I FIORI DEL MALE

LES FLEURS DU MAL

 

 

AL LETTORE

 

 

La stoltezza, l'errore, il peccato, l'avarizia, abitano i nostri spiriti e agitano i nostri corpi; noi nutriamo amabili rimorsi come i mendicanti alimentano i loro insetti.

I nostri peccati sono testardi, vili i nostri pentimenti; ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni e ritorniamo gai pel sentiero melmoso, convinti d'aver lavato con lagrime miserevoli tutte le nostre macchie.

È Satana Trismegisto che culla a lungo sul cuscino del male il nostro spirito stregato, svaporando, dotto chimico, il ricco metallo della nostra volontà.

Il Diavolo regge i fili che ci muovono! Gli oggetti ripugnanti ci affascinano; ogni giorno discendiamo d'un passo verso l'Inferno, senza provare orrore, attraversando tenebre mefitiche.

Come un vizioso povero che bacia e tetta il seno martoriato d'un'antica puttana, noi al volo rubiamo un piacere clandestino e lo spremiamo con forza, quasi fosse una vecchia arancia.

Serrato, brulicante come un milione di vermi, un popolo di demoni gavazza nei nostri cervelli, e quando respiriamo, la morte ci scende nei polmoni quale un fiume invisibile dai cupi lamenti.

Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l'incendio, non hanno ancora ricamato con le loro forme piacevoli il canovaccio banale dei nostri miseri destini, è perché non abbiamo, ahimé, un'anima sufficientemente ardita.

Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, fra i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi,

uno ve n'è, più laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo.

È la Noia! L'occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato - tu, ipocrita lettore - mio simile e fratello!

 

SPLEEN E IDEALE

 

 

 

1 • BENEDIZIONE

 

Allorché, per decreto delle potenze supreme, il Poeta appare in questo mondo attediato, sua madre impaurita e carica di maledizioni stringe i pugni verso Dio che l'accoglie pietoso:

- «Ah, perché non ho partorito un groviglio di vipere piuttosto che nutrirmi in seno questa cosa derisoria? Maledetta sia la notte d'effimeri piaceri in cui il mio ventre ha concepito la mia espiazione!

Poi che m'hai scelta fra tutte le donne perché divenissi disgustosa al mio triste marito, non potendo rigettare nelle fiamme come un biglietto amoroso questo mostro intristito,

farò ricadere il tuo odio che m'opprime sul maledetto strumento della tua cattiveria e torcerò talmente quest'albero miserabile che esso non potrà innalzare i suoi germogli impestati.»

Inghiotte così la schiuma del suo odio e, ignara degli eterni disegni, prepara essa stessa in fondo alla Geenna i roghi consacrati ai delitti materni.

Tuttavia, assistito da un Angelo invisibile, il figlio ripudiato s'inebbria di sole, e in tutto quel che beve e che mangia trova ambrosia e nettare vermiglio.

Gioca col vento, discorre con la nuvola, s'ubbriaca, cantando, del Calvario; e lo Spirito che lo segue nel suo pellegrinaggio, piange al vederlo gaio come uccello di bosco.

Tutti coloro che egli vuole amare l'osservano intimoriti o, rassicurati dalla sua tranquillità, fanno a gara a chi gli caverà un sospiro, sperimentando su di lui la propria ferocia.

Mescolano al pane e al vino destinati alla sua bocca cenere e sputi impuri; con ipocrisia buttano quanto egli tocca, s'incolpano d'aver posto il piede sulle sue orme.

Sua moglie va gridando per le piazze: - «Poi che mi trova tanto bella da adorarmi, farò come gli idoli antichi, come essi vorrò che egli m'indori, e m'indori ancora;

m'ubbriacherò di nardo, di incenso e di mirra, di genuflessioni, di carne e di vino, per sapere se io possa, in un cuore che m'ammira, usurpare, ridendo, gli omaggi destinati alla divinità.

E, stanca di queste farse empie, poserò su di lui la mia forte e fragile mano; le mie unghie, come quelle delle arpie, sapranno farsi strada sino in fondo al suo cuore.

Simile ad un uccellino che palpita e che trema gli strapperò il rosso cuore dal petto e lo butterò, sprezzante, al mio animale favorito perché se ne sazi.»

