Lisia

"Contro Eratostene"

Proemio e narratio (paragrafi 1-20)

Clicca qui per il piano dell'orazione

N.B.: Pubblichiamo l'inizio della "Contro Eratostene". Il criterio al quale ci siamo ispirati, per venire incontro alle esigenze degli studenti, è quello della massima letteralità; quando ce ne discostiamo, la traduzione letterale è riportata fra parentesi quadre.

Paragrafi

1

Non iniziare l'accusa, o giudici, mi pare difficile [essere difficile], ma (piuttosto) smettere di parlare: tali e tanti delitti [tali cose per grandezza e tante per quantità] sono stati commessi da costoro (= i Trenta), che (uno) non potrebbe, nemmeno mentendo, imputarli di crimini più gravi di quelli reali, né potrebbe rivelare tutta la verità, (anche) volendo (farlo); ma (sarebbe) inevitabile che o l'accusatore rinunciasse, o il tempo (a sua disposizione) venisse a mancare.

2

E mi pare che stia per accaderci il contrario di (ciò che accadeva) in passato. Finora, infatti, erano gli accusatori a dover dimostrare quale risentimento avessero nei confronti degli imputati; adesso, invece, bisogna chiedere agli imputati che (motivi di) risentimento avessero nei confronti della città, per quale ragione [in cambio di che cosa] ebbero il coraggio di commettere simili atrocità nei suoi riguardi. Del resto, non (è) perché io non abbia ragioni di risentimento e (non abbia subìto) disgrazie personali (che) faccio questi [i] discorsi, ma perché tutti abbiamo ragioni in abbondanza per essere indignati [essendo a tutti molta abbondanza di indignarsi] per questioni private o pubbliche.

3

Io dunque, o giudici, sono stato costretto adesso dalle circostanze ad assumermi l'accusa contro costui (= Eratostene), senza aver mai sostenuto cause né mie né altrui; cosicché più volte sono piombato in un profondo sconforto, (per timore) di sostenere in modo inadeguato ed inefficace, a causa della mia inesperienza, la causa in difesa di mio fratello e di me stesso; e tuttavia proverò (ugualmente) a spiegarvi (la situazione) il più succintamente possibile, (cominciando) dal principio.

4

Mio padre Cèfalo fu indotto da Pericle a trasferirsi in questo paese, (vi) abitò per trent'anni, e né noi (figli) né lui intentammo o subimmo mai un processo contro nessuno, ma anzi, finché c'era la democrazia, vivevamo in modo tale da non commettere torti contro gli altri né subirne (dagli altri).

5

Ma quando salirono al potere i Trenta, che erano malvagi e calunniatori, affermando che bisognava ripulire la città dai delinquenti e (che bisognava) che gli altri cittadini si indirizzassero alla virtù ed alla giustizia, (pur) dicendo questo, ebbero la sfrontatezza di fare l'opposto [(pur) dicendo tali cose, osavano fare non tali cose], come io cercherò di ricordare anche a proposito dei fatti vostri, dopo aver parlato anzitutto dei miei.

6

Infatti Teognide e Pisone dicevano nell'assemblea dei Trenta [fra i Trenta], a proposito dei meteci, che ce n'erano alcuni ostili al regime: c'era dunque un magnifico pretesto per fingere [sembrare] di castigar(li), ma in realtà per arricchirsi; la città era poverissima, e il regime aveva bisogno di denaro.

7

E convinsero [convincevano] l'uditorio senza difficoltà: infatti, uccidere degli esseri umani (lo) consideravano cosa di nessuna importanza, mentre l'impadronirsi di ingenti patrimoni era per loro molto importante [prendere ricchezze (lo) consideravano cosa da molto]. Decisero perciò di arrestare dieci (meteci), di cui due poveri, per avere come scusa di fronte all'opinione pubblica [agli altri] il fatto che (1) questo non era stato fatto per denaro, ma era accaduto nell'interesse dello Stato [era accaduto (come) utile allo Stato] - come se avessero mai fatto qualcosa di onesto [come se avessero fatto qualche cosa delle altre rettamente]!

