Vita di Coriolano e Alcibiade
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VITA DI CORIOLANO
I 1 La casa patrizia dei Marci, a Roma, diede i natali a molti uomini di spicco. Fra questi vi era Anco Marcio, nipote di Numa da parte di madre e successore al trono di Tullio Ostilio. Appartenevano ai Marci anche Publio e Quinto, che portarono a Roma riserve abbondanti di ottima acqua, e Censorino, eletto due volte censore dal popolo romano, il quale popolo, convinto proprio da lui, propose e approvò una legge per vietare la rielezione a tale carica. 2 Caio Marcio, di cui ora scrivo, orfano di padre, fu allevato dalla madre vedova, e dimostrò che la condizione di orfano, anche se negativa sotto vari aspetti, non è di ostacolo al diventare un uomo valido, eccellente, e che i deboli non dovrebbero dare ad essa la colpa e il biasimo della propria corruzione sostenendo di essere stati trascurati. Ma quest'uomo costituì anche una prova per chi ritiene che persino una natura nobile e buona abbia bisogno di disciplina, per non produrre frutti cattivi insieme ai buoni frutti, come accade in agricoltura ad un buon terreno che non sia stato coltivato. 3 Da un lato infatti la forza e il vigore della sua intelligenza aperta a tutto lo portavano a condurre a termine grandi e nobili azioni, dall'altro la sua soggezione a passioni incontrollate e all'irremovibile desiderio di prevalere lo rendevano una compagnia non facile né piacevole: gli altri ammiravano la sua indifferenza nei confronti dei piaceri, delle fatiche e del denaro e le davano il nome di autocontrollo, senso di giustizia e coraggio, ma nella vita pubblica essa li infastidiva in quanto manifestazione di arroganza, sgraziataggine e oligarchia. 4 Nessun altro favore delle Muse offre agli uomini così tanto giovamento come l'ammansire la natura con la cultura e l'educazione, perché la cultura riceve attraverso l'educazione il senso della moderazione e si libera dagli eccessi. Tutto sommato però la Roma di quei tempi teneva in massima stima la parte di virtù relativa alle azioni belliche e militari, e lo testimonia l'unico equivalente latino della parola virtù che significa in realtà valore: in questo nome particolare, con cui designano il coraggio virile, racchiudono l'intera gamma della virtù.
II 1 Marcio, per natura più degli altri appassionato per gli agoni bellici, entrò fin da piccolo a contatto con le armi; secondo lui le armi acquisite non servivano a niente se non si avevano, e tenevano pronte, armi innate e un naturale equipaggiamento e così si allenava in ogni tipo di combattimento in modo da essere leggero nella corsa, pesante nella presa e nella lotta, e difficile per l'avversario da sopraffare. Quelli dunque che regolarmente si misuravano con lui nel coraggio e nel valore e venivano da lui superati, davano la colpa alla sua forza fisica che era ferrea e non cedeva di fronte ad alcuna fatica.
III 1 Partecipò alla sua prima campagna ancora ragazzo, quando Tarquinio, che era stato re di Roma, e poi esiliato, dopo molte battaglie e sconfitte, giocò, per così dire, la sua ultima carta. Quasi tutti gli abitanti del Lazio e molti degli altri popoli italici si unirono a lui e cooