Aureliano Bellei

 

L’ITALIA NON CE LA FARA’

Da molto tempo si sente un gran parlare dei problemi che affliggono l’Italia, prima di tutto quello della disoccupazione e dell’emarginazione sociale, poi quello delle tasse esagerate, dell’evasione fiscale, della malavita che dilaga sempre più, delle carceri sovraffollate, dell’immigrazione pressante, delle pensioni che tra un po’ non si potranno più erogare, della Sanità.

Si sentono diverse spiegazioni sull’origine di questi fenomeni e diverse ricette per farvi fronte, ma finora non ne ho sentita una che mi sembri giusta. Per questo voglio dire la mia spiegazione e la mia ricetta; poi, se sarà sbagliata anche la mia, .......... spero che qualcuno me lo faccia capire con ragionamenti terra terra, come faccio io, senza paroloni e ragionamenti incomprensibili.

Se c’è un problema e non si scopre da cosa nasce veramente, ogni intervento che si fa per risolverlo finisce per fallire ed anche per aggravarlo, per questo vorrei arrivare a stabilire la verità in qualche modo, perché così non si può andare avanti.

Qualcuno dice che per combattere la disoccupazione bisogna favorire lo sviluppo delle PMI (piccole e medie imprese) anziché delle grandi imprese.

Questo discorso appare proprio senza senso; si può risolvere con poche parole.

Vi sono cose che per loro natura vanno fatte in una grossa industria e cose che vanno fatte in una piccola industria.

Tutto ciò che è molto complesso o è destinato ad una larga diffusione, o richiede grandi attrezzature, come automobili, treni, navi, televisori, lavatrici, ecc.,deve essere prodotto in una grande industria e tutto ciò che è piccolo, relativamente semplice, destinato ad una diffusione limitata, va prodotto in una piccola industria; entrambe le configurazioni sono importanti per l’economia e per l’occupazione, per cui è perfettamente inutile fare di queste affermazioni, e dannoso sarebbe fare qualche legge che favorisca le PMI piuttosto che le altre.

IL COMUNISMO

Altri dicono che questa è la crisi del Capitalismo.

Cosa significa questa affermazione? Forse le imprese dovrebbero esistere per scopi diversi dal profitto? E chi lo farebbe mai l’impresario? Dovrebbero essere tutte dello Stato, affinché siano mosse unicamente da scopi sociali anziché dal mero profitto? Si è già visto in tutti i paesi ex comunisti che bel risultato è stato ottenuto con questo criterio.

Invece degli industriali si sono arricchiti i dirigenti di partito e i grandi burocrati dello Stato, mentre il popolo di lavoratori ha vivacchiato per settanta anni e non ha potuto che vedere da lontano il benessere che portava il progresso.

Forse però non basta osservare i due livelli di benessere che saltano agli occhi vistosamente tra i paesi dell’occidente, in cui da sempre vige il Capitalismo e quelli dell’est in cui per molti anni ha regnato il Comunismo.

E’ meglio cercare di analizzare il problema ragionando.

In uno Stato in cui non è ammesso il Capitalismo, evidentemente non è ammessa la proprietà.

Tutti i terreni e tutti i beni immobili sono proprietà dello Stato. Ogni attività lavorativa è intrapresa dallo Stato, con lo scopo di dare da vivere e possibilmente qualcosa di più a tutti i cittadini in modo equo.

Deve essere come se la ricchezza (o benessere) seguisse il principio dei vasi comunicanti della fisica: scende da una parte dove è più alta e va dall’altra fino a essere uguale per tutti o per lo meno distribuita in modo equo secondo le capacità e i meriti.

Qualcuno, eletto dai cittadini, ha il compito di organizzare lo Stato, coi vari organismi necessari; dai ministeri alle strutture industriali e via via, fino all’amministrazione del singolo palazzo di abitazione.

E’ proprio l’ideale della giustizia e dell’equità. Tutta la Società è organizzata in modo che ognuno abbia gli stessi diritti e gli stessi doveri, e nessuno possa vivere grazie al lavoro degli altri.

Come si spiega che tutti i paesi che hanno adottato questo tipo di regime, dopo circa 50 – 70 anni si trovano ad un livello di benessere generale di gran lunga inferiore al livello di benessere generale che si è raggiunto negli altri paesi in cui invece si è adottato il regime capitalista?

Secondo me, è perché questo tipo di organizzazione non tiene conto di un difetto che è insito nell’umanità, come in quasi tutti gli esseri viventi: l’egoismo. Cioè, il sistema funzionerebbe perfettamente, in modo ideale, se gli uomini non fossero affetti dall’egoismo, perché ognuno farebbe il suo dovere pensando unicamente allo scopo di procurare il benessere per la Società, per tutti i suoi concittadini, come in un alveare.

In effetti avviene che chi può, avendo una posizione di potere più o meno grande, è naturalmente portato a trarre vantaggio dalla sua posizione, mentre qualcun altro, pur essendo onesto e molto ligio al dovere, non è abbastanza motivato per rischiare; come dire che, pur intravvedendo delle possibilità di futuri sviluppi in una impresa, non ha il coraggio di rischiare perché, se per caso dovesse sbagliare, ne avrebbe sicuramente delle gravi conseguenze negative (sarebbe degradato, depurato, messo al bando), e se dovesse aver visto giusto e tutto andasse bene, il vantaggio che gliene potrebbe derivare non lo gratificherebbe abbastanza; quindi tutto va avanti come se fosse frenato, senza l'entusiasmo che sarebbe necessario per un dinamico sviluppo.

Teniamo presente che se, per esempio, si volesse avere un raddoppio di benessere in 20 anni, si dovrebbe avere un aumento del 3,5 % ogni anno. Evidentemente con questo tipo di regime non si ottiene un tale incremento e non si può ottenere, soprattutto perché viene a mancare la motivazione in chi è dotato delle capacità per poterlo fare.

Certamente si può punire chi non fa il proprio dovere secondo i dettami delle leggi, ma, essendo molti quelli che a vari livelli sono investiti da qualche autorità, è difficile controllare tutti e controllare anche i controllori. Qualche tentativo in questo senso in quei paesi fu fatto, anche addirittura con la forca, ma evidentemente il problema era insormontabile.

IL CAPITALISMO

Al contrario, nel sistema capitalistico, in cui chiunque può essere proprietario di terreni, case, industrie, diritti di vario genere, titoli azionari e quasi qualsiasi altra cosa che si può comprare o ereditare o acquisire in qualche altro modo lecito, ognuno, dal più povero al più ricco, è sempre motivato a migliorare la sua posizione nella Società, il che si configura quasi sempre in buona parte nella ricchezza.

Questo comporta una continua, dinamica, spinta al fare; a fare di più a fare meglio, a fare prima.

In modo particolare, chi ha capacità imprenditoriale, cioè chi, per la sua preparazione culturale e per la sua capacità di intuizione è capace di affrontare tutte le incognite che può presentare l’attività di impresa, spinto dal desiderio di diventare ricco, e cioè di appagare tutti i suoi desideri e oltre ai suoi personali, anche quelli dei suoi figli e dei suoi nipoti, rischia ciò che già possiede, tanto o poco che sia, e lo fa fruttare esercitando l’attività che gli è più congeniale.

Naturalmente non siamo tutti uguali e quindi non tutti hanno la capacità imprenditoriale.

Molti di noi non se la sentono di rischiare i propri risparmi in attività di impresa perché hanno paura di non riuscire e quindi di perderli anziché farli fruttare. Questi si adatteranno per tutta la vita (o solo per un po’) a lavorare per conto di altri, cioè la loro attività in parte servirà ad arricchire se stessi e in parte il loro datore di lavoro che vuole e deve far incrementare la sua ricchezza. Dico anche deve, perché a questo punto anche la vita di altri dipende dalla sua ricchezza, cioè dalla sua solidità finanziaria.

E più l’imprenditore avrà successo, più andrà bene per tutti. Per lui stesso perché diventerà più ricco, per chi lavora come suo dipendente perché avrà un futuro più sicuro e più florido, per il resto della Società per tanti motivi che ora diciamo.

Se un tizio qualunque ha bisogno di un paio di scarpe per camminare, o una sedia ed un tavolo per sedersi, o un’automobile per viaggiare, va in negozio e trova ciò che gli occorre e deve ringraziare in cuor suo che qualcuno abbia avuto l’iniziativa di mettersi a costruire queste cose, altrimenti non le avrebbe trovate, o quantomeno gli sarebbero costate molto di più e magari non se le sarebbe potute permettere.

Qualcun altro avrà potuto diventare imprenditore a sua volta con successo, perché avrà potuto mettersi a costruire gli aghi o lo spago che il fabbricante di scarpe usa per cucirle, un altro avrà trovato il successo costruendo le macchine per la falegnameria, un altro costruendo i sedili o i paraurti delle automobili o le vernici per le stesse o con una agenzia di pratiche auto e facilmente si può immaginare migliaia di altre opportunità che scaturiscono dall’iniziativa dei primi che abbiamo citato.

Ognuno di questi imprenditori, e tutti i dipendenti degli stessi, saranno tenuti a pagare le tasse allo Stato che deve fornire i dovuti servizi (il problema di chi non paga le tasse lo vedremo più avanti per non mischiare problemi diversi).

Purtroppo da molti anni le cose non funzionano così bene, anzi non hanno mai funzionato così bene.

Cerchiamo di capire perché, continuando a ragionare.

Molti anni fa non era stato ancora inventato il motore, nessun tipo di motore e tanto meno l’energia elettrica.

L’unico sistema di organizzazione della Società era il Capitalismo in una forma molto libera, senza regole e il senso di umanità ancora non era stato inventato, tanto che si usava la tortura, il rogo, la schiavitù, e queste cose erano approvate e praticate perfino dalla Chiesa (da questo appunto forse la definizione di “cristiano praticante”).

L’impresario era qualcuno più o meno ricco, il più delle volte per eredità ed aveva a disposizione una enorme moltitudine di povera gente tra i quali poteva scegliere i lavoratori per mandare avanti la sua azienda.

Dato che l’istruzione dell’obbligo non esisteva, ben pochi erano istruiti e specializzati per essere adibiti a lavori più leggeri, più gratificanti. La maggior parte doveva adattarsi a fare lavori gravosi, pericolosi, sporchi.

Questi erano a disposizione del “padrone” che poteva trarre dal loro lavoro il massimo possibile perché se uno rendeva un po’ meno poteva tranquillamente licenziarlo e ne trovava subito un altro disposto a dare il massimo. Un po’ più difficile era sostituire uno istruito e specializzato, ma anche questi erano abbastanza sottomessi perché non vi erano molte attività in cui fossero necessari.

Tutto ciò per spiegare un concetto molto importante: quando ci sono due parti che contrattano qualcosa, uno che deve vendere e l’altro che deve comprare, se vi sono tanti che offrono la stessa merce è avvantaggiato il compratore perché può scegliere quello che gli da di più a parità di prezzo o quello che gli fa un prezzo più basso a parità di merce; se invece è una merce rara e i compratori sono tanti, è avvantaggiato il venditore perché può scegliere tra i compratori quello che è disposto a pagare di più la sua merce.

Ricordiamoci bene questo principio per quello che si dirà più avanti.

Quando fu inventato il motore (non importa quale tipo di motore abbiamo in mente) e quindi macchine che sostituiscono l’uomo nei lavori più pesanti, cominciò a migliorare un po’ la vita dei lavoratori meno qualificati, ma le condizioni erano sempre di grande sfruttamento perché non venne all’improvviso, solo per questo, un gran numero di posti di lavoro e la gente era sempre tanta perché Ogino e Knaus non erano ancora nati, né erano stati inventati i preservativi.

Solo fu abolita la schiavitù, perché non era più conveniente.

Fu in questa epoca che si svegliò qualcuno, mi pare che si chiamasse Marx (chi scrive non è una persona che si possa definire colta, è solo una persona che ragiona con la sua testa invece di farsi riempire la testa dagli altri), dicendo che non era giusto che alcuni uomini (i “padroni”) potessero vivere e arricchirsi col lavoro degli altri, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e che quindi bisognava ribellarsi a questo stato di cose.

Reinventò lo sciopero che avevano già messo in pratica i plebei dell’antica Roma e tutta la grande massa di poveri lavoratori bistrattati si rivolsero con fiducia a questa nuova speranza per migliorare la loro condizione di sfruttati.

Occorreva lottare violentemente e lottarono. Purtroppo non tennero conto (non capirono) che cercavano di sovvertire la legge della domanda e dell’offerta di cui dicevamo prima, che è inflessibile (dispiace, ma è così) e quindi iniziavano una guerra persa in partenza, quando invece si sarebbe potuto vincere semplicemente non facendo niente di speciale. Solo aspettare che il progresso da solo facesse cambiare le cose.

Certamente di questo sbaglio nessuno ha alcuna colpa, perché lo sviluppo vertiginoso del progresso nessuno allora poteva prevederlo, però è proprio così. Purtroppo questa lotta, anziché avere un risultato positivo ha avuto un risultato negativo, nel senso che ha frenato il beneficio che poteva portare il progresso, tanto è vero che ancora oggi, dopo circa 100 anni, si continua a lottare con gli scioperi, perché la condizione media dei lavoratori è ancora abbastanza misera, quando invece potrebbe essere molto migliore grazie al progresso. Dico condizione media dei lavoratori, perché pochi fortunati hanno effettivamente un lavoro qualificante e ben pagato, ma moltissimi hanno lavori sgradevoli e poco pagati.

Perché le lotte dei lavoratori hanno ridotto notevolmente il vantaggio che il progresso poteva portare ai lavoratori stessi? Il perché lo dice il concetto stesso di sciopero. Si fa sciopero per danneggiare il datore di lavoro, cioè, se col lavoro dei dipendenti il “padrone” dell’azienda guadagna ricchezza, scioperando ne avrà un danno, perciò per non avere questo danno concede quello che gli si chiede.

Ma se il padrone, cioè l’azienda ne subisce un danno, inesorabilmente peggiora il rapporto tra richiesta e offerta tra lavoratori e posti di lavoro a svantaggio dei lavoratori.

Se non si fossero mai fatte tutte queste lotte, oggi vi sarebbero più posti di lavoro che lavoratori e quindi una azienda, pur di trovare i lavoratori disposti a farsi assumere, sarebbero pronti a offrire trattamenti sempre più appetibili: paghe alte, comodità, sicurezza, rispetto.

Sarebbe impossibile trovare ragazzine disposte a lavorare come schiave in laboratori artigianali di confezioni per poche migliaia di lire al giorno perché prima di tutto loro stesse potrebbero trovare centinaia di altri posti migliori, ma anzi non avrebbero néanche bisogno di lavorare così giovani perché i loro padri o le loro madri avrebbero lavori sicuri e ben pagati.

E perché il progresso, di per se, avrebbe portato un più favorevole rapporto tra lavoratori e posti di lavoro? Perché oggi, grazie al progresso, ci sono molte più cose da fare di prima.

100 anni fa il lavoro consisteva solo nell’agricoltura, le miniere, le case, i mobili, i carri che servivano per l’agricoltura, le carrozze, la legna e altre cose dello stesso livello.

Oggi, oltre a tutte queste cose si debbono costruire le automobili, i treni, le navi, gli aerei, gli elicotteri, i veicoli spaziali, i satelliti artificiali, i televisori, i registratori, i computer, i telefoni, i frigoriferi, le lavatrici, i grattacieli, le ruspe...........non si possono elencare tutte, ma sono veramente tante. Con tutte queste cose da fare non c’è dubbio che i posti di lavoro sarebbero più dei lavoratori disponibili, anche considerando che nel frattempo Ogino e Knaus e gli inventori dei preservativi e della pillola anticoncezionale hanno permesso di contenere lo sviluppo demografico.

L’ITALIA

Forse, da ciò che abbiamo detto, ancora non è stato reso chiaro quale è stato il meccanismo che ha impedito il capovolgimento del rapporto lavoratori / posti di lavoro.

Conviene esaminare meglio ciò che è avvenuto negli ultimi 50 anni in Italia, ma che, con qualche variante, può far capire anche ciò che è avvenuto in altri paesi in cui ci sono gli stessi problemi (nell’occidente, perché all’est è tutto un altro discorso).

Alla fine della guerra, nel 1945 si erano formati due blocchi contrapposti: il blocco occidentale con regime capitalistico e il blocco orientale con regime comunista.

L’Italia, nel blocco occidentale, un po’ con la volontà di ripresa, un po' con l’aiuto del piano Marshall, e grazie anche ad un governo abbastanza stabile con idee non del tutto, ma abbastanza chiare, nel giro di un decennio ricostruì quasi completamente ciò che era andato distrutto con la guerra e si stava avviando verso un buon futuro, ma purtroppo l’elettorato era per circa la metà per il Capitalismo, anche se non del tutto coscientemente, e per circa un’altra metà, più coscientemente e convintamente, per il Comunismo.

I governi per questo motivo cominciarono a durare poco e tra coloro che possedevano capitali, industriali o non, cominciò a diventare consistente il timore che si verificasse un cambiamento di regime.

Lo temevano come una cosa che poteva colpirli direttamente, perché già era avvenuto in tutti i paesi del blocco comunista che tutti i capitali erano stati confiscati e per chi non si adeguava, la forca aveva risolto il problema. Stalin era ancora a capo dell’URSS.

Si cominciava a fare scioperi per ottenere miglioramenti salariali e i cortei erano sempre vistosamente colorati con bandiere rosse.

In questo clima incerto e oscuro, ogni industriale, per ogni 100 lire che guadagnava, tolto quanto occorreva per la vita di tutti i giorni, lo stretto necessario lo reinvestiva nella sua azienda e il resto lo depositava in Svizzera, un paese molto vicino e comodo da raggiungere, molto sicuro dal punto di vista politico, in cui potersi rifugiare nel caso infausto di un passaggio dell’Italia nel blocco dell’est.

Chi ha almeno 60 anni di età, può ricordarsi che molti slogan e molti discorsi, tanto di politici che di popolani, contenevano sovente truci minacce.

Il fatto che in questo modo molti capitali fluivano verso la Svizzera (ricordiamoci che non era affatto proibito) comportava minore sviluppo delle industrie, e quindi minori posti di lavoro.

Al contrario, quei capitali depositati in Svizzera servivano come investimenti in qualche altro paese del mondo.

Quando si cominciò a capire questo fenomeno, credendo di risolvere il problema, il Legislatore, quel dritto, fece una legge che proibiva l’esportazione di capitali. In piccolissima parte arginò il fenomeno, ma provocò un altro fenomeno ancora più grave: gli industriali cominciarono ad esportare le industrie e addirittura se stessi.

Altra grave perdita di posti di lavoro in Italia a vantaggio di altri paesi dove era meno sentito il pericolo di conversione al regime comunista, e dove i lavoratori erano più propensi a favorire lo sviluppo industriale, senza preoccuparsi del fatto che il padrone diventasse ricco col loro lavoro, o paesi dove il regime comunista già c’era, ma i lavoratori speravano di toglierselo dalle balle.

Il punto chiave in cui sbagliano i lavoratori protestatari è quello di pensare che il “padrone”, quando guadagna di più, poi mangi di più. Egli non può mangiare di più, perché farebbe indigestione. Mangerà come loro. Tutt’al più mangerà cibi migliori, più raffinati. Si comprerà una villa lussuosa per godersi una vita più agiata e degli abiti più eleganti, delle automobili più belle per lui e per i suoi familiari, ma la maggior parte dei suoi guadagni, se non trovasse tutte le difficoltà che abbiamo detto ed altre che diremo, li reinvestirebbe nella sua azienda per guadagnare ancora di più, ma questo andrebbe a vantaggio anche dei suoi dipendenti perché il loro posto di lavoro diventerebbe sempre più sicuro e remunerativo e per tutti gli altri lavoratori perché aumenterebbero i posti di lavoro e quindi ne verrebbe un rapporto più favorevole posti di lavoro / lavoratori cioè più forza contrattuale per i lavoratori.

Inoltre tutto quello che spende per mangiare più raffinato, per vestire meglio, per abitare più comodamente, per viaggiare più comodamente, sono soldi che ritornano in circolo e quindi andranno ad arricchire altri imprenditori e lavoratori che operano nel campo della ristorazione, della sartoria, dell’edilizia, della motorizzazione e di tutto quello che si può immaginare e comunque tutto ciò rappresenta un giusto premio per chi ha avuto l’iniziativa e il coraggio di intraprendere.

In definitiva, l’egoismo umano, del tutto naturale nell’uomo come in tutti gli esseri viventi, salvo le api e le formiche, col Capitalismo non c’è bisogno di combatterlo, perché più egoismo c’è e più benessere ne deriva per tutti, e invece col Comunismo determina il fallimento totale del sistema e combatterlo è una guerra persa; basta pensare al regime di terrore, di persecuzione e di orrore dei tempi di Stalin, e il risultato che ha avuto dopo 70 anni.

LO STATUTO DEI LAVORATORI

Qualcun altro dice che bisogna stimolare l’iniziativa individuale, perché l’idea del posto fisso ormai non va più.

E lo credo bene. Gli imprenditori non assumono, perché poi non possono più licenziare e seppure fosse passato il referendum che proponeva l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori si proponeva di sostituire l’obbligo di riassunzione con l’obbligo di un pagamento compensativo in denaro.

Un contratto di lavoro dovrebbe essere equo. Come il lavoratore può interrompere il rapporto con un semplice preavviso, anche il datore di lavoro dovrebbe poter interrompere il rapporto con un semplice preavviso, e se fosse fatto un contratto per un tempo definito, entrambi dovrebbero essere tenuti al pagamento di una penale se volessero unilateralmente interrompere il rapporto prima della scadenza.

Gli imprenditori assumerebbero molti più lavoratori. Molte aziende che adesso restano sotto il livello dei 15 dipendenti per non entrare nel divieto di licenziamento passerebbero a 16, poi a 17, a 18 e così via. Sempre di più, mai di meno. Ogni imprenditore vorrebbe sempre potenziare la sua azienda, non il contrario.

Forse conviene fare un po’ di ragionamento anche su questo problema.

Un posto di lavoro può essere gradito o sgradito.

Può essere gradito, per esempio, quando è un lavoro leggero, quando è pulito, interessante, vicino a casa, aperto a sbocchi migliori, ecc.

Può essere sgradito quando è faticoso, sporco, pericoloso, insidioso, lontano da casa, chiuso a sbocchi migliorativi, ecc.

In questa casistica non cito la discriminante "ben pagato" e "poco pagato" perché appunto questa dovrebbe essere la variabile dipendente. Cioè il lavoro dovrebbe essere più pagato quando è meno gradito e meno pagato quando è più gradito.

In questo modo ognuno sarebbe al posto suo e tutti sarebbero soddisfatti.

Uno che non ha la smania di guadagnare tanto denaro, si metterebbe a fare un lavoro tranquillo e vicino a casa; uno che vuole diventare ricco in poco tempo si adatterebbe a fare un lavoro più faticoso o più pericoloso o con altre caratteristiche negative.

Sarebbe così se il mercato del lavoro fosse libero e ognuno potesse contrattare come gli pare il suo impiego. Naturalmente anche la preparazione e l’abilità avrebbero il loro peso.

Purtroppo negli anni passati ogni politico ha voluto mettere le mani in questo meccanismo molto semplice, facendolo diventare un meccanismo complesso e delicato e cosi ne hanno provocato una pazzesca disfunzione: infatti oggi ci sono lavoratori molto privilegiati che fanno lavori molto gradevoli e sono strapagati e altri lavoratori estremamente sfortunati che sono pagati poco e in nero e quindi un giorno non avranno nemmeno la liquidazione né la pensione.

Poi c'è tutta una gamma di situazioni che si trovano tra questi due estremi.

Quello più fortunato, che poi è quasi sempre quello che ha avuto la raccomandazione del ministro o del sindacalista, è protetto dalle leggi e nessuno gli può toccare i suoi diritti e quello più sfortunato, se si appella alle leggi, rischia di perdere anche quel misero posto di lavoro che ha trovato.

Tra l'altro ci sono lavori che sarebbero necessari per il buon funzionamento della società umana, e non si trova chi si adatti a farli, nonostante la disoccupazione esistente, perché, stando alle tariffe stabilite dai contratti di lavoro collettivi e dalle leggi, non sarebbero pagati in modo conveniente per quanto sono sgraditi.

Lo Statuto dei Lavoratori riassume in una legge organica le varie norme che erano contenute nei precedenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Norme ottenute attraverso le lotte sindacali.

Questa legge è stata fatta per proteggere i lavoratori, ma a mio parere ha portato alla disoccupazione e di conseguenza al doversi adattare, i meno fortunati, alle condizioni peggiori.

Secondo questa legge un lavoratore, dopo aver superato il periodo di prova di tre mesi, deve essere assunto in via definitiva e non può essere più licenziato se non per giusta causa, cioè solo se ammazza o ruba. Niente sembra più giusto e protettivo di ciò, a prima vista, ma vediamo cosa succede in conseguenza di questo articolo.

Una azienda deve programmare l'assunzione di manodopera in funzione delle commesse da svolgere; supponiamo che un certo giorno prenda una commessa la quale, per essere portata a compimento richiederebbe l’assunzione di qualche lavoratore in più.

Il dirigente responsabile direbbe: se ora assumo qualche lavoratore in più, poi mi tocca tenermeli a tempo indeterminato anche se, quando è terminata la commessa in questione, non so più come utilizzarli.

Per non correre questo rischio, decide di svolgere la commessa magari in un tempo più lungo, ma senza assumere lavoratori in più. E' logico. Di conseguenza, l'azienda si è sviluppata un po' meno e c'è qualche lavoratore di più a spasso. Essendosi sviluppata un po' meno come azienda, in futuro sarà un po' meno in grado di accettare commesse più importanti e il problema si perpetua in senso negativo.

Molti altri rinunciano addirittura a intraprendere una attività in proprio per non rischiare di trovarsi invischiati in problemi del genere e perdere i loro capitali, magari i loro sudati risparmi di una vita, anziché guadagnare: e altri potenziali lavoratori restano a spasso disoccupati oppure si devono adattare a qualche lavoro in nero: E' facile fare una legge che vieta il lavoro nero, ma quando c'è una grande massa di gente disoccupata che deve campare in qualche modo, nessuno potrà mai riuscire a farla rispettare. E già ci va bene se si adatta a fare un lavoro in nero piuttosto che dedicarsi alla malavita.

Anche una azienda che non sia libera di licenziare un dipendente per sostituirlo con uno più adatto viene ad avere minore efficienza, minore utile, minore sviluppo e minore capacità di assumere altri lavoratori.

In definitiva, l'articolo di legge che fu scritto proprio per difendere l'occupazione, contribuisce a diminuire l'occupazione insieme ad altre cause che piano piano vediamo di analizzare tutte.

D'altra parte, se non ci fosse quell'articolo di legge, le aziende sarebbero libere di licenziare chi vogliono, ma assumerebbero qualcun altro e quindi ai fini dell'occupazione globale il risultato sarebbe almeno equivalente, ma non c'è dubbio che l'aspirazione di qualunque imprenditore è quella di ingrandirsi, mai quella di rimpicciolirsi.

Mi si obietterà: se non ci fosse questa garanzia data dall'articolo 18, il lavoratore avrebbe sempre sulla testa la spada di Damocle del licenziamento e quindi il "padrone" lo sfrutterebbe come un limone.

Secondo me, questo accade proprio oggi grazie a questo articolo 18. I meno fortunati, costretti al lavoro nero, proprio per la difficoltà di trovare lavoro, sono sfruttati al massimo.

Eliminando questo articolo di legge, aumenterebbero i posti di lavoro e diminuirebbe lo sfruttamento per i meno fortunati. L'effetto sarebbe nel senso della giustizia, poiché diminuirebbero le garanzie per coloro che hanno un posto di lavoro supersicuro, a vantaggio di coloro che sono costretti a lavorare in nero perché potrebbero trovare qualche posto di lavoro in più (intendo dire posti di lavoro con le carte in regola).

Diminuirebbero i cosiddetti "lavativi" che, forti dell'articolo 18 e dell’equivalente che c’è nei contratti di impiego statale, possono permettersi di essere assenteisti e menefreghisti (specialmente negli impieghi statali e parastatali) mentre le persone corrette non avrebbero alcun problema. Sulla carta il posto di lavoro sarebbe si, meno garantito, ma in pratica, grazie ad un migliore funzionamento dell'economia, diventerebbe più sicuro, mediamente, per ognuno.

MOTIVI STRUTTURALI

Un’altra cosa che si sente dire è che la disoccupazione dipende da "motivi strutturali”.

Questa è l’unica cosa giusta che è stata detta, anche se sintetizza tutto con solo due parole senza far capire niente e in verità è solo un motivo che l’ha soltanto accentuata un po’, per adesso.

Cioè la disoccupazione deriva in parte anche dal progresso. Vediamo perché.

Da sempre l’uomo ha cercato, con la sua intelligenza e il suo ingegno di trovare dei modi e dei mezzi per produrre ciò che gli occorre per vivere, cercando di farlo col minimo possibile di lavoro e di fatica.

Seguendo per molti secoli questo istinto, ha inventato diverse macchine che lavorano per l’uomo o che gli alleviano la fatica, e così ha ottenuto che il lavoro fosse sempre meno pesante e talora addirittura piacevole e nel complesso un migliore tenore di vita.

Dapprima anche un aumento dell’occupazione, perché le cose da fare erano tante nel contesto organizzativo della società, ma ora che lo sviluppo del progresso ha assunto un ritmo vertiginoso stiamo arrivando al punto che le macchine lavorano al posto dell’uomo per produrre tutto ciò che serve.

Dove prima occorrevano 100 uomini per fare una cosa, ora ne occorrono solo 10 o anche meno. Si potrebbero fare migliaia di esempi. Ne faremo uno che rende bene l’idea.

Solo 40 anni fa, si poteva spesso vedere nei cantieri una decina di uomini intorno ad un camion che, con le pale, lo caricavano di terra in circa mezz’ora. Oggi un solo uomo con una ruspa fa la stessa cosa in cinque minuti.

Il lavoro prodotto nei due casi è lo stesso, cioè il caricamento del camion, ma evidentemente gli altri 9 lavoratori avanzano.

Per la verità occorrerà un certo numero di uomini per costruire la ruspa, ma non proprio 9, perché nella fabbrica delle ruspe oggi vi saranno macchine automatiche che permetteranno, consumando un pochino di energia elettrica, di costruire i pezzi, di assiemarli e di collaudarli; vi saranno pochissimi impiegati che con l’aiuto di computer terranno l’amministrazione dell’azienda e via dicendo.

In effetti vi è uno spostamento di lavoratori da attività più grossolane e più faticose, in una parola meno gradevoli, ad attività più evolute e meno faticose, cioè più gradevoli. In questo cambiamento, che ovviamente è sostanzialmente generazionale, in effetti vi è una perdita di occupazione che andrà anche ad aumentare col tempo

Può darsi che un giorno, non so immaginare se tra 100 o tra 1000 anni, un solo uomo lavorerà per tutti. La mattina azionerà un interruttore e tutte le macchine si metteranno in funzione per produrre tutto ciò che serve a tutti per vivere.

E quando sarà così cosa faremo? Cercheremo ancora di trovare il lavoro per tutti i disoccupati? Chiaramente questa adesso è fantasia, però teniamo presente che siamo fortemente indirizzati verso quella strada e forse senza rendersene conto siamo già agli albori dell’era della disoccupazione totale. E se fosse così? L’esasperazione ipotetica dei problemi aiuta spesso a capire i problemi stessi, perciò continuiamo nell’ipotesi che un solo uomo lavori per tutti.

In questo caso, forse solo lui avrà diritto di campare? Di guadagnare uno stipendio? Chiaramente no. Tutti hanno diritto di campare. D’altra parte quell’uomo, con la sua semplice operazione di accendere l’interruttore ha prodotto tanti beni che sono sufficienti per mantenere tutti e quindi tutti gli altri dovranno avere ognuno una parte di ciò che avrà prodotto e se poi quell’uomo sarà così stupido da dire che non è giusto che lui lavori per mantenere gli altri, si potrà facilmente mandarlo a quel paese e dirgli: lascia perdere, vattene a casa; lo facciamo fare a qualcun altro che non ci pone questa questione. D’altra parte lui non ha alcun merito di questa efficienza. E’ merito di tutta l’umanità passata e presente.

E se ci troviamo agli albori di questa era della disoccupazione totale, cosa si deve fare?

In Francia si è deciso di ridurre l’orario di lavoro ed anche in Italia c’è qualcuno che chiede questo provvedimento perché, dice, lavoare meno per lavoare tutti. Secondo me questo è un modo completamente sbagliato di affrontare il problema. Non siamo tutti uguali. C’è chi lavora volentieri e chi lavora malvolentieri. Lavora volentieri chi, oltre ad avere l’operosità insita nella sua natura, fa un lavoro interessante, creativo, o gratificante per qualche altro aspetto e inoltre gode di ottima salute ed invece lavora malvolentieri chi ha avuto la sfortuna di fare un lavoro poco interessante oppure faticoso e magari non gode di ottima salute.

Teniamo presente che vi sono delle affezioni lievi che, secondo le leggi vigenti, non sono riconosciute, dagli organi sanitari preposti, come invalidanti, ma che tuttavia danno notevole sofferenza. Pensiamo ai calli, ai reumatismi, alla flebite, le vene varicose, i piedi piatti, l’alluce valgo e molte altre.

Ridurre l’orario di lavoro in modo uguale per tutti creerebbe insoddisfazione per tutti: per chi lavora volentieri, perché vorrebbe lavorare di più e per chi lavora malvolentieri perché non vorrebbe lavorare affatto. Naturalmente ci potrebbe essere anche qualcuno che sarebbe soddisfatto perché, per combinazione, gli fa coincidere l’uscita dal lavoro con l’orario di ingresso al circolo, ma la maggior parte no.

Inoltre la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro porterebbe altre difficoltà agli imprenditori che ne hanno già abbastanza.