Verso il cielo, ove il suo occhio mira uno splendido trono, il Poeta sereno leva le pie braccia, e i grandi lampi del suo spirito lucido gli precludono la vista dei popoli inferociti:

- «Sii benedetto, mio Dio, che concedi la sofferenza come un rimedio divino alle nostre vergogne e come l'essenza più pura ed efficace per preparare i forti a sante voluttà.

So che tu tieni un posto al Poeta nelle file beate delle tue Legioni, e che tu l'inviti all'eterna festa di Troni, Virtù e Dominazioni.

So che il dolore è la sola nobiltà cui mai potranno mordere e terra e inferno; e che per intrecciare la mia mistica corona si dovranno tassare tutti i tempi e tutti gli universi.

Ma i gioielli perduti dell'antica Palmira, i metalli ignoti, le perle del mare, montati dalla tua mano, non basterebbero al bel diadema, chiaro, abbagliante;

esso sarà pura luce attinta al focolare santo dei raggi primigeni, di cui gli occhi mortali, al massimo del loro splendore, non sono che specchi oscuri e lagrimosi.

 

2 • L'ALBATRO

 

Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.

Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi, candide ali, quasi fossero remi.

Com'è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco addietro così bello, com'è brutto e ridicolo. Qualcuno irrita il suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima l'infermo che prima volava.

E il Poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell'arciere, assomiglia in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.

 

3 • ELEVAZIONE

 

Al di sopra degli stagni, al di sopra delle valli, delle montagne, dei boschi, delle nubi, dei mari, oltre il sole e l'etere, al di là dei confini delle sfere stellate,

spirito mio tu ti muovi con destrezza e, come un bravo nuotatore che si crogiola sulle onde, spartisci gaiamente, con maschio, indicibile piacere, le profonde immensità.

Fuggi lontano da questi miasmi pestiferi, va' a purificarti nell'aria superiore, bevi come un liquido puro e divino il fuoco chiaro che riempie gli spazi limpidi.

Felice chi, lasciatisi alle spalle gli affanni e i dolori che pesano con il loro carico sulla nebbiosa esistenza, può con ala vigorosa slanciarsi verso i campi luminosi e sereni;

colui i cui pensieri, come allodole, saettano liberamente verso il cielo del mattino; colui che vola sulla vita e comprende agevolmente il linguaggio dei fiori e delle cose mute.

 

4 • CORRISPONDENZE

 

La Natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole; l'uomo vi attraversa foreste di simboli, che l'osservano con sguardi familiari.

Come lunghi echi che da lungi si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e il chiarore del giorno, profumi, colori e suoni si rispondono.

Vi sono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come òboi, verdi come prati - altri, corrotti, ricchi e trionfanti,

che posseggono il respiro delle cose infinite: come l'ambra, il muschio, il benzoino e l'incenso; e cantano i moti dell'anima e dei sensi.

 

5

 

Amo il ricordo di quelle epoche nude, le cui statue Febo si compiaceva indorare. Allora uomo e donna, nella loro mobilità, godevano senza menzogna e senza ansia; il cielo amoroso carezzava loro la schiena, ed essi così esercitavano le virtù del loro nobile corpo. Cibele, allora feconda di ricchi prodotti, non trovava che i figli le fossero di peso: lupa dal cuore gonfio di generosa tenerezza, nutriva l'universo con le sue brune mammelle. L'uomo vigoroso, forte, elegante, godeva del diritto d'andar fiero delle beltà che lo proclamavano re: frutti indenni da qualsiasi oltraggio, vergini di fenditure, la loro carne liscia e ferma chiamava i morsi.

Il Poeta oggi, se desidera immaginare quelle native grandezze là dove si mostrano le nudità dell'uomo e della donna, sente calare sulla sua anima un freddo tenebrore dinanzi a un quadro nero, spaventoso. O mostruosità piangenti il proprio abito! tronchi ridicoli, torsi degni di maschere; magri, poveri corpi torti, ventruti e flaccidi, che il dio dell'Utile, implacabilmente sereno, strinse, sin dalla nascita, nelle sue fasce bronzee. E voi donne, pallide ahimè come ceri, che il vizio insieme consuma e nutre, voi vergini, che trascinate l'eredità del peccato materno e tutte le brutture che porta la fecondità.