8

Poi, spartitesi le case (dei meteci), (vi) si incamminarono; me, (mi) trovarono che avevo a cena degli ospiti, cacciati via i quali mi consegnano a Pisone; gli altri, invece, entrati nell'officina, si misero a fare [facevano] l'inventario degli schiavi. Io allora chiesi [-devo] a Pisone se fosse disposto a salvarmi (la vita) ricevendo del denaro; lui rispose di sì, se fosse stato molto.

9

(Gli) dissi dunque che ero disposto a dar(gli) un talento in contanti; ed egli si dichiarò d'accordo di fare così [ciò]. Sapevo perfettamente che non credeva né negli dèi né negli uomini; e tuttavia, date le circostanze, mi pareva assolutamente necessario pretendere da lui un giuramento.

10

E (solo) dopo che ebbe giurato, invocando la rovina su se stesso e sui (suoi) figli, di salvarmi dopo aver preso il talento, io, entrato in camera da letto, apro la cassaforte: ma Pisone, accortosene, entra, e, visto il contenuto, chiama due degli sgherri e dà ordine di requisire il contenuto della cassaforte.

11

E dopo che ebbe preso non quanto io avevo pattuito, o giudici, ma tre talenti in contanti, quattrocento cizicèni, cento darìci e quattro coppe d'argento, (io) lo pregai [-avo] di darmi (almeno) il necessario per il viaggio; e lui mi rispose che potevo già essere contento se salvavo la pelle [mi diceva di essere contento se salverò il corpo].

12

Mentre io e Pisone uscivamo (di casa), (ecco che) ci vengono incontro [a me ed a Pisone che uscivamo vengono incontro] Melobio e Mnesitìde, di ritorno dal laboratorio; ci trovano proprio sulla porta e ci chiedono dove fossimo diretti; quello (= Pisone) rispose [-ndeva] (che eravamo diretti) a casa di mio fratello, per perquisire [affinché osservasse] anche ciò (che si trovava) in quell'abitazione. A lui, dunque, dissero [-cevano] di andare (là), e a me di seguirli a (casa) di Damnippo.

13

Allora Pisone, avvicinatomisi, mi raccomandò [-ava] di tacere e di farmi coraggio, dicendo che (più tardi) sarebbe venuto là. Qui (= a casa di Damnippo) troviamo Teognide che sorveglia degli altri (meteci): e dopo avermi consegnato a lui, di nuovo se ne andarono [-vano]. Mentre ero in questa situazione, decisi di tentare il tutto per tutto [a me che ero in tale (situazione) pareva (giusto) rischiare], convinto (com'ero) che la (mia) morte fosse ormai questione di minuti [senza dubbio ormai imminente].

14

Dunque, chiamato (in disparte) Damnippo, gli dico queste parole: "Tu mi sei amico [ti trovi ad essere amico a me], io sono arrivato in casa tua, non sono colpevole di nulla, ma muoio per il mio denaro. Tu dunque, in questa mia disgrazia [a me che soffro queste cose], fa' valere generosamente la tua influenza [presta benevola la tua influenza] (presso di loro) per la mia salvezza!" E lui promise che l'avrebbe fatto. Gli pareva però che fosse meglio parlarne con Teognide: era infatti convinto che costui avrebbe fatto qualsiasi cosa, se uno gli avesse dato dei soldi.

15

Mentre egli parlava con Teognide - per caso ero pratico della casa, e sapevo che aveva due uscite [era a due porte] - decisi di [mi pareva (opportuno)] tentare di salvarmi per quella (via), pensando che, se fossi sfuggito alla (loro) attenzione [oppure: se fossi fuggito di nascosto], mi sarei salvato, e se invece fossi stato catturato, pensavo che, se Teognide si fosse lasciato persuadere da Damnippo ad accettare del denaro, sarei stato liberato ugualmente, se no, sarei morto in ogni caso. (2)

16

Fatte queste riflessioni, fuggii [-ivo], mentre essi sorvegliavano la porta del cortile; ed essendo tre le porte che dovevo attraversare, le trovai tutte casualmente aperte [furono tutte per caso aperte]. Giunto quindi a (casa) di Archèneo, l'armatore di navi, lo mando in città ad informarsi di mio fratello; egli, di ritorno, (mi) disse [-ceva] che Eratostene, dopo averlo incontrato [oppure: arrestato] per la strada, (lo) aveva portato in carcere.

17

Ed io, saputo questo, la notte seguente mi recai per mare a Mègara. A Polemarco i Trenta notificarono il loro solito ordine [l'ordine solito (essere notificato) da loro], (cioè) di bere la cicuta, prima (ancora) di dirgli la ragione per cui doveva morire: tanto fu lontano dall'essere (regolarmente) processato e dal potersi difendere.

18

E dopo che fu [era] portato via morto dal carcere, sebbene noi avessimo tre case, da nessuna (di esse) permisero che fosse portato a seppellire, ma, presa in affitto una catapecchia, lo esposero (lì). E nonostante avessimo molti abiti, non ne diedero nessuno a noi, che (pure ne) facevamo richiesta per la sepoltura; ma, fra i (nostri) amici, qualcuno offrì un vestito, qualcun altro un cuscino, qualcun altro ciò che si trovò (ad avere) [oppure: ciò che gli capitò (di dare)] per la sua sepoltura.

19

E sebbene avessero settecento scudi dei nostri, e avessero argento ed oro in tale quantità, e bronzo e suppellettili e utensili e vesti femminili quanti mai avrebbero pensato di prenderne, e centoventi schiavi, di cui i migliori se li tennero, gli altri li donarono alla collettività, si spinsero ad un livello tale di avidità e di disgustosa insaziabilità e diedero una dimostrazione di (quella che era la) loro (vera) indole: infatti (3) Melòbio strappò dalle orecchie della moglie di Polemarco gli orecchini d'oro, (gli stessi) che ella portava quando per la prima volta venne in casa (del marito).

20

E neppure per una minima parte delle (nostre) sostanze riuscimmo ad ottenere pietà da parte loro. Anzi, infierirono su di noi, a causa del (nostro) denaro, come (avrebbero infierito) altri che avessero nutrito odio per gravi offese, (noi) che non meritavamo davvero questo da parte dello Stato [non eravamo degni di queste cose verso la città]! Ma dopo che avevamo sostenuto tutte le coregìe, avevamo pagato molte tasse, ci dimostravamo ligi all'ordine costituito, facevamo tutto quello che ci veniva ordinato e non ci eravamo fatti nessun nemico, anzi, avevamo riscattato dai nemici molti dei (cittadini) ateniesi, giudicarono degni di un simile trattamento (noi) che, da (semplici) meteci, vivevamo in modo ben diverso da come vivevano loro da cittadini!

 

 

 

 

 

(1) Secondo altri: per avere una scusa di fronte all'opinione pubblica [agli altri], cioè il fatto che...

Torna su

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(2) Attenzione al ragionamento lisiano, che si articola così:

SE SCAPPO:

SE NON SCAPPO:

O MI SALVO (50%)

O VENGO CATTURATO (50%);

SE VENGO CATTURATO:

O TEOGNIDE ACCETTA IL DENARO

O TEOGNIDE NON ACCETTA IL DENARO

 

O TEOGNIDE ACCETTA IL DENARO

O TEOGNIDE NON ACCETTA IL DENARO

= MI SALVO (50%)

= MUOIO (50%)

 

= MI SALVO (25%)

= MUOIO (25%)

 

Quindi, nel primo caso, Lisia ha il 75 (50 + 25)% di possibilità di salvarsi, nel secondo solo il 50%. Ecco perché sceglie a colpo sicuro la fuga.

Torna su

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(3) Ci aspetteremmo una consecutiva, ed invece ecco, con una variatio improvvisa, una proposizione principale.

Torna su

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piano dell'orazione

torna su

Exordium (include la propositio

Paragrafi 1-3

Captatio benevolentiae: Lisia fa presente ai giudici la sua assoluta inesperienza forense, sperando nella loro comprensione, e ricorda che tutti gli Ateniesi, come lui, sono stati vittime dei Trenta Tiranni. Scopo dichiarato di Lisia è quello di ottenere giustizia per sé e per suo fratello Polemarco, facendo condannare il suo assassino Eratòstene.

Narratio 

Paragrafi 4-20

Racconto dettagliato dei fatti, dal momento in cui Cèfalo, padre di Lisia, si trasferì da Siracusa ad Atene per vivervi da meteco (= straniero residente ad Atene), all'ascesa al potere dei Trenta, con conseguente decisione di "ripulire" la città dagli indesiderabili: fra questi dieci meteci, destinati ad essere massacrati nel corso di una sola notte. Lisia e suo fratello Polemarco vengono inseriti nella lista: Lisia riesce a salvarsi giocando d'astuzia e si rifugia a Mègara, mentre Polemarco viene costretto da Eratòstene a bere la cicuta e muore senza neppure sapere perché. Viene impedito ai familiari perfino di dargli una degna sepoltura.

