erano queste il primo dialogo col piccolo.

L'età dei giochi

Passato il tempo delle filastrocche, arrivava l'età dei giochi. C'erano i giocattoli più semplici, adatti appunto alla prima infanzia e quelli per bambini più grandi, che venivano realizzati o dai loro nonni o da loro stessi quando conducevano la capra al pascolo o andavano a lavorare i campi. Il materiale usato per la loro costruzione veniva solitamente recuperato in campagna: canna, ferula, sughero, sambuco, bacche di rovere : "is baccareddasa".
Indubbiamente il giocattolo più bello era "su carrucceddu e is boese", la cui costruzione richiedeva, oltre che tempo, intelligenza e impegno, anche vari materiali: canna, asfodelo, chiodi fatti sempre in legno. Sempre con la canna veniva costruito "su sulittu" zufolo semplicissimo con cinque buchi nella parte superiore e uno in quello inferiore.


Alcuni diventavano così bravi a suonarlo che le persone si mettevano a ballare festosamente. In legno era pure "sa bardunfula" una trottola realizzata avvolgendo uno spago nelle scanalature con un grosso chiodo nella punta. L'abilità consisteva nel lanciare la trottola a terra, trattenendo lo spago e facendo si che nel toccare il terreno con la punta, ruotasse su sé stessa. I maschietti inoltre giocavano con "su cuaddu de canna", una canna appunto, alla cui estremità applicavano una testa di cavallo in legno e con il quale facevano grandi corse e gare fra compagni. Sempre in campagna, un divertimento assai diffuso era: "su pindiligone", l'altalena odierna, realizzata legando due funi ai rami di un albero e applicandoci un sellino rudimentale. Più delicati erano indubbiamente i giochi delle bambine, che a casa recuperavano avanzi di stoffa "sappulisi" e con l'aiuto delle nonne si facevano le bambole: "pippiasa de sappulisi". Oppure raccoglievano i cocci dei piatti e si divertivano a fare le padrone di casa, imitando le mamme in cucina "su giogu de is cicciasa". Maschietti e femminucce giocavano insieme a sa "campana": per terra con un pezzo di carbone o con un rametto appuntito, si disegnava una campana divisa in dieci caselle; ogni giocatore aveva un sassolino piatto, che si tirava alla prima casella, si saltava con un piede sulla seconda e così via fino alla decima, dove si cambiava piede e si tornava indietro, sempre saltando con un piede solo. Se il sassolino usciva fuori dalla casella o toccava la riga, il giocatore perdeva e doveva far giocare gli altri, aspettando il prossimo turno. Si giocava anche a nascondino: "Attacca cuai" o anche "a tentu a tentu", l'acchiappa, acchiappa attuale. Negli spazi più aperti il gioco più diffuso era "su fusti e bara", con due bastoni, di cui uno più corto e appuntito nelle due estremità. Al centro del luogo in cui si giocava, si costruiva un cerchio: "sa bara". Il capo gioco, mettendosi al centro, prendeva in mano due bastoni e con quello grande dava un colpo a quello piccolo, lanciandolo lontano. L'altro giocatore, dal punto dove era arrivato il bastone piccolo, doveva rilanciarlo nella "bara". Se il bastone arrivava dentro, vinceva e buttava fuori il capo gioco; se invece arrivava lontano, si misurava col bastone lungo la distanza della "bara" e venivano attribuiti i punti in favore del capo gioco. Anche "a luna piena" giocavano indifferentemente sia maschi che femmine; si giocava in tanti e tutti i bambini si piegavano uno a fianco all'altro ad una certa distanza. Il primo della fila si sollevava e saltava tutti gli altri, poi occupava l'ultima posizione, mentre un nuovo compagno iniziava a saltare e così via in ordine gli altri. "Su giogu de sa cadiredda o de su sedasseddu" era un gioco invece tipicamente femminile: due bambine incrociavano le mani fra loro a mo' di sedia su cui si sedeva un'altra bambina e insieme cantavano: "su giogu de sa cadiredda ci non du olese torramindedda, ca mi da facciu a freguledda". Non mancava inoltre nei giochi dei ragazzini l'imitazione degli adulti: infatti giocavano spesso con il "fusili de canna" e "sa scopetta" coi quali immaginavano di andare a caccia appunto come gli adulti. Un discorso a parte, proprio perché usati solo durante la settimana santa, meritano alcuni strumenti che i ragazzini suonavano in sostituzione delle campane che venivano legate. Più precisamente il Venerdì e il Sabato santo, le strade del paese risuonavano dello stridere de "sa sicchirria e sa matracca" e del mugghiare de "su caragolu". "Sa sicchirria" veniva costruita con la canna che aveva ad un'estremità due fori rettangolari, dove veniva introdotta una ruota in legno seghettata che girava per mezzo di un bastoncino ben levigato che univa la ruota con la canna, quest'ultima veniva fatta girare velocemente con la mano e il rudimentale ingranaggio produceva rumore. "Sa matracca" era invece costituita da un pezzo di legno rettangolare di media grandezza, con impugnatura sulle cui facciate venivano applicate due maniglie in metallo; muovendo l'impugnatura, sulla tavola sbattevano le maniglie che producevano un forte rumore. Con "su caragolu", una grande conchiglia di murice, si otteneva un suono cupo e prolungato, soffiando dalla parte spezzata. Spesso capitava di vedere giocare maschietti e femminucce vestiti da fraticello o da suorina: i genitori preoccupati per le continue cadute rovinose o per sciogliere un voto decidevano di far loro indossare il saio per un determinato periodo di tempo.

L'età scolare

L'atto di nascita giuridico della scuola di base fu dato dalla legge organica Casati nel 1759 a cui seguirono nel 1880, come allegati al regolamento Generale, i programmi, estesi a tutte le regioni dell'Italia unificata. Nel 1866 scomparve la religione come insegnamento a sé, per essere esclusa dai programmi nel 1877 dopo l'ingresso di Porta Pia, quando il Papa, vietò qualsiasi collaborazione con lo Stato italiano. Al posto della religione venne adottato l'insegnamento dei "Diritti e doveri del cittadino". Con l'avvento della Sinistra al potere (1876) lo stato iniziò a collaborare con i comuni nell'aprire e gestire scuole popolari, con un compito educativo e formativo, oltre che istruttivo. Tutto questo portò ai famosi programmi del 1888, nei quali comparvero come materie a sé la geografia e la storia e per le classi superiori (4^ e 5^), nozioni varie. Dal 1900, infatti, le scuole elementari, ancora fino alla 3^ classe, furono portate fino alla 5^ classe. La I° guerra mondiale e il dopoguerra cambiarono la coscienza di molti popoli e le strutture di molti stati. Con l'avvento del fascismo, poi, Giovanni Gentile operò una vasta riforma della scuola e dopo il 1929 (Patti Lateranensi) venne reintrodotto l'insegnamento della religione. Nel 1934 i programmi vennero fascistizzati, ma con l'avvento della Repubblica la Costituzione dettò delle indicazioni che portarono alla suddivisione degli studi in due indirizzi: di avviamento e la scuola media. Ciò sino al 1962, perché nel 1963 furono istituiti i Nuovi Programmi coi quali la scuola Media diventerà obbligatoria. A dire il vero la nostra comunità ha seguito con molto ritardo le indicazioni Costituzionali, anche perché la realtà sociale del nostro paese era tipicamente agro-pastorale e frequentare la scuola era possibile per pochi: infatti la stragrande maggioranza della popolazione scolastica, per volere delle famiglie, accompagnava il bestiame al pascolo o lavorava nei campi come gli adulti. La Scuola Media di Ilbono, inizialmente sede staccata di Lanusei e poi di Arzana, diventerà autonoma nell'anno scolastico 1971-1972.

La scuola ai tempi dei nonni

La scuola al tempo dei nonni era molto diversa da quella di oggi. Prima di tutto perché l'edificio scolastico non era unico, ma ce n'erano due. Erano delle case prese in affitto, una in via Funtana 'e Idda e l'altra in via Roma.
Nella scuola in via Funtana 'e Idda si entrava da un portoncino e c'era un corridoio che portava a un cortiletto.
Vicino al cortile c'era una grande scala che portava alle aule. Nel sottoscala c'erano i bagni, ma, siccome la casa è stata ristrutturata, adesso della scala c'è solo il segno. Le aule erano due, però una delle persone intervistate, che abitava in quella via, ricorda che c'erano le prime classi (cioè prima e seconda). La prima aula partendo da sotto era pianellata; l'altra aveva il pavimento in legno e, siccome in alcuni punti c'erano dei buchi, i bambini, da sopra, lanciavano delle cose e quindi c'erano dei litigi fra la classe di sopra e quella di sotto. Le due aule erano abbastanza grandi, alquanto buie e fredde. Nelle aule non c'erano i termosifoni e i bambini dovevano portarsi da casa un barattolo con delle brace accese e, perché non si spegnessero, dovevano agitare il barattolo ogni tanto e a volte esso sfuggiva di mano e andava a finire sulla cattedra dell'insegnante. A volte veniva acceso il caminetto ed erano i bambini che portavano pezzi di legna da ardere per il camino, perché il Comune non la forniva. Gli arredi scolastici erano pochissimi: i banchi in legno erano molto lunghi e pesanti, dove si sedevano quattro o cinque bambini. Sul leggio c'erano sempre dei buchi tondi dove si metteva il calamaio con l'inchiostro, perché allora si usava la penna col pennino, che doveva essere bagnata nell'inchiostro. C'erano però anche banchi biposto. Altro arredo era la cattedra della maestra, che era un tavolo di legno messo su una predella. Nelle aule non mancava mai il crocifisso e il quadro del Duce (al tempo di Mussolini). In tutte e tre le aule di via Roma c'era uno sgabuzzino che i nostri nonni chiamavano "su presoneddu", dove venivano rinchiusi gli alunni indisciplinati. Le classi erano: prima, seconda e terza, che erano le più frequentate e avevano moltissimi alunni; la quarta e la quinta erano insieme, perché gli scolari che ci arrivavano erano pochi. A quei tempi molti bambini ripetevano la prima e la seconda anche quattro o cinque volte, sia perché frequentavano poco, in quanto erano costretti ad aiutare la famiglia nel lavoro dei campi o a portare la capra al pascolo, sia perché trovavano grande difficoltà ad imparare, forse anche per i metodi poco adatti. Stufi di ripetere le classi, molti scolari si ritiravano e imparavano a leggere e a scrivere da adulti, alla scuola serale o durante il servizio militare. Le materie erano: religione, canto, disegno e bella scrittura, lettura espressiva e recitazione, ortografia, lettura ed esercizi scritti di lingua, aritmetica e contabilità, nozioni varie e cultura fascista, geografia, storia e cultura fascista, scienze fisiche e naturali e igiene, nozioni di diritto e di economia, educazione fisica, lavori donneschi e manuali, disciplina (condotta), igiene e cura della persona. I bambini studiavano tutto a memoria ed erano molto più disciplinati di noi. A Ilbono c'era soltanto la Scuola Elementare e i pochi ragazzi che volevano continuare a studiare dovevano andare a Lanusei, dove c'erano le Scuole Medie. C'era l'Istituto Salesiano per i maschi e l'Istituto Maria Immacolata per le femmine. Erano scuole private e per frequentarle bisognava pagare. Anche per questa ragione erano pochi gli alunni che andavano oltre le elementari, e non certo i poveri. Durante il periodo fascista gli scolari erano obbligati a iscriversi al "Fascio", cioè alla Gioventù Italiana del Littorio. Così i maschietti si iscrivevano ai Balilla e le femminucce alle Piccole Italiane. I libri di testo erano tutti improntati alla cultura fascista ed erano strumento di propaganda per convincere i ragazzini e le famiglie che il fascismo avrebbe dato all'Italia e agli Italiani una nuova grandezza, superiore a quella di altri Paesi quali Francia e Gran Bretagna. Mussolini parlava molto e le sue parole venivano scritte nei libri dei Balilla e delle Piccole Italiane. Ad esempio, una pagina sempre presente nei libri di lettura era il giuramento dei Balilla e delle Piccole Italiane, che era: "CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE". Gli insegnanti dei Balilla e delle Piccole Italiane davano sempre molte punizioni. Facevano mettere i bambini in ginocchio sopra i ceci; li mettevano dietro la lavagna; gli facevano mettere le mani sopra il banco e gli pestavano le mani con la bacchetta. Tuttavia studiavano molto di meno. Le pagelle erano molto diverse dalle nostre. Ne abbiamo avuta tra le mani una che risale a prima del periodo fascista e, oltre ad avere lo spazio per i giudizi che i maestri davano agli scolari, contiene un lungo elenco de "I doveri dei genitori" e il "Decalogo del bravo scolaro". Evidentemente anche allora la scuola era un veicolo per raggiungere le famiglie e convincerle a seguire certi comportamenti che si riferivano sia ai doveri scolastici sia a quelli civici.


Il Fidanzamento

Se il matrimonio era la conseguenza ovvia del fidanzamento, era a quest'ultimo che si attribuiva un'importanza fondamentale. Infatti, a differenza di oggi, il giovane che era interessato ad una ragazza, non era mai sicuro di essere contraccambiato, per cui la sua domanda poteva venire anche respinta, con conseguente umiliazione e risentimento. Forse per questo, molto spesso si ricorreva all'intermediazione di un'altra persona, "su paralimpiu", che aveva il compito di sondare il terreno, verificare cioè se quel giovane poteva coltivare la speranza. In caso affermativo, egli inviava i propri genitori da quelli genitori della ragazza per "portai sa domanda", cioè per chiederne ufficialmente la mano. Molto cortesemente si rispondeva che si presentassero dopo qualche giorno per avere la risposta definitiva, "po ndi liai su foeddu seguru", sottintendendo così l'importanza del parere della ragazza. Acquisito il parere affermativo, il giovane veniva accolto nella nuova famiglia e poteva stare con la fidanzata, ma sempre sotto il controllo dei genitori di lei. La prima uscita dei due giovani assieme, solitamente in chiesa, ufficializzava il fidanzamento. Per quel giorno lo sposo portava alla sua donna "l'oro": più lo sposo era benestante, più numerosi erano i pezzi d'oro: solitamente due anelli , una spilla -"sa broscia"-, un'altra spilla fermascialle "sa agulla", gli orecchini -"is pittorigasa de arrellogiu"-, la catenina col ciondolo. Fino al giorno del matrimonio l'uomo si recava tutte le sere, al rientro dal lavoro, a trovare la sposa -"a abitai"- e a organizzare il matrimonio. Una settimana prima che questo venisse celebrato, si portava nella casa dei futuri sposi il corredo -"su bene"-, sistemato a vista in dei contenitori -"palinisi"-, poi deposti su un carro a buoi o portati sulla testa dalle ragazze. Lo scopo era quello di evidenziare la ricchezza e l'abbondanza del corredo stesso. In segno bene augurante una ragazza accompagnava il corteo con in braccio una gallina alle cui zampe venivano legati nastri rosa e azzurri. Giunti all'abitazione, nessuno doveva oltrepassare l'ingresso senza avere qualcosa in mano. Sistemato il corredo, due ragazze con i genitori viventi, preparavano il letto, sul quale poi facevano una capriola aiutate dalla sposa. La povera gallina, finalmente, veniva lasciata libera. In questo rituale era importantissima la figura della madrina della sposa che, entrando in casa chiedeva a voce alta: -Dove entriamo?- le rispondevano in coro -Nell'abbondanza-, cioè "in su mari prenu". Una ragazza sin da giovanissima, soprattutto se appartenente ad una famiglia benestante, si preoccupava di prepararsi gradualmente il corredo che era tessuto al telaio in lino e lana.
Proprio con il lino, oltre che tovaglie e lenzuola, si preparavano copriletto, strisce per il pistoccu, tende, ed altro. E' logico che per i capi più pregiati si utilizzava la fibra più sottile del lino, riservando quella più spessa per altri usi più resistenti. Col telaio inoltre si eseguivano fini lavori in rilievo, che davano più pregio al corredo. Con la lana si tessevano poi le coperte calde ma ruvide e pungenti e i copriletto pesanti dai caratteristici disegni: "sa manta de priali". Nei lunghi inverni, le donne, accanto al caminetto, preparavano coi ferri e con la lana grezza le calze ai propri uomini. La coltivazione e la tessitura del lino, è terminata dopo l'ultima guerra mondiale, quando ha iniziato a diffondersi la vendita delle stesse fibre naturali lavorate industrialmente. A quel punto è emersa l'operosità delle ricamatrici ilbonesi che hanno imparato l'arte dell'intaglio, del ricamo e in generale dell'uncinetto per completare i capi del corredo. Proprio la preziosità dei lavori, ha fatto conoscere Ilbono in tutta la Sardegna.