Noi abbiamo, è vero, noi nazioni corrotte, bellezze ignote a quei popoli antichi: visi smangiati dalle cancrene del cuore, bellezze fiorite dalla spossatezza. Ma queste invenzioni delle nostre ultime muse non impediranno mai alle razze malsane di rendere un omaggio profondo alla giovinezza - alla santa giovinezza, dall'aria semplice, dall'occhio limpido e chiaro come un'acqua corrente, che, incurante come l'azzurro del cielo, come gli uccelli e i fiori, sparge su tutto i suoi profumi, le sue canzoni e il suo dolce calore.

 

6 • I FARI

 

Rubens, fiume d'oblìo, giardino della pigrizia, cuscino di carne fresca su cui non si può amare, ma in cui la vita fluisce e di continuo s'agita, come l'aria nel cielo e il mare dentro il mare;

Leonardo da Vinci, specchio oscuro e profondo, in cui angeli incantevoli, con un dolce sorriso pieno di mistero, appaiono all'ombra dei ghiacciai e dei pini che ne chiudono il paesaggio;

Rembrandt, triste ospedale tutto pieno di murmuri, decorato soltanto da un grande crocifisso, ove la preghiera in lagrime esala dalle lordure e il sole d'inverno appare con un raggio improvviso;

Michelangelo, luogo indefinito in cui si vedono Ercoli mescolarsi a Cristi, elevarsi dritti dei fantasmi possenti che nei crepuscoli si stracciano di dosso il sudario stirando le dita;

e tu, che la collera dei pugili, la bellezza dei ribaldi, l'impudenza dei fauni hai saputo raccogliere, Puget, uomo debole e giallastro, grande cuore gonfio d'orgoglio - malinconico imperatore dei forzati;

Watteau, carnevale in cui tanti cuori illustri errano come farfalle di fuoco, scenari freschi e leggeri rischiarati da lumi che, versano la follia su un ballo vertiginoso;

Goya, incubo pieno di cose misteriose, di feti fatti cuocere in pratiche stregonesche, di vecchie che si specchiano e di fanciulle nude che si aggiustano le calze per tentare i demòni;

Delacroix, lago di sangue abitato da angeli maledetti, ombreggiato da un bosco di pini sempre verdi ove, sotto un cielo malinconico, strane fanfare passano come un sospiro smorzato di Weber;

queste maledizioni e bestemmie, questi lamenti, queste estasi, e gridi e pianti, questi Te Deum sono un'eco ripetuta da mille labirinti: per un cuore mortale sono un oppio divino.

È un grido ripetuto da mille sentinelle, un ordine ritrasmesso da mille portavoci, un faro acceso su mille fortezze, un suono di cacciatori perduti in grandi boschi!

Perché, veramente, o Signore, è la migliore testimonianza che noi si possa dare della nostra dignità questo singhiozzo ardente che passa di secolo in secolo per morire ai piedi della tua eternità.

 

7 • LA MUSA MALATA

 

Ahimè, povera musa mia, che cos'hai stamane? I tuoi occhi vuoti sono popolati di visioni notturne, e vedo sul colore del tuo volto riflettersi alterni, freddi e taciturni, follia e orrore.

Il succube verdastro ed il folletto rosa hanno versato in te, dalle loro urne, la paura e l'amore? E d'un pugno dispotico e ribelle l'incubo ti ha forse annegata al fondo di un favoloso Minturno?

Vorrei che esalando odore di salute il tuo petto fosse frequentato sempre da pensieri vigorosi e il tuo sangue cristiano scorresse a ritmici fiotti,

come i suoni numerosi delle sillabe antiche ove regnano volta a volta Febo, padre di canzoni e il grande Pan, signore delle messi.

 

8 • LA MUSA VENALE

 

O musa del mio cuore, amante dei palazzi, avrai tu, quando Gennaio libererà i suoi venti, nella nera noia delle sere nevose, un tizzone che scaldi i tuoi piedi violacei?