Secondo me, dopo aver liberalizzato il mercato del lavoro come già spiegato indietro, abolendo lo Statuto dei Lavoratori e tutti i Contratti Collettivi, in modo da ottenere un grande numero di posti di lavoro e che ognuno potesse contrattare come gli pare il suo rapporto di lavoro per trovarsi il lavoro e la retribuzione che lo soddisfa in pieno, la cosa più giusta da fare sarebbe di allargare le maglie della legislazione relativamente ai giudizi di invalidità, in modo che chi è sofferente di quei mali lievi ma molto fastidiosi potesse godere di una forma di pensione, naturalmente più modesta, rispetto a quella di cui hanno diritto gli invalidi, ma che permetterebbe loro di trovarsi un lavoro ad orario ridotto. Questo permetterebbe, oltre che di fare un’opera di umanità risparmiando molte sofferenze a quelle persone, anche di togliere dal campo lavorativo dei soggetti che in qualche modo danno problemi agli altri.

Per esempio, non può essere che degli incidenti stradali di mezzi commerciali (camion e TIR) o ferroviari siano dipesi, direttamente o indirettamente, proprio da malesseri del genere? E se troviamo allo sportello delle Poste o del Comune una persona scontrosa, non può essere per lo stesso motivo? E’ molto probabile. E’ meglio per tutti che ai loro posti vi siano altre persone perfettamente a loro agio.

Purtroppo, queste sono idee che non verranno mai in mente a nessuna delle persone che contano, perché le loro teste sono piene di luoghi comuni. Spesso, per esempio, si sente affermare che il troppo assistenzialismo è stato la causa dei deficit finanziari dell’Italia, che è la causa delle troppe tasse ed altre fesserie del genere.

Io trovo che sia giustissimo che chi ha la fortuna di poter lavorare, attraverso il pagamento delle tasse, mantenga anche chi non può lavorare perché oggi, grazie al progresso, cioè all’impiego delle macchine, il lavoro di un uomo produce molto di più di quanto occorre ad un uomo per vivere.

Non so valutare quante volte, rispetto ai tempi primordiali, ma l’esempio fatto sopra riguardo al caricamento del camion di terra, può far capire che è almeno di due o tre volte, ma forse anche molto di più.

Secondo me tutti i disoccupati dovrebbero avere un sussidio per vivere, almeno adesso, finché il buon senso non faccia sbloccare la situazione e venga eliminata la disoccupazione.

Se non altro, perché non siano costretti a diventare manodopera o impresari di malavita per vivere (scippi, furti, rapine, truffe, aggressioni, contrabbando, prostituzione e, ultimo risultato delle politiche sbagliate, pirateria commerciale e contraffazione).

Non è l’assistenzialismo la causa dei deficit finanziari dello Stato e di tutte le disfunzioni, ma il debito pubblico. Comunque riprenderemo questo argomento un po’ più avanti.

LE CATTEDRALI NEL DESERTO

Negli anni passati si sono fatti grandi sforzi per “creare” occupazione, specialmente al sud, dove il problema era ed è tuttora più sentito. Ma qualunque cosa si faccia solo con iniziative politiche, cioè senza che vi sia l’interesse “egoistico” degli imprenditori, si può fare solo le famose “cattedrali nel deserto” e cioè sprechi. Non è così che si deve operare. Lo Stato ,con gli appositi organismi, dovrebbe badare solo che non vengano fatte cose illecite o, per qualche aspetto, dannose (nocive, inquinanti, geologicamente sbagliate, pericolose, contro il patrimonio archeologico, ecc,).

I posti di lavoro vengono fuori quando c’è qualche industriale che intravvede delle possibilità di guadagno. Forse a qualcuno questo non piacerà, ma è così.

Liberalizzando il mercato del lavoro, come accennato sopra, diventerebbe più conveniente per gli industriali utilizzare il cospicuo contingente di forze lavorative generiche, qualificate ed anche altamente qualificate esistenti al sud e vi impianterebbero le loro imprese. Cosi facendo sottrarrebbero manovalanza alla malavita; sottraendo manovalanza alla malavita, diventerebbe più facile allo Stato eliminare la malavita ed eliminando la malavita diventerebbe più appetibile per gli imprenditori investire al sud.

Si creerebbe un circolo virtuoso che, secondo me, nel giro di 6 o 7 anni, risolverebbe tutti i problemi del sud e specialmente quello della disoccupazione che adesso, secondo quello che si sente dire in televisione e sui giornali, si aggira sul 25 - 30% delle persone valide.

LE ESPORTAZIONI

Qualcuno dice che per combattere la disoccupazione e rilanciare l’economia bisogna promuovere le esportazioni, ma la possibilità di esportare è legata al costo dei prodotti..

Se i nostri prodotti costano troppo nessuno ce li compra.. Va bene che abbiamo le mozzarelle, le mortadelle, i prosciutti, alcuni vini deliziosi ed altre cose del tutto speciali che possono trovare qualche amatore disposto a comprarle a qualunque prezzo pur di averle, ma tutti gli altri prodotti dell’agricoltura e dell’industria non troverebbero compratori perché non sono competitivi, cioè, appunto, costano troppo.

E qual’è il motivo per cui costano troppo?

Il motivo mi pare chiaro: gli industriali italiani debbono pagare tasse intorno al 75 – 80 % dei loro redditi, debbono sprecare molte energie e denari per le pratiche burocratiche e inoltre il denaro costa caro.

La spiegazione del perché di queste cose la vedremo più avanti. Solo per le pratiche burocratiche si sta facendo qualcosa di buono,... pare.

IL DEBITO PUBBLICO

Il debito pubblico, tra BOT, BTP, CCT, ecc. supera oggi 2.400.000.000.000.000 lire, che si legge due milioni e quattrocentomila miliardi di lire, che ogni anno comporta il pagamento ai detentori di questi titoli di circa duecentomila miliardi (le ultime affermazioni del ministro Visco al Costanzo Show, secondo cui sarebbero solo 70.000 non mi convincono; se fossero solo al 5% farebbe 125.000, ma alcuni di questi titoli, emessi anni fa con lunghe scadenze, godono di interessi altissimi, anche del 18%).

Se non ci fosse quell’enorme debito, lo Stato disporrebbe di duecentomila miliardi ogni anno con cui potrebbe fare tante cose. Se si pensa che nelle ultime finanziarie i governi hanno dovuto tribolare per coprire deficit di 30.000 – 100.000 miliardi penalizzando un po’ tutti, pensiamo cosa potrebbe fare coi 200.000 miliardi che deve pagare ogni anno in interessi.

Vediamo, ragionando, come può essersi creato un debito così grande.

Tutti (chi ha l’età) si ricorderanno, negli anni dal 60 all’80, una interminabile serie di scioperi, sempre motivata da rivendicazioni salariali.

Prima una categoria, per esempio i ferrovieri, bloccavano i treni per un po’ di giorni e ottenevano ciò che volevano; poi un’altra categoria, per esempio i chimici, poi i metalmeccanici, i piloti, i controllori di volo, i vigili urbani, gli edili, ecc., ecc.. Ogni categoria di lavoratori otteneva i suoi aumenti salariali dal primo all’ultimo. Naturalmente, quando poi si andava a comperare qualcosa, si scopriva che costava un po’ di più perché se i lavoratori costavano di più anche i prodotti che uscivano da quelle mani costavano di più e quando lo Stato doveva pagare gli stipendi agli impiegati statali e doveva pagare i lavori eseguiti per lo Stato, come strade, ponti, scuole, prigioni, ospedali, e quant'altro, andava in deficit perché doveva tirare fuori più soldi che non c’erano.

Per far fronte alle maggiori spese stampava carta moneta e pagava tutti quanti. Questa operazione si chiamava “adeguamento del bilancio” e all’opinione pubblica passava inosservata perché pochi capivano il significato di queste parole. Naturalmente in questo modo, se un qualsiasi oggetto, prima costava per esempio 100 lire, dopo aver messo in circolo una maggiore quantità di moneta, quello stesso oggetto costava un po’ di più ed ecco che ognuno di coloro che avevano lottato con gli scioperi per ottenere aumenti salariali, si ritrovavano con una cifra più grande di denaro nella busta paga, ma che gli permetteva di comprare niente più di prima, anzi forse qualcosa in meno. Avevano ottenuto solo l’illusione di guadagnare di più.

Ognuno era convinto di fare le lotte per adeguare le paghe al costo della vita, come se le due cose non fossero interdipendenti.

Erano tutte lotte inutili che oltretutto creavano anche disagi alla cittadinanza nel suo insieme e danni economici alla Nazione come perdite di commesse, di turismo, di immagine, e in questo modo il valore della lira scese vertiginosamente, tanto che oggi si parla di miliardi dove prima si parlava di milioni.

Tutto ciò si è verificato fino al 1979 o 1980, quando l’Italia entrò nel MEC.

Da quel momento non si è più potuto stampare carta moneta a piacimento poiché, secondo gli impegni comunitari, non si poteva uscire da una certa fascia di fluttuazione del cambio, (che per noi significava sempre e solo verso il basso).

Poiché si continuava a pretendere miglioramenti retributivi sempre con gli stessi metodi, lo Stato per far fronte al deficit, non potendo più stampare carta moneta cosa poteva fare non sapendo instaurare un regime di austerità e non volendolo per non perdere consensi dell’elettorato ottuso?

Cominciò ad emettere BOT, BTP, CCT e simili in misura massiccia; cioè a fare debiti allegramente.

Il debito pubblico, dai circa 50.000 miliardi del 1980 passò rapidamente ai 500.000 miliardi del 1986, agli 800.000 del 1988 (sono cifre che ricordo a memoria perché ogni volta che le sentivo inorridivo e mi preoccupavo), a 1.725.000 del 1993 e ai quasi 2.500.000 miliardi di oggi.

TANGENTOPOLI

Qualcuno sarà convinto che sono state le ruberie di Tangentopoli a far crescere il debito pubblico, ma una piccola considerazione può far capire che non è così.

L’insieme delle cifre che sono state oggetto delle indagini su Tangentopoli si aggira su qualche centinaio o qualche migliaio di miliardi. Supponiamo pure che questa cifra sia come la punta di un iceberg per cui la parte sommersa sia 10 volte più grande. Si arriverebbe così a 10.000 – 20.000 miliardi.

Non si può pensare che i soldi rubati siano di più; piuttosto di meno.

E cosa sono 20.000 contro 2.500.000 ? Ben poca cosa. 20.000 / 2.500.000 = 0.008 cioè lo 0,8%. Si può dire perciò che Tangentopoli ha inciso, al massimo ipotizzabile, per lo 0,8 % sul debito pubblico.

Il cosiddetto assistenzialismo, che poi consiste nell’assicurare da vivere a tutti coloro che non lavorano è una cosa dovuta e necessaria e può essere realizzata senza particolari sacrifici per nessuno.

Basterebbe che non ci fossero quei 2.500.000 miliardi di debito e quindi quei 200.000 miliardi di interessi da pagare ogni anno.

In Italia oggi vi sono circa 2.000.000 di disoccupati e di questi meno della metà sono privi di qualsiasi forma di assistenza sociale, diciamo 1.000.000. Se si volesse dare il minimo necessario per vivere, cioè per esempio 1.200.000 lire al mese ad ognuno di essi, farebbe in totale ogni anno 1.200.000 lire X 12 mesi X 1.000.000 = 14.400 miliardi che sono circa un quattordicesimo di quanto si paga di interessi sul debito pubblico. Se si volesse dargli anche la tredicesima diventerebbero 15.600 miliardi.

Avanzerebbero ancora circa 185.000 miliardi coi quali si potrebbero fare tante belle cose che porterebbero vantaggi per tutti.

Non spetta a me suggerire cosa farne, ma spesso sento la gente lamentarsi di tante cose che non vanno e, secondo me, ognuna di queste cose è riconducibile ad una causa comune: al fatto che lo Stato non ha i soldi, o non ne ha abbastanza per risolvere quei problemi perché una buona parte delle tasse che paghiamo, la deve spendere per pagare gli interessi sul debito.

LE TASSE

Eppure sono tante le tasse che paghiamo. Forse non tutti considerano che le tasse in Italia non sono soltanto l’IRPEF e l’IRPEG che paghiamo col 730, il 740, il 750 e il 760 che adesso si chiamano UNICO con l’anno relativo, ma anche l’IVA che paghiamo su ogni cosa che acquistiamo, i bolli e le carte bollate, il costo delle cambiali, il bollo auto, il canone RAI, le tasse sul rendiconto della banca, l’ICI sulla casa, la tassa di registro se compriamo casa, l’ILOR se la vendiamo (adesso l’ILOR non c’è più ma è stata sostituita con qualche altro marchingegno fiscale), le accise sulla benzina e su altri prodotti e non riesco ad elencarle tutte. In questo turbinio di tasse ci si deve meravigliare tanto se c’è qualcuno che cerca di evaderle o di eluderle? Certo non si deve, ma se non ci fossero quei famosi 200.000 miliardi di interessi da pagare ogni anno, le tasse da pagare sarebbero poco più della metà e pochi sarebbero gli evasori; ben pochi sarebbero gli industriali che vanno a costituire “società off shore” nei cosiddetti paradisi fiscali.

Tra le cose che non vanno e di cui si lamenta la gente mi vengono in mente: il Catasto che ha un arretrato di 20 anni o più, la Giustizia in cui un processo dura 10 o 20 anni invece di 1 o 2 come sarebbe giusto, la scuola che non prepara i giovani in modo adeguato per affrontare il lavoro, la ricostruzione delle case dei terremotati, l’insufficiente controllo e tutela dello stato idrogeologico dei suoli, la carente tutela del patrimonio artistico e archeologico, la manutenzione carente delle strade (specialmente dei marciapiedi), il Fisco che sbriga le pratiche IRPEF e simili con ritardo di 7 anni e difficilmente può scovare gli evasori, la Sanità che prende le prenotazioni per degli esami importanti a 6 mesi o più dalla richiesta e troppo spesso, invece di guarire i pazienti li ammazza, la ricerca che non esiste quasi più perché le sono stati tagliati quasi tutti i finanziamenti.

Tutte queste cose potrebbero essere, se non risolte in modo assoluto, perché la perfezione, come si sa, non è di questo mondo, almeno molto migliorate potenziando le attrezzature e il personale di quelle strutture, sempre se non ci fossero quei 200.000 miliardi di interessi da pagare ogni anno sul debito pubblico.

Lo Stato, invece di pagare poco tutti quei disoccupati e cassintegrati, potrebbe assumerli regolarmente per potenziare quei servizi.

Qualcuno dirà che una persona che ha sempre fatto un certo tipo di lavoro non sarebbe adatto per fare un altro tipo di lavoro. Questa è una stupidaggine. Basterebbe un breve ed economico corso di istruzione ad una persona matura e già in possesso di una istruzione per diventare idoneo ad un altro tipo di lavoro, specialmente se quella intravvede la possibilità di fare un lavoro più evoluto di quello che ha sempre fatto.

Tra l’altro, vi sono anche tanti diplomati e laureati che non trovano lavoro.

Oltre ai problemi già detti la gente si lamenta per la troppa malavita che tutti i giorni ci fa rischiare di essere scippati, rapinati, uccisi durante una rapina in banca, di trovare la casa svaligiata, la macchina rubata o, se ci va bene, solo l’autoradio.

Molti, riguardo a questo problema, se la prendono con gli extracomunitari, ma in effetti anche questo fenomeno dipende dalla disoccupazione e dal debito pubblico.

Chi non ha lavoro né alcuna assistenza, diventa facilmente manovalanza o addirittura impresario di malavita e questo può accadere sia per disoccupati italiani che per disoccupati stranieri; non credo che sia per scelta di stile che diventano delinquenti. Se non ci fosse questa situazione, non ci sarebbero tanti delinquenti e le carceri non sarebbero stracolme come sono.

Gli extracomunitari sovente vengono indicati come coloro che vengono a togliere il lavoro agli italiani. In effetti la quasi totalità degli extracomunitari si adattano a fare quei lavori di cui dicevamo sopra, che sono necessari per il buon funzionamento della Società, ma che nessuno si presta a fare, nonostante la disoccupazione, perché, stando alle tariffe stabilite dai contratti di lavoro collettivi e dalle leggi, sono pagati troppo poco per quanto sono sgraditi. Loro vi si adattano volentieri perché nei loro Paesi la situazione è ancora peggiore. Potremmo quasi dire che è una nuova forma di schiavismo, approvata e anzi voluta proprio da coloro che sono convinti di battersi per la giustizia sociale.

Dopo aver creato il debito pubblico ed aver rovinato il mercato del lavoro con tutte le lotte sindacali, con la concertazione, col comunismo strisciante che c’è sempre stato tra i politici che sono stati al governo (democristiani di sinistra o altrimenti detti cattocomunisti, socialisti puri o con denominazioni diversificate e oggi anche DS altrimenti definibili ex comunisti), tutti questi o i loro successori, adesso vanno inventando altre forme di contratti di lavoro sul tipo “lavoro interinale, contratti di formazione, lavoro autonomo, lavoro occasionale “e non so quanti altri tipi, ma questi non sono altro che un sistema per aggirare lo Statuto dei Lavoratori di cui conoscono benissimo l’inadeguatezza, ma non la vogliono ammettere, per non riconoscersi colpevoli di aver sbagliato e di aver portato l’Italia alla bancarotta e continuano a prendere in giro gli Italiani, lavoratori e non lavoratori dicendo sempre che va tutto bene.

Anzi, dobbiamo ringraziare i Sindacati se in questi ultimi anni si è riusciti a contenere l’inflazione e a rallentare la crescita del debito, perché col loro senso di responsabilità......... non so bene cosa abbiano fatto. Forse hanno smesso di fare danni.

Temo di no. Solo una pausa.

In questi ultimi anni si è riusciti a contenere l’aumento del debito pubblico, della svalutazione della lira e l’ulteriore aumento delle tasse vendendo i “gioielli di famiglia”, cioè privatizzando le aziende di Stato (Telecom, aeroporti, autostrade, Alfa Romeo, SME, ecc.) per circa 100.000 – 125.000 miliardi e ancora ce ne sono da vendere per altri circa 50.000 miliardi, anche se un po’ più difficili da piazzare (RAI, ferrovie, banche), ma poi i gioielli saranno finiti.

E che faremo dopo?

Non mi pare che si possa essere tanto ottimisti per il futuro, perché i 50.000 miliardi che potremo incassare se riusciremo a vendere i gioielli che sono rimasti sono soltanto il 2% dei 2.500.000 miliardi del debito.

Adesso le cose stanno così. Non si può far sparire d’incanto questi 2.500.000 miliardi di debito. Se ci vogliamo togliere il peso di 200.000 miliardi di interessi da pagare ogni anno che sono la principale causa delle tasse esagerate che gli italiani debbono pagare rispetto ad altri paesi dell’Europa, bisognerebbe restituire questi soldi, magari cercando di rinnovare con tassi più bassi i titoli che man mano scadono, oppure, meglio, senza emetterne di nuovi, o emettendone meno, in modo che pian piano il debito si riduca.

Ma per poter ridurre i tassi sulle nuove emissioni occorrerebbe che il valore della lira fosse stabile e soprattutto si potesse dare la sicurezza che resterà stabile per sempre o quantomeno per molti anni, altrimenti chi compra i titoli di Stato vuole dei tassi alti perché dice: io ti presto i soldi, tu me li restituisci tra tot anni svalutati, perciò mi devi dare interessi alti, altrimenti ci rimetto; e se non si alzano i tassi, non li compra. E lo Stato non può pagare stipendi, pensioni ed opere pubbliche.

O forse converrebbe uscire dall’Europa e stampare tanta carta moneta e restituire tanti soldi svalutati? Qualcuno in passata l’ha fatto ma non credo che abbia fatto un buon affare.

Sarebbe una forma disonesta che ci porterebbe tante giuste rimostranze e guai a livello internazionale, nonché perdita di affidabilità che non ci possiamo permettere sul piano pratico, perché avremo per molti anni la necessità che qualcuno continui a prestarci i soldi per restituire i debiti in scadenza e per vivere; inoltre si svaluterebbero anche salari e pensioni automaticamente.

Cosa si può fare allora?

Io non vorrei dirlo: vorrei che ognuno ci arrivasse da solo e penso che chi ha letto con attenzione queste righe potrebbe esserci arrivato senza più dubbi. Quello che si dovrebbe fare è una cosa sola, anche se spiacevole, bisognerebbe fare molti sacrifici e restituire quanto più possibile, come farebbe una famiglia che un giorno si accorge di essere talmente indebitata da pagare, solo per interessi, più della metà dei suoi guadagni; come, per esempio, una famiglia che ha introiti per 40 milioni l'anno ed un mutuo di 400 milioni. E' inutile andare cianciando che vi possono essere altre soluzioni. Ogni altra soluzione può solo farci agonizzare un po’ più a lungo negli anni senza risolvere nulla. Già si parla con insistenza che i nostri figli e i nostri nipoti ci malediranno.

Quali sono i sacrifici da fare?

Prima di tutto non chiedere più aumenti salariali o pensionistici. Meglio sarebbe ridurli i salari e le pensioni; ma chi riuscirebbe mai a convincere tutti i lavoratori e i pensionati?

Perché proprio di loro si tratta, inquantoché non è pensabile di ridurre con una legge o una norma di altro genere i guadagni degli imprenditori a meno di non voler vederli scomparire; del resto i guadagni degli imprenditori si ridimensionerebbero automaticamente in conseguenza della riduzione dei guadagni dei lavoratori dipendenti e dei pensionati perché se questi hanno meno soldi da spendere, quelli debbono abbassare i prezzi e accontentarsi di guadagni minori, altrimenti non vendono niente.

Anche se non proprio ridurli, salari e pensioni, almeno non chiedere altri aumenti, dicevamo.

Ci si metterebbe un po’ di più, ma si potrebbe comunque riuscire almeno a ridurre il debito e così entrare in un circolo virtuoso che permetterebbe poi di pagare meno interessi sia perché diminuirebbe il debito, sia perché si potrebbero rinnovare con tassi più bassi i titoli che scadono e così, di anno in anno, il sacrificio diventerebbe sempre meno pesante.

SCIOPERI

Certamente molti, a una siffatta intenzione di un ipotetico governo, di destra o di sinistra che sia, protesterebbero vivacemente e violentemente, ma solo perché non sanno e non sono in grado di capire i vantaggi, descritti prima, che ne avrebbero. Ed è per questo che i governi attuali tengono accuratamente nascoste queste verità e dicono sempre che va tutto bene.

Partirebbero raffiche di scioperi e di proteste di piazza con altri danni all’economia nazionale; romperebbero le vetrine dei negozi, darebbero fuoco ai cassonetti della nettezza urbana e alle macchine in sosta. Tutte le manifestazioni tipiche delle masse ottuse e rabbiose che, inquadrate e guidate da capibastone ancora più ottusi, si sentono proletari sfruttati dai padroni capitalisti e però si guardano bene dal rischiare i loro risparmi per intraprendere a loro volta una attività in proprio.

Il fatto stesso che, come arma di difesa dei loro diritti impieghino lo sciopero e la distruzione, denota la mancanza di intelligenza di questo tipo di individui. Lo sciopero, proprio per sua natura, ha lo scopo di danneggiare chi ti da il lavoro. E’ stato inventato proprio con questo intendimento oltre cento anni fa e non c’è dubbio che continua ad avere questo effetto.

Se tu sei un lavoratore di quella azienda e danneggi l’azienda stessa in cui lavori, come puoi pensare di ricavarne un vantaggio? Forse vedrai un vantaggio immediato come aumento di salario o di stipendio, ma sarà un aumento fittizio che poi ripagherai, non solo con la svalutazione della moneta o con l'aumento del debito pubblico e quindi delle tasse, come spiegato sopra, ma ti troverai anche a lavorare in una azienda che ha subito delle perdite per causa dei tuoi scioperi e prima o poi ne porterai le conseguenze.

Se l’azienda ha guadagnato di meno, è proprio a te che dovrà dare di meno, o quantomeno lo ripagherà qualche altro lavoratore che non troverà il posto di lavoro perché l’azienda sarà progredita un po’ meno.

E’ come se uno si trovasse su una barca nel mare, e per protestare facesse dei buchi sul fondo della barca stessa che lo trasporta. Non a caso, l’unico paese industrializzato che non ha quasi per niente il problema della disoccupazione né del debito pubblico è il Giappone, coi suoi 120 o 130 milioni di abitanti (il doppio dell’Italia),dove non sono mai stati fatti scioperi.

E se qualcuno è contrario a questo sistema di lotta perché lo ritiene errato (il che da quanto detto fin qui non sembra questione infondata), viene sopraffatto con la violenza dispotica e cieca, come i picchetti all’ingresso del posto di lavoro e le violenze contro tranvieri, ferrovieri, camionisti che non aderiscono agli scioperi.

Anche nel mondo politico, specialmente di sinistra e alleati c’è ancora la convinzione diffusa che gli scioperi e le proteste di piazza siano cose giuste e sacrosante, diritti inviolabili come la vita, che vanno tutelati ed anche incoraggiati.

Infatti sono state emanate leggi che tutelano al massimo il diritto di sciopero, anche più del diritto di proprietà.

Dapprima hanno sancito il diritto di sciopero nell’articolo 40 della Costituzione e quindi nell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori e questo è giusto perché si tratta di una questione di libertà; non sarebbe né giusto né opportuno vietarlo.

Poi però, sarebbe altrettanto giusto che chi non vuole aderire ad uno sciopero potesse recarsi al lavoro e questo non è affatto tutelato, anzi, se subisce con la forza un impedimento a recarsi al lavoro o addirittura delle violenze, la giurisprudenza quasi sempre giustifica queste cose come un diritto del lavoratore scioperante, forse interpretando le leggi con una mentalità affetta dal luogo comune che con gli scioperi si tende a sanare le ingiustizie create dai capitalisti sfruttatori.

Il sistema di lotta dei lavoratori con l’arma dello sciopero è ingiusto di per sé perché dà più potere contrattuale a chi fa un lavoro che per sua natura ha più potere di ricatto, cioè i lavori che, se interrotti, provocano più disagi (trasporti, comunicazioni, forniture energetiche) e meno potere contrattuale per chi fa lavori che hanno poco o nessun potere di ricatto, cioè non provocano disagi nella popolazione e non provocano paralisi delle altre attività e questi, per farsi sentire con forza sufficiente, debbono ricorrere ad altre azioni altrettanto ricattatorie (blocco di autostrade, con incendio di pneumatici, cassonetti ed auto che cerchino di forzare il blocco).

E per fortuna finora non sono riusciti ad organizzarsi i disoccupati in azioni di lotta, perché figuriamoci cosa dovrebbero fare per farsi sentire con altrettanta forza.

A questo punto, chiarito che gli scioperi hanno provocato dapprima la forte svalutazione della lira (da vergognarsi), poi l’enorme debito pubblico e di conseguenza il raddoppio delle tasse che tutti dobbiamo pagare, chiarito che non hanno portato alcun miglioramento sostanziale ai lavoratori ed anzi una perdita di potere contrattuale e disoccupazione, l'unico modo per evitare che i lavoratori ottusi facciano ancora scioperi sarebbe che il datore di lavoro avesse il diritto di licenziarli quando lo fanno, ma quel dritto (sempre il Legislatore) ha pensato anche a questo ed ha inserito l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Se un lavoratore viene licenziato per questo motivo, deve essere immediatamente reintegrato nel posto di lavoro.

Con questo è come se avessero messo un lucchetto che impedisce ogni azione contro questo metodo sbagliato di lotta. Deve essere così e non si discute.

Molto meglio sarebbe stato se i lavoratori, invece di fare le lotte di classe, seguendo beotamente i dettami dei sindacalisti che li guidavano e sostanzialmente della dottrina di Marx, in questi ultimi 40 anni avessero cercato di entrare in compartecipazione nelle società che creavano lavoro, comprando le loro azioni, quotate o meno in borsa, coi loro risparmi o con quei soldi che fanno parte della retribuzione ma che si chiamano TFR.

Oggi non avremmo la lira svalutata come carta straccia rispetto alle altre valute, non avremmo il debito pubblico, non avremmo tanta disoccupazione e tanta povertà generalizzata e di contro una ristretta cerchia di nullafacenti che si sono arricchiti, molto più di quanto già lo erano, con gli interessi sui titoli del debito pubblico (poco cambia se una parte di questi ultimi sono stranieri) ed inoltre non avremmo avuto la croce degli scioperi perché nessuno avrebbe fatto scioperi contro se stesso.

Lungi dal cambiare metodo, ancora si continua stupidamente a fare scioperi. Naturalmente si comincia con treni, bus, tram e metropolitane, aerei, controllori di volo, traghetti. Poi cominceranno gli altri che per, farsi sentire, dovranno ricorrere ai blocchi stradali ed un po' di distruzioni.

Mi pare perciò che il governo, di qualunque colore sia, non possa fare nulla né per risolvere il problema della disoccupazione né quello del debito pubblico e di conseguenza delle forti tasse che si debbono pagare, della malavita dilagante, e di altri problemi che derivano da questi, a meno che non trovi il modo di far capire alle masse, specialmente ai tipi più agguerriti e organizzati nelle lotte di classe, che conviene a tutti smettere coi vecchi metodi e cominciare un nuovo modo di vivere nella Società. (naturalmente prima ancora dovrebbe capirlo chi è al governo).

Dovrebbe far capire i vantaggi che deriverebbero per tutti, se si riducesse o meglio si annullasse il debito pubblico, per una Società più ben organizzata, più ordinata e soprattutto più giusta perché non trasferirebbe più i soldi dal povero al ricco, perché, forse tanti non l’hanno ancora capito, ma i titoli dello Stato, BOT eccetera li compra chi ha i capitali e noi con le tasse gli paghiamo gli interessi. Lo Stato italiano è un Robin Hood al contrario: toglie ai poveri per dare ai ricchi.

Ma come potrebbe fare il governo per far capire al popolo che gli conviene fare un po’ di sacrifici per ridurre il debito pubblico? Non riesco proprio ad immaginarlo e non lo vedo possibile.

I dibattiti in televisione, tipo Pinocchio o Samarcanda o Porta a Porta non servono a nulla perché il ragionamento è piuttosto complesso; sono vari fenomeni legati tra loro che bisognerebbe far comprendere.

Se uno comincia a spiegare il primo aspetto del problema, l’altro lo interrompe cercando di sovrastarlo sulla voce e non lo lascia finire e provoca una deviazione dal filo del discorso iniziato.

Si mettono entrambi a battibeccare su cose diverse e lo spettatore non riesce a capire proprio niente. Poi quando il primo cerca di riprendere il ragionamento, il Santoro o il Lerner di turno gli dice: “Lei ha già parlato molto”. Per loro il parlare va a metraggio, poco importa quello che si dice.

Non si tratterebbe di plagiare le masse, come sicuramente qualcuno obietterà, ma di aprire loro un po’ la mente, far loro capire la verità ragionando. Il terzo buco sotto il naso si è dimostrato inutile.

Proprio perché non vedo come si possa far capire alle masse questo problema ho intitolato questa mia riflessione “ L’ITALIA NON CE LA FARA’ “.

Amen.

POST SCRIPTUM

E’ curioso il fatto che in Italia, tutti i politici di sinistra sono tanto aperti su tutti i problemi sociali; direi proprio liberisti. Per le coppie di fatto, per la procreazione assistita, per le adozioni, per la legalizzazione della droga, per i drogati, per l’immigrazione di extracomunitari, per i gay, per le coop a luci rosse, per il condono ai carcerati (se non fossi d’accordo su tutte queste cose lo chiamerei “liberismo selvaggio”) e invece sono tanto chiusi sul tema del lavoro.

Evidentemente si tratta di un odio atavico contro i capitalisti, cioè i “padroni” che si arricchiscono col lavoro degli altri.

Forse hanno già capito che così facendo si produce una maggiore sperequazione tra i ceti, disoccupazione, povertà, emarginazione, ma il fatto è che quell’odio di classe è il fondamento del Socialismo e del Comunismo e se dovessero negare questo principio, dovrebbero negare se stessi e la loro storia.

I politici di destra e di centro autentico (da distinguere dai cattocomunisti), al contrario, sono aperti ai problemi del lavoro e quindi dell’economia, anche se non li ho mai sentiti prendere una posizione netta, chiara e ben definita. Dicono solo che si pagano troppe tasse, ma non hanno mai spiegato perché e come intenderebbero fare per eliminare il peso del debito pubblico.

Sono invece molto chiusi su tutti i problemi sociali. Le famiglie debbono essere fatte solo da coppie sposate; i gay sono una vergogna da nascondere; la procreazione deve avvenire solo attraverso un accoppiamento sessuale tra maschio e femmina sposati; i colpevoli di reati debbono andare in galera e restarci finché hanno scontato tutta la condanna, perché, se escono prima, tornano a delinquere; la droga deve essere proibita. Poco importa se poi la proibizione della droga promuove un traffico della stessa di dimensioni colossali, anzi, (sentito da qualcuno tra la gente) ci vorrebbe la pena di morte per i trafficanti, così una dose, invece di costare 200.000 lire costerà due milioni e chi faceva scippi per potersi comprare una dose, passerà alle rapine; uno spacciatore, vendendo una sola dose, potrà campare un mese.

In questa situazione, quale sarà il futuro dell’Italia? Secondo me, è molto oscuro.

Vorrei che qualcuno mi convincesse del contrario.

Può darsi che anche le mie siano chiacchiere inutili e sbagliate come quelle che sento spesso in televisione, sui giornali e tra la gente; non lo so; però questo mi sembra il ragionamento più logico e concreto.

Se qualcuno le trova chiacchiere inutili e sbagliate, lo pregherei di contestarmele. Gliene sarei molto grato, perché vorrei sapere dove sbaglio.

Io non sono né per le destre né per le sinistre, né per il Comunismo né per il Capitalismo per principio; sono soltanto alla ricerca dalla verità.Vorrei la partecipazione di tutti per trovarla, perché è interesse di tutti e così non si può andare avanti; per noi, per i nostri figli e per i nostri nipoti.