Raccordo tra la narratio e la confirmatio

Paragrafi 21-24

Primo accenno ai crimini dei Trenta.

Argumentatio:

fonde la confirmatio (o probatio) e la refutatio.

Paragrafi 25-36 

L'argomentazione di Lisia non può vertere sulla dimostrazione della responsabilità di Eratostene nella morte di suo fratello, che è un dato di fatto incontestabile e noto a tutti; egli dovrà piuttosto smentire le attenuanti addotte da Eratòstene a sua parziale discolpa. Ecco perché confirmatio e refutatio in questo caso coincidono.

Lisia interroga Eratostene facendolo salire al banco degli imputati: questi afferma in sostanza di avere agito per paura delle ritorsioni dei Trenta e di essersi opposto alla condanna a morte dei meteci, che considerava ingiusta. Lisia contesta queste affermazioni: 

  1. i Trenta non possono addurre come giustificazione il fatto di avere obbedito agli ordini dei Trenta (!);

  2. circa il fatto che Eratostene si sia opposto al raid notturno, non ci sono testimoni che confermino la veridicità della sua affermazione, e poi la smentiscono le circostanze dell'arresto di Polemarco: Eratostene lo incontrò da solo a solo per la strada: nulla di più facile, per lui, che fingere di non averlo visto, se davvero avesse voluto salvarlo;

  3. e comunque, quand'anche fosse vero che Eratostene si è opposto, ha ucciso Polemarco: che cos'altro avrebbe potuto fargli di più grave?

In sintesi: per assolvere Eratostene [che in effetti fu assolto, N.d.R.] occorrerebbe che si dimostrasse una di queste due cose:

  1. o che il fatto non è stato commesso;

  2. o che è stato commesso per un giusto motivo.

Ma Eratostene stesso ha affermato il contrario, per cui ha tolto dall'imbarazzo i giudici per quanto riguarda il verdetto.

Prima argumentatio extra causam

Paragrafi 37-61

Digressione sui misfatti del regime oligarchico e dei Trenta, con triplice audizione dei testimoni.

 

Seconda argumentatio extra causam

Paragrafi 62-78

Digressione sulla figura di Teràmene. Eratòstene ha cercato di discolparsi affermando, fra l'altro, di appartenere all'ala moderata dei Trenta, che faceva capo a Teràmene. 

Quest'ultimo, dopo essere morto per mano di Crizia, era diventato una sorta di eroe della democrazia, cosa che suscita l'enorme indignazione di Lisia. Egli pertanto delinea di Teràmene un ritratto antitetico a quello "buonista" che certa propaganda ha diffuso.

Teràmene, a suo dire, altro non è stato che uno squallido doppiogiochista, pronto a voltare gabbana a seconda dell'interesse del momento, come dimostrano i suoi disinvolti andirivieni all'interno del regime democratico e la sua partecipazione ad entrambi i colpi di Stato oligarchici, quello dei Quattrocento (del 411 a.C.) e quello dei Trenta (del 404 a.C.). Quale fosse il suo vero pensiero, egli lo dimostrò chiaramente in occasione della resa di Atene dopo Egospòtami (405 a.C.), allorché si presentò in città con lo spartano Lisandro ed impose l'abolizione del regime democratico.

Non si vede, perciò, in che senso l'essere stato un terameniano debba giocare a favore di Eratostene.

Conclusio

 

Paragrafi 79-91 

Riepilogo dei motivi che devono portare alla condanna di Eratostene.

Epilogus - Peroratio 

Paragrafi 92-100 

Appello separato a "quelli della città" (gli oligarchici) e a "quelli del Pireo" (i democratici) perché pronuncino un inesorabile verdetto di condanna: i secondi per fare giustizia delle angherie subìte e per vendicare i loro morti, i primi per dimostrare all'opinione pubblica la propria buona fede: assolvere Eratostene significherebbe infatti, da parte loro, ammettere apertamente le proprie simpatie per il regime dei Trenta.


torna su

 

In questa sezione sei il visitatore numero