Il matrimonio

Finalmente il giorno fatidico! Lo sposo, accompagnato dai genitori si recava alla casa della sposa, la prelevava e insieme al corteo si raggiungeva la chiesa. Festa grande per tutti. Un pranzo abbondante e tanta allegria con balli e canti.

Le usanze funebri

Anche ad Ilbono, come in altre parti della Sardegna, era diffuso il convincimento che gli animali, così come avvertivano, prima che si manifestassero, determinati fenomeni atmosferici, così presagivano, prima degli uomini, l'arrivo della morte. Infatti, un decesso era segnalato dall'ululare dei cani durante la notte o da gufi o civette. Proprio il cane, nella credenza comune, aveva la capacità di sentire col fiuto il passaggio della morte che si apprestava a portarsi via qualcuno. Addirittura anche ai sogni si attribuivano, e un po' anche oggi, segni di premonizione: guai a sognare fichi neri o uva, significavano lacrime per qualcuno che stava per morire. La morte insomma era sempre temuta essendo l'ultimo atto della vicenda umana e l'unico assolutamente certo. Una volta morto, il corpo veniva lavato con cura e vestito con l'abito più nuovo che possedeva. Iniziava poi la veglia funebre con i canti lamentosi di donne particolarmente capaci, specie di prefiche, che ricordavano le vicende umane salienti del defunto. Durante l'ultima notte il defunto veniva vegliato dagli uomini e si aveva cura di accendere dei lumi ad olio -"sa lansia"- per lasciare nella luce il morto. Ai morti non si portavano né fiori, né corone di fiori, mentre venivano sistemate ai piedi del defunto dei teli di lino che sarebbero stati utilizzati per il funerale, "is tiagias". L'ultimo atto della morte era il funerale che iniziava con l'arrivo del prete seguito dalle confraternite -"is cunfrarasa"- vestite di bianco e che portavano la croce. Trasportavano la bara quattro uomini con due teli robusti, in lino; oppure la stessa veniva trasportata a spalle sino al cimitero, che anticamente era vicino al sagrato della chiesa. Dopo che il cimitero è stato trasferito al sito attuale "Bau 'e porcos", nel 1940, (il primo ad esservi seppellito fu un cagliaritano di passaggio, certo Pibione), questa usanza è stata abbandonata e la bara veniva trasportata a spalle o col carro a buoi. Infine la stessa veniva calata nella fossa tramite lacci in cuoio -"is loroso"-. A distanza di un mese si celebrava, in memoria del defunto, una messa e al termine la famiglia offriva "s' invitu", caffè e biscotti sardi agli invitati che avevano partecipato e pregato per "sa bon'anima".