Rianimerai dunque le tue spalle marmoree ai raggi notturni che filtrano attraverso le imposte? Al sentire borsa e palazzo a secco, raccoglierai l'oro delle volte azzurrine?

Bisogna che tu, per guadagnarti il pane d'ogni sera, dondoli, come il chierichetto, l'incensiere, cantando un Te Deum cui non credi?

Oppure, come un saltimbanco a digiuno, mostrerai le tue grazie e il tuo riso molle d'un pianto che non si vede per far sì che il volgo si sganasci dalle risate?

 

9 • IL MONACO CATTIVO

 

I chiostri antichi sui loro ampi muri mostravano in immagini dipinte il santo Vero: il loro effetto, scaldando le pie viscere, temperava il freddo della loro austerità.

In quei tempi di fioritura del seme di Cristo, più di un illustre monaco (oggi raramente citato), facendo del cimitero il suo studio, con gran semplicità glorifica la Morte.

- La mia anima è una tomba che, cattivo cenobita, percorro e abito dall'eternità: ma nulla abbellisce i muri di questo chiostro odioso.

O monaco fannullone! Potrò, e quando, fare dello spettacolo vivente della mia triste miseria il lavoro delle mie mani, l'amore dei miei occhi?

 

10 • IL NEMICO

 

La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio.

Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee, è ora di ricorrere al badile e al rastrello per rimettere a nuovo le terre inondate in cui l'acqua ha aperto buchi larghi come tombe.

E chissà se i fiori nuovi che vado sognando troveranno, in un terreno lavato come un greto, il mistico alimento cui attingere forza...

O dolore,o dolore, il Tempo si mangia la vita e l'oscuro Nemico che ci divora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo.

 

11 • LA SFORTUNA

 

Per sollevare un così grande peso, Sisifo, ci vorrebbe tutto il tuo coraggio! Benché si lavori di lena, l'Arte è lunga, il Tempo breve.

Lontano dai sepolcri illustri il mio cuore, come un tamburo abbrunato, batte funebri marce verso un cimitero remoto.

- Non pochi gioielli vi dormono, sepolti nelle tenebre e nell'oblìo, lontano da zappe e da sonde.

E non pochi fiori vi effondono contro voglia il loro profumo, dolce come un segreto, in profonda solitudine.

 

12 • LA VITA ANTERIORE

 

Ho a lungo abitato sotto ampi portici che i soli marini tingevano di mille fuochi e che grandi, dritti e maestosi pilastri rendevano simili a grotte di basalto.

I marosi rotolando le immagini dei cieli, mischiavano in maniera solenne e mistica i possenti accordi della loro ricca musica ai colori del tramonto riflessi dai miei occhi.

È là che ho vissuto in calma voluttà, nell'azzurro, fra onde, splendori e schiavi nudi che, impregnati di profumi, mi rinfrescavano la fronte agitando palme. Loro unico scopo, rendere più profondo il segreto doloroso in cui languivo.

 

13 • ZINGARI IN VIAGGIO

 

Ieri s'è messa in viaggio la tribù profetica dalle pupille ardenti, caricandosi i piccoli sulle spalle e offrendo ai loro fieri appetiti il tesoro sempre pronto delle mammelle pendenti.

Gli uomini vanno a piedi sotto armi lucenti di fianco ai carrozzoni in cui stanno, accucciate, le famiglie, e girano al cielo gli occhi appesantiti dal triste rimpianto di assenti chimere.

Dal fondo della sua tana sabbiosa il grillo, vedendoli passare, rinnovella il suo canto: Cibele, che li ama, arricchisce le sue verzure,

fa sgorgare acqua dalla roccia, spuntare fiori dal deserto per questi viaggiatori cui s'apre l'impero familiare delle tenebre future.

 

14 • L'UOMO E IL MARE

 

Uomo libero, sempre tu amerai il mare! Il mare è il tuo specchio; tu miri, nello svolgersi infinito delle sue onde, la tua anima. Il tuo spirito non è abisso meno amaro.

Ti compiaci a tuffarti entro la tua propria immagine; tu l'abbracci con gli occhi e con le braccia, e il tuo cuore si distrae alle volte dal suo battito al rumore di questo lamento indomabile e selvaggio.

Siete entrambi a un tempo tenebrosi e discreti: uomo, nessuno ha mai misurato la profondità dei tuoi abissi; mare, nessuno conosce le tue ricchezze segrete, tanto siete gelosi di conservare il vostro mistero.

E tuttavia sono innumerevoli secoli che vi combattete senza pietà né rimorsi, talmente amate la carneficina e la morte, eterni lottatori, fratelli implacabili.

 

15 • DON GIOVANNI ALL'INFERNO

 

Quando Don Giovanni discese verso l'onda sotterranea, ed ebbe pagato l'obolo a Caronte, un triste mendicante, l'occhio fiero come Antistene, s'impadronì dei remi con braccio fiero e vendicatore.

Come un grande branco di vittime offerte, donne si contorcevano sotto il nero firmamento, mostrando i seni cascanti, dischiudendo le vesti, mugghiando lungamente dietro di lui.

Sganarello ridendo reclamava il salario, Don Luigi con tremulo dito mostrava ai morti erranti sulle rive l'audace figlio che rise delle sue canizie.

Rabbrividendo, chiusa nel suo lutto, la casta, magra Elvira, vicina al perfido sposo che fu suo amante, sembrava chiedergli un supremo sorriso in cui brillasse la dolcezza del primo giuramento.

Eretto nella sua armatura un uomo di pietra, al timone, solcava il nero flutto. Ma l'eroe, calmo, chino sulla sua spada contemplava la scia, sdegnoso d'altro vedere.

 

16 • CASTIGO D'ORGOGLIO

 

A quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con più linfa e vigore, si racconta che un giorno uno dei più grandi fra i dottori, - dopo avere scosso i cuori indifferenti e averli rimescolati nelle loro nere profondità, dopo essersi aperto verso le glorie celesti strane vie a lui stesso ignote, cui erano giunti soltanto puri spiriti - come fosse salito troppo in alto e il panico l'avesse preso, gridò trasportato da un orgoglio satanico: «Gesù, piccolo Gesù, io t'ho innalzato troppo! Ma se t'avessi voluto attaccare dove ti mostri più debole, la tua vergogna uguaglierebbe la tua gloria, tu non saresti più che un risibile feto.»

Subito perdette la ragione, d'un nero velo si coprì lo splendore di quel sole, il caos s'impadronì di quell'intelligenza, tempio una volta pieno di vita, d'ordine e di ricchezza, sotto i cui soffitti aveva scintillato tanta pompa. S'istallarono in lui notte e silenzio, come in un antro di cui si fosse perduta la chiave. Da allora egli fu in tutto simile alle bestie vagabonde; e quando andava, senza nulla vedere, attraverso i campi, non riconoscendo più le estati e gli inverni, sudicia, inutile, laida cosa inutile, diventava la gioia e lo zimbello dei ragazzi.

 

17 • LA BELLEZZA

 

Sono bella, o mortali, come un sogno di pietra e il mio seno, cui volta a volta ciascuno s'è scontrato, è fatto per ispirare al poeta un amore eterno e muto come la materia.

Troneggio nell'azzurro quale Sfinge incompresa, unisco un cuore di neve alla bianchezza dei cigni, odio il movimento che scompone le linee e mai piango, mai rido.

I poeti, di fronte alle mie grandi pose, che ho l'aria di imitare dai più fieri monumenti, consumeranno i giorni in studi severi, perché, onde affascinare quei docili amanti, ho degli specchi puri che fanno più bella ogni cosa: sono i miei occhi, i miei grandi occhi dalla luce immortale.

 

18 • L'IDEALE

 

Non sapranno mai, queste bellezze da vignette, questi prodotti avariati, nati da un secolo cialtrone, questi piedi da stivaletti, queste dita da nacchere, soddisfare un cuore come il mio.

Lascio a Gavarni, poeta di clorosi, il suo gregge mormorante di bellezze da ospedale: non posso trovare fra queste pallide rose, un fiore che assomigli al mio rosso ideale.

Quel che ci vuole per questo cuore profondo come un abisso sei tu, Lady Macbeth, anima forte nel delitto, sogno eschileo schiusosi in climi iperborei;

o sei tu, grande Notte, nata da Michelangelo, che torci quetamente, in una strana posa, le tue forme fatte per la bocca dei Titani.

 

19 • LA GIGANTESSA

 

Al tempo che la Natura nella sua possente energia, concepiva ogni giorno figli mostruosi, avrei voluto vivere vicino a una giovane gigantessa, come un gatto voluttuoso s'accuccia ai piedi d'una regina.

Avrei voluto contemplare il suo corpo fiorire con la sua anima e crescere liberamente in terribili giochi; indovinare, dalle umide brume che fluttuano nei suoi occhi, se il suo cuore covi un'oscura fiamma;

percorrere, a volontà, le sue magnifiche forme: arrampicarmi sul pendìo delle sue ginocchia enormi, e qualche volta, l'estate, quando soli malsani

la fanno, stanca, distendersi attraverso la campagna, dormire buttato all'ombra dei suoi seni, come un quieto casolare all'ombra d'una montagna.

 

 

20 • LA MASCHERA

 

Statua allegorica di gusto rinascimentale

 

A Ernest Christophe, scultore

Contempliamo questo tesoro di grazie fiorentine: nell'ondulazione del suo corpo muscoloso Eleganza e Forza, sorelle divine, ugualmente abbondano. Questa donna, pezzo veramente miracoloso, divinamente forte, adorabilmente sottile, è fatta per troneggiare su letti sontuosi a carezzare gli ozi d'un pontefice o d'un principe.

- Guarda anche quel sorriso fine e voluttuoso in cui la Fatuità si muove estatica: quel lungo sguardo sornione, languido e irridente, quel viso graziosamente fine, tutto ravvolto di veli, di cui ogni tratto ci dice con aria vittoriosa: «La Voluttà mi chiama, l'Amore mi incorona!» A quest'essere maestoso, guarda che eccitante fascino la gentilezza conferisce. Avviciniamoci e giriamo attorno alla sua beltà.

O bestemmia dell'arte, o sorpresa fatale. La donna dal corpo divino, tutto una promessa di felicità finisce in alto in un mostro dalla doppia testa!

- Ma no, non è che una maschera, un ornamento ingannatore, questo volto rischiarato da una smorfia squisita. Guarda, ecco, atrocemente contratta, la vera testa e l'autentica faccia, rovesciata dietro la faccia mentitrice. Povera, grande beltà! Il magnifico fiume del tuo pianto finisce nel mio cuore turbato; la tua menzogna m'inebria e la mia anima s'abbevera ai flutti che il Dolore fa sgorgare dai tuoi occhi.

- Perché piange, lei, la bellezza perfetta che terrebbe sotto i piedi la vinta umanità? Quale male misterioso divora il suo fianco d'atleta?

- Lei piange, insensata, perché ha vissuto e perché vive! Ma quel che soprattutto ella deplora, e la fa fremere sino ai ginocchi è il fatto che domani bisognerà che viva ancora. Domani, e domani ancora, e sempre. Come noi.

 

21 • INNO ALLA BELLEZZA

 

Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall'abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa, mischiandoli, beneficio e delitto: per questo ti si può comparare al vino.

Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l'aurora, diffondi profumi come una sera di tempesta; i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un'anfora, che rendono audace il fanciullo, l'eroe vile.

Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? Il Destino incantato segue le tue gonne come un cane: tu semini a casaccio la gioia e i disastri, hai imperio su tutto, non rispondi di nulla.

Cammini sopra i morti, Beltà, e ti ridi di essi, fra i tuoi gioielli l'Orrore non è il meno affascinante e il Delitto, che sta fra i tuoi gingilli più cari, sul tuo ventre orgoglioso danza amorosamente.

La farfalla abbagliata vola verso di te, o candela, e crepita, fiammeggia e dice: «Benediciamo questa fiaccola!» L'innamorato palpitante chinato sulla bella sembra un morente che accarezzi la propria tomba.

Venga tu dal cielo o dall'inferno, che importa, o Beltà, mostro enorme, pauroso, ingenuo; se il tuo occhio, e sorriso, se il tuo piede, aprono per me la porta d'un Infinito adorato che non ho conosciuto?