Sezione di Este (PD)

Icona, preghiera in immagine
di Samuela Rinaldo

Il termine "icona" fu coniato nel XIV secolo dal russo ikona che a sua volta deriva dal greco eikon (=immagine). L’icona è un dipinto portatile su tavola con immagini sacre. Le più antiche provengono dalla Palestina, dalla Siria, dall’Egitto e da Bisanzio e risalgono ai secoli IV-VI, ma la maggior fioritura si ebbe nei secoli successivi, specialmente a Creta, in Russia e nei paesi balcanici dove la produzione di icone continuò ininterrottamente fino al XVIII secolo. Di viva devozione popolare, le prime icone vennero attribuite a San Luca, mentre altre, dette acheropite, cioè non fatte da mano umana, secondo la tradizione sarebbero state realizzate addirittura da Angeli.

Le icone, spesso ornate da lamine d’oro o d’argento, da smalti e da pietre preziose, erano ridipinte più volte (cosa che rende più difficile la datazione) e mantenute in un linguaggio stilistico convenzionale e uniforme.



Le origini dell’arte bizantina e delle icone


Nel 330 d.C. Costantino fondò la nuova capitale Costantinopoli, ma quasi duecento anni dovevano trascorrere prima che si rivelassero le caratteristiche fondamentali dello stile bizantino emerse a poco a poco dal tardo classicismo e dall’arte paleocristiana, con il contributo dei diversi gruppi etnici, soprattutto dei greci, dei romani, dei siriaci, degli ebrei, dei copti e delle popolazioni delle popolazioni della Mesopotamia e dell’Iran.


Ebbe particolare importanza l’arte popolare dell’Oriente cristiano che nei primi quattro secoli dell’era volgare si distinse per la sua straordinaria ricchezza e varietà. Il cristianesimo, diffusosi rapidamente in oriente, stimolò larghe masse popolari e numerose comunità che ancora non avevano subito forti pressioni da parte della Chiesa centralizzata e dei pubblici poteri. Elaborarono, quindi, un proprio sistema di forme artistiche e ornamentali. Era un’arte sincera, ingenua, e senza pretese, che ogni popolano capiva e ammirava, permeata di quella forza un po’ rude e di quell’espressività che contrastavano nettamente con le forme raffinate, e un po’ anemiche, del tardo classicismo di carattere spiccatamente cittadino.



Arte copta: Cristo con il santo abate Mena – VI Secolo

Nel processo di formazione dell’arte paleocristiana e bizantina, l’arte popolare dell’Oriente cristiano fu un fattore di enorme importanza, perché esso si conservò non solo durante l’epoca bizantina ma anche dopo la caduta dell’Impero. L’arte popolare fu destinata, infatti, a rinnovare radicalmente l’invecchiato linguaggio artistico del classicismo dandogli un contenuto interamente nuovo. L’arte popolare dell’Oriente cristiano e quella bizantina sono comunque da distinguere perché, pur coesistendo, non si fusero mai. Sebbene, infatti, l’arte bizantina avesse in comune con quella dell’oriente cristiano la concezione religiosa e il suo linguaggio artistico (e fosse perciò accessibile ai semplici credenti), essa si formò in tutt’altro ambiente sociale .essendo il prodotto di una grande città (Bisanzio), di un ambiente aulico e di una Chiesa statale centralizzata. Espandendosi calpestava senza pietà i germogli delle culture nazionali, livellando e fondendo in unico stile, quello della capitale, l’infinità varietà delle loro manifestazioni.

Spesso le icone e i mosaici bizantini sono analizzati secondo i canoni classici, sottolineando soprattutto gli elementi ellenistici considerati fattori fondamentali ai fini della valutazione. L’analisi non va oltre le fonti principali dell’arte bizantina, cioè l’Ellenismo e l’oriente. Sembra facile dedurre che Bisanzio non riuscì mai a superare il dualismo insito nelle sue origini e, in effetti, quasi mai Ellenismo e Oriente si fusero in un’unità inscindibile.

In realtà, però, la vera Bisanzio presentava un’unità organica e monolitica. Formatisi attraverso un lungo e prolungato processo dei più contrastanti elementi, essa aveva gradatamente elaborato un proprio stile assorbendo in uguale misura sia il sensualismo antico che le primitive tendenze espressionistiche dell’oriente. Essa conservò sostanzialmente l’antropomorfismo ellenistico che Bisanzio arricchì di un nuovo contenuto spirituale che esprimeva l’essenza del cristianesimo orientale.

L’arte cessò di essere oggetto di una percezione puramente sensoria e si trasformò in un potente strumento dell’influenza religiosa, destinato ad allontanare il credente dal mondo materiale per indurlo a quello trascendentale. E fu la società di Costantinopoli ad esercitare un’influenza decisiva su tutto il corso dello sviluppo dell’arte bizantina. Era una società che viveva lussuosamente, costituita da un’aristocrazia fondiaria che concentrava nella sue mani enormi ricchezze, capace di incoronare e detronizzare sovrani a suo piacimento fino a diventare una potentissima oligarchia burocratica ereditaria, da una nutrita schiera di burocrati, amministratori, funzionari diplomatici, dal Clero, un vero e proprio apparato statalizzato della Chiesa, avido di denaro, che aveva anch’esso un carattere amministrativo e che si destreggiava abilmente nelle correnti politiche quanto nella vigilanza e nella difesa dei Dogmi della Chiesa. Infine arrivava l’imperatore, la rappresentazione terrena del potere statale, nominato da Dio come dignitario supremo per la cura del popolo e la conduzione a Sommo Bene. L’imperatore era il vicario di Dio in terra e, quindi, lo stato era un riflesso del Regno Celeste. La persona dell’imperatore era sacra e i sovrani non solo si consideravano i rappresentanti del potere secolare, ma anche sommi sacerdoti e pertanto, nel mondo bizantino, era praticamente impossibile separare nettamente il potere temporale da quello spirituale. I patriarchi, infine, dipendevano interamente dai sovrani anche se il loro potere era di poco inferiore a quello degli stessi imperatori. Essi erano i custodi dei Dogmi, e degli elaborati riti liturgici e, con l’imperatore, difendevano l’ortodossia religiosa dagli attacchi dell’eresia. Nella storia dell’impero bizantino numerosi furono i concili indetti proprio per combattere le molte eresie che si propagavano nel suo territorio e tutti concili erano convocati e presieduti dall’imperatore che, spesso, si arrogava delle facoltà che invece spettavano al Papa.

Proprio per scongiurare il rischio di eresie, si esercitavano ferrei controlli ovunque, anche nell’arte. L’attività dell’artista era sottoposta a regole severissime e le innovazioni erano ammesse soltanto per esplicito consenso della corte e della Chiesa. La personalità dell’artista era del tutto secondaria di fronte a quella del committente e, per questo motivo, le icone sono generalmente anonime. Inoltre l’atto creativo aveva un carattere del tutto impersonale, perché considerato in stretto rapporto con la ispirazione divina. Chiunque violasse questa "regola" era considerato un eterodosso, un nemico dell’ortodossia, un eretico. Era, quindi, impossibile qualsiasi rivoluzione artistica e perciò il processo evolutivo fu lentissimo. L’artista non era creatore di valori individuali, di opere nate dalla sua fantasia libera di esprimersi, ma diventava l’interprete della Potenza Ultraterrena.

La corte e la Chiesa esigevano che le icone avessero un contenuto programmatico, didascalico e precettistico e che il loro fosse un compito didattico. Esse dovevano esporre i fatti religiosi in modo preciso e accessibile a tutti, per stimolare la memoria e l’apprendimento.

L’arte doveva abbagliare i "barbari", diventare l’emblema dello sfarzo del culto, del cerimoniale e dello splendore della corte per stupire e mostrare la potenza dell’impero. L’arte delle icone, e quella bizantina in genere, si fondava su una rigorosissima simbologia. Alla base di tutto c’era la concezione dell’universo diviso in due mondi nettamente distinti: quello dei sensi e quello dello spirito. Analogamente l’uomo, fatto di carne e spirito, sentiva con forza dentro di sé i conflitti che questa dualità gli provocavano e viveva da una parte ossessionato dal peccato e dal timore della morte, e dall’altra nell’aspirazione costante a Dio che risiedeva, rispetto al mondo, nella più remota lontananza. Poteva essere una visione estremamente pessimistica se non fosse stata illuminata da una certezza e cioè che Dio era venuto sulla terra, si era incarnato e aveva vinto la morte ed il peccato. Perciò, se Dio aveva deciso di farsi uomo, quest’ultimo, pur restando una creatura imperfetta, aveva un posto di rilievo nel creato e, quindi, il corpo non diventava più la prigione dell’anima ma il tempio dello Spirito Santo. La fede in Cristo, l’imitazione della sua vita e l’osservanza dei suoi precetti, erano gli strumenti per elevare l’uomo dalla "valle di lacrime" e condurlo a Dio. Era perciò importantissima la pratica del culto che assommava in sé tutti i misteri e questi ultimi, con i sacramenti e ogni atto liturgico, erano i simboli e le allusioni sensibili al mondo trascendentale. Le pratiche misteriche dovevano condurre l’uomo nelle sfere superiori dello Spirito. Il fedele avvertiva in Chiesa la presenza vicina di Dio, ascoltava gli inni, aspirava l’incenso e contemplava le icone penetrando l’ultimo significato delle parole del servizio divino. La Chiesa centralizzata sapeva sfruttare tutto questo a suo vantaggio, inculcando nei suoi fedeli la convinzione che fosse impossibile salvarsi se non si partecipava ai riti del culto. Tutto si basava su una complicata simbologia:

- il nartece1 era la terra su cui si trovavano catecumeni e penitenti;
- la navata centrale era il cielo visibile destinato agli adulti;
- il coro era il regno del puro spirito, promesso agli ecclesiastici;
- l’altare era il trono di Dio;
- i lumi dell’altare e della chiesa in genere erano le stelle del cielo;
- l’incenso era l’alito e il profumo dello Spirito Santo.

Il servizio divino era quindi l’allusione al mondo sovrasensibile. I fedeli venivano abbacinati e avvolti dai marmi policromi, dall’oro dei mosaici, dall’iconostasi, da dove li fissavano i santi, gli asceti e i martiri, e dai ricchi paramenti sacri. L’immagine sacra aveva il compito di indirizzare verso il cielo i pensieri del fedele e di indurlo alla contemplazione di ciò che è puro, e proprio grazie all’aiuto delle icone il cristiano poteva staccarsi da tutte le cose terrene. Soltanto con queste immagini si poteva pervenire alla conoscenza del mondo trascendentale e, poiché si raffiguravano i prototipi ideali dei fenomeni, l’iconografia doveva essere caratterizzata da grande stabilità. Da singoli archetipi si elaboravano i ritratti dei prototipi di Cristo, di Maria, di vari santi, asceti e martiri e le scene bibliche ed evangeliche venivano rivestite in forme rigorosamente stabilite. Non c’era posto per la libera fantasia creatrice, che poteva introdurre l’anarchia in una tematica sottoposta a ferree leggi, e perciò i modelli iconografici consacrati dalla tradizione venivano interpretati come una rappresentazione veridica di personaggi e fatti realmente accaduti, e si conservavano per secoli subendo soltanto insignificanti modifiche e serbando costantemente l’impronta dei loro archetipi ideali. Le icone, come i mosaici, avevano un astratto fondo d’oro che sostituiva lo spazio vero e tridimensionale e isolava, staccandola dal corso reale della vita, l’immagine rappresentata che veniva a collocarsi in un mondo ideale privo di legami con la terra. Gli oggetti erano senza peso e le figure, senza volume, si profilavano come ombre incorporee ricoperte da una fittissima rete di righe dorate che pareva simboleggiare i raggi emanati dalla divinità. Le abitazioni di queste figure incorporee erano edifici leggeri ed aerei ai quali la prospettiva inversa2 conferiva una natura fragile e immateriale. Il corpo era trattato secondo i canoni di un severo ascetismo. Gli abiti ricadevano in rigide pieghe, le piante erano stilizzate e geometriche, le montagne e le colline avevano forme cristalline. Il colore irreale rendeva ancora più sensibile il distacco dell’immagine dal mondo terreno che comunque, molto spesso, appariva ancora legato alle tradizioni dell’illusionismo antico, perché ne aveva conservato ancora la raffinatezza delle sue delicate sfumature, anche se queste presto cedettero posto alle tinte unite che esprimevano l’immutabilità dell’essenza dei fenomeni. L’immagine artistica non divenne mai astratta a Bisanzio che, dall’Ellenismo, ereditò la tecnica illusionistica evitando che il volume si dissolvesse completamente nella superficie del piano.

L’arte a Bisanzio si basò sempre sulla figura umana e proprio in questo si distinse dall’Oriente, dove l’ornamentazione e la stilizzazione geometrica prendevano spesso il sopravvento. A Bisanzio la figura umana fu sempre al centro degli interessi artistici, perché l’antropomorfismo bizantino era profondamente radicato nell’ideologia religiosa. La dottrina del Verbo incarnato, che aveva assunto sembianze umane e in tal modo aveva portato la salvezza all’umanità, fece dell’uomo l’asse dell’universo. Il rapporto che c’era fra l’antropomorfismo e la dottrina dell’incarnazione di Cristo, si espresse particolarmente nell’iconoclastia, ovvero la lotta al culto delle immagini sacre. L’iconoclastia ebbe ufficialmente inizio nel 726, quando Leone III Isaurico ordinò la distruzione delle immagini sacre spinto da vari motivi:

- l’influenza delle religioni orientali (Islam ed Ebraismo) che vietavano le immagini sacre;
- il desiderio di frenare il loro culto eccessivo per scongiurare il rischio dell’idolatria;
- la volontà di frenare il grande potere che il clero esercitava sul popolo.

Ne seguirono scontri violentissimi finché, nel 787, fu convocato a Nicea un concilio che deliberò la liceità del culto delle immagini. Tuttavia l’imperatore Leone IV Armeno riprese la lotta fino all’842, quando l’imperatrice Teodora accettò finalmente i decreti conciliari e con i concili dell’869 terminò la lotta. Vinse, quindi, il partito ortodosso che affermava la possibilità di raffigurare Cristo nelle icone. La sua rappresentazione era una garanzia dell’Incarnazione. Se Cristo aveva realmente assunto sembianze umane, allora lo si poteva raffigurare.


L’origine delle icone e la loro evoluzione


Si pensa che le prime icone fossero i ritratti dei celebri monaci stiliti del V secolo, eseguiti quando questi erano ancora in vita e distribuiti alla folla di pellegrini che giungevano da ogni parte per venerarli3. Prima si effigiarono i santi che simboleggiavano la più alta consacrazione a Dio, espressa nella repressione della natura carnale e nel distacco completo dal mondo. Più tardi, quando nelle icone si incominciò a rappresentare Cristo, Maria e molti altri santi, l’ideale ascetico ricevette un’ulteriore elaborazione e si liberò a poco a poco di ogni residuo di sensualismo classico. Gli iconoclasti, infatti, si battevano proprio per un’arte strettamente spiritualistica, quale si sviluppò in effetti a Bisanzio poco dopo la restaurazione del culto delle icone. Già condannata a Nicea, la scultura a tutto tondo scomparve perché era un’arte rivolta alla glorificazione corporea e non a quella spirituale, e proprio a partire dal nono secolo le ricerche creative dei pittori bizantini giunsero all’elaborazione definitiva di quel modello ideale rimasto inalterato per secoli. Nelle rappresentazioni si diede massima importanza alla testa. Quest’ultima concentrava la capacità espressiva dell’anima e divenne l’elemento dominante della figura, mentre il corpo acquistò un’importanza secondaria e, quasi privo di peso, era celato dietro le pieghe raffinate delle vesti il cui ritmo lineare aveva un’impronta astratta e irrazionale. Nell’icona bizantina la testa assumeva il ruolo eccezionale che il torso aveva assunto nella scultura e nella pittura classica. L’artista bizantino partiva proprio dalle dimensioni del capo per fissare le proporzioni della figura. Nello sforzo di mostrare il più possibile l’anima, si effigiava il volto in modo caratteristico: gli occhi, fissi sull’osserva-tore, erano esageratamente grandi; le labbra sottili, quasi immateriali, erano prive di sensualità; il naso si profilava come una linea insignificante, verticale o leggermente curva; la fronte era molto alta e con le sue dimensioni schiacciava tutto il resto del viso. La figura diventava in tal modo quella forma sensibile che permetteva all’uomo di elevarsi verso Dio. La costruzione frontale e la prospettiva inversa facevano si che l’attenzione del fedele convergesse verso il punto focale del contenuto spirituale, e cioè gli occhi del santo fissi sull’orante. L’uso della prospettiva inversa costringeva a concentrarsi sulla composizione dell’immagine, sulla sua staticità per condividere l’ascesa verso Dio. L’immobilità delle figure antropomorfe nella pittura bizantina conteneva, quindi, un elemento profondamente religioso. L’uomo era immobile quando era pervaso dallo spirito divino, quando era quindi partecipe della pace della vita divina. L’uomo che non aveva ancora acquistato, o aveva perduto la grazia e non si era acquietato in Dio, era perciò rappresentato come una figura mobilissima, piena di tensione nervosa. Nell’icona bizantina i santi erano rappresentati un uno stato di ascetica impassibilità, i sensi sopiti, gli occhi della mente assorti nella contemplazione della divinità. L’icona era perciò creata per la meditazione e per la preghiera e, essendo indirizzata alla conoscenza del mondo trascendentale, era avulsa dalla realtà. Fatta per immergere l’uomo nella quiete della contemplazione, era priva di dinamismo.

Tra le icone dei secoli VI e VII sono qualitativamente migliori quelle eseguite ad "encausto"4, tecnica che gli artisti cristiani ereditarono dagli antichi. Un importante centro di produzione di questo tipo di icone era il monastero di Santa Caterina sul Sinai. Dopo la lotta iconoclasta, si arriva allo stile "classico" delle icone bizantine fino a giungere ad un "neoclassicismo" gelido, ma alla fine del V secolo lo stile "neoclassicista" si evolve verso una graduale spiritualizzazione della forma. Lo spiritualismo trionfa definitivamente e questo si vede nelle figure che divengono immateriali, nei volti che acquistano un’espressione severa ed ascetica. Si semplifica e schematizza la concezione dello spazio e al "pittorismo" subentra il "lienarismo" e la gamma cromatica perde le sfumature impressionistiche, diventando compatta e a colori staccati. Tra le icone si prediligono quelle che anno per tema:

- la Vergine: Teotokos, cioè madre di Dio; Odighitria, cioè che conduce e indica la via; Dormizione della Vergine; Vergine Orante, tra santi, angeli, eccetera. La Vergine è legata al Dogma dell’Incarnazione ma è anche il simbolo della chiesa terrena;
- Cristo: il ciclo della passione, morte e risurrezione di Cristo; Cristo crocifisso, triunphans o morto; Cristo Pantocrator in veste di basileus;
- Ascensione, Pentecoste, Trinità e Deesis5.


Deesis – XII secolo – Santa Sofia, Istambul

Il Cristo, dal busto possente, è simbolo del demiurgo e, in genere, con Maria ha dimensioni maggiori rispetto a quelle degli apostoli, dei santi e soprattutto, se ci sono, dei committenti (si parla di proporzione gerarchica). Comunque, a mano a mano che il tempo trascorre, si accentua sempre più lo spiritualismo e la resa illusionistica dello spazio è sostituita da una superficie sempre più astratta dove le figure, un tempo pesanti, acquistano maggiore leggerezza e i volti assumono un’austera espressione ascetica. L’insieme diventa sobrio, fragile ed immateriale. Le icone rappresentano sempre santi in rigidi atteggiamenti frontali dall’aspetto severo e con gli occhi fissi sullo spettatore.

A partire dall’anno Mille si diffonde ampiamente il fondo d’oro che pone l’immagine fuori dal tempo e dallo spazio. I ricchi sfondi architettonici si semplificano e si schematizzano sempre più, gli edifici appiattiti diventano simili a fantastiche costruzioni che hanno perso ormai ogni legame con il mondo reale, casette di "carta" con funzione di quinte decorative. Le figure, a volte accentuatamente allungate, acquistano un’eterea leggerezza. I volti severi, ascetici sono profondamente spirituali e i movimenti obbediscono a rigide regole. Appare quella ieraticità delle figure, immobili nei loro gesti prestabiliti, che gradualmente conduce al sopravvento di una posizione frontale statica. Fra i colori assumono una funzione fondamentale quelli densi e compatti che ricordano, con le loro sfumature, gli smalti preziosi e l’amore per i colori iridescenti che accentua l’irrealtà della tavolozza.

Cominciano poi a svilupparsi delle icone musive portatili di grande abilità, prodotte in genere a Costantinopoli. Composte da piccolissime tessere, spesso non più grandi della capocchia di uno spillo, queste icone devono essere annoverate tra le opere più perfette dell’arte bizantina, emblemi della raffinatezza del gusto metropolitano. Le piccole icone musive si diffusero specialmente tra fine del XIII secolo e nel XIV, in un momento in cui si erano anche particolarmente sviluppati testi ricchissimi di miniature che ben rispondevano ai gusti intimistici. Le icone musive furono eseguite anche nel XII secolo con tesserine di svariati colori e con grande abbondanza di oro e di argento che le rende ancora più preziose.

Un altro gruppo è formato dalle icone di dimensioni più grandi che riflettono lo stile della contemporanea pittura monumentale. Spesso ai piedi del santo è rappresentato il committente inginocchiato, la cui figura minuscola sottolinea tutta la distanza tra il santo e il semplice mortale. L’espressione del volto dei santi rappresentati e i colori usati, di tonalità scura che va dal violetto al verde grigiastro, conferiscono alle immagini un aspetto particolarmente austero. Le icone di dimensioni minori, che per tecnica di esecuzione si avvicinano alle miniature, ebbero vasta diffusione e spesso venivano create per la preghiera individuale in cappella o nella cella monastica e componevano dittici, trittici, o addirittura polittici. Un esemplare fondamentale della pittura metropolitana del XII secolo è la celebre icona della Vergine di Vladimir.


Vergine di Vladimir – XII secolo

Un altro esempio di pittura bizantina a cavalletto, è costituita dai menologi su icona che si diffondono nel XI e nel XII secolo. Vi sono raffigurate, con insistente monotonia, teorie di santi in piedi, disposte in ordine cronologico secondo la ricorrenza delle loro festività nel calendario liturgico greco. Icone di questo tipo, ispirate alle miniature dei menologi illustrati, abbondano di figure minuscole ciascuna contrassegnata dal nome. Per aumentare il numero di tali figure, gli artisti le disponevano in fila una sopra l’altra, raggiungendo persino il numero di nove o dieci fasce sovrapposte. Spesso in alto, in medaglioni, appaiono le dodici feste e le mezze figure di Cristo e della Vergine.

Un altro tipo è occupato dalle icone di forma accentuatamente allungata che decoravano la parte superiore della "pergula". Essa consisteva in una transenna marmorea sulla quale si innalzavano pilastri o colonne che sorreggevano architravi. Su questi erano scolpiti di solito busti di santi che spesso componevano le Deesis e, essendo collocati nel posto più in vista della chiesa, attiravano l’attenzione di tutti i fedeli. Maria e San Giovanni Battista simboleggiavano la mediazione fra Dio e l’uomo e fungevano da intercessori del genere umano invocando da Cristo indulgenza verso i peccatori. Il templon si trasformò poi nell’iconostasi.


Icona dei Santi Eletti – XIV secolo

La Russia fu uno dei territori dove più si sviluppò la pittura di icone bizantine. I volti "russi" solo tracciati e contornati con linee marcate. Con linee altrettanto calcate, sono poste sulla carne lumeggiature bianche mentre le figure, allungate e piatte, indossano vesti che ricadono in uniformi pieghe lineari. Tra le icone predominano le tavole grandi, monumentali, dalle figure imponenti che, nella maggior parte dei casi, hanno grandezza naturale. I santi, raffigurati su fondi d’oro e d’argento, sono rappresentati in atteggiamenti frontali, solenni ed immobili; i volti austeri sono ottenuti con linee energiche, scandite da un ritmo astratto; i corpi, privi di modellato, sono celati dietro vesti piatte che ricadono in pieghe lineari. La gamma di colori è generalmente scura e svolgono una funzione importante i colori smorti. Tra i toni azzurri si preferisce l’indaco scuro, tra i verdi quello smeraldo. I prototipi provenivano da Bisanzio ma la russificazione si avverte nelle figure secondarie che di solito decorano i bordi delle icone.

Nell’ultimo secolo e mezzo di vita dell’impero bizantino, caduto nel 1453, si avvertono delle novità in campo artistico che fanno parlare di un cosiddetto Rinascimento Paleologo, dal nome della dinastia al potere. Nell’icona, da ora in poi, è tutto dinamico: i panneggi svolazzano, si accentua la gestualità delle figure, i loro movimenti divengono assai più liberi, le forme architettoniche si ammassano dinamicamente l’una sull’altra, diventando quinte dove prevalgono le linee curve e spezzate. Le figure, gli sfondi architettonici e paesaggistici si fondono in un unico insieme. Le figure sono più piccole e lo spazio aumenta di profondità mentre i lineamenti del viso diventano più delicati e l’espressione si fa meno severa. Gli episodi sacri assomigliano a scene di vita quotidiana, permeati di intimità e sentimentalismo. La tavolozza diventa più morbida, più dolce, delicata e chiara. Si afferma uno stile più sciolto e pittoresco di tendenza umanistica ma non del tutto realistica perché le figure continuano ad essere prive di peso e di volume. Tra i più importanti maestri di questo periodo si ricordano Teofane Il Greco e Andrej Rublev. Il primo emigrò da Costantinopoli in Russia dove fondò una scuola che rivoluzionò l’arte bizantina russa. Teofane pose le basi per una iconostasi più sviluppata in altezza e per primo sostituì le mezze figure, abituali per i bizantini, con quelle a figura intera. Le sue icone superano i due metri di altezza (Andrej portò l’altezza delle icone fino a tre metri) e le sue alte e possenti figure si stagliano nettamente con le loro sagome scure sullo sfondo d’oro. L’influsso di Teofane Il Greco fu incisivo nella scuola di Novgorod, la più importante dopo quella di Mosca. Nelle sue Deesis, Teofane non mette in rilievo il momento del perdono generale, ma soprattutto la preghiera dei santi per l’umano genere peccatore. Cristo è rappresentato come un giudice severo e non come il Salvatore pietoso pronto a venire in aiuto dell’umanità. Questa è la differenza principale tra Teofane e Rublev, che fu a cavallo tra il ’300 e il ’400 suo allievo e collaboratore. Lo stile di Rublev è sicuramente più addolcito e meno pessimista di quello di Teofane e il suo più grande capolavoro è la Trinità Angelica.


Teofane il Greco, Dormizione della Vergine, XIV-XV secolo


Andrej Rublev, Trinità angelica, 1411



Riferimenti Bibliografici

Ernst Kitzinger, L’arte bizantina, Il saggiatore.
Viktor Lazarev, Storia della pittura bizantina.

Fonti delle immagini
AA.VV., (1976), Storia dell’Arte, Istituto Geografico De Agostini.
AA.VV., (1973), L’uomo e il tempo, Arnoldo Mondadori Editore.
AA.VV., (1972), Santa Sofia, Arnoldo Mondadori Editore.

Note
1. Portico delle basiliche paleocristiane. Se è esterno alla facciata si chiama esonartece, se interno endonartece
2. Consisteva nella collocazione in secondo piano di oggetti e figure di dimensioni più grandi.
3. I monaci stiliti praticavano pubblica penitenza passando l’intera vita sopra una colonna.
4. Tecnica pittorica antica usata fino al nono secolo consistente nello stendere a caldo i colori mischiati a cera fusa.
5. Tema iconografico tipico dell’arte bizantina che rappresenta la figura del Cristo Giudice accompagnato a destra dalla Vergine, e a sinistra da San Giovanni Battista, che intercedono per i peccatori al momento del Giudizio Universale. Sono rappresentati sempre a mezza figura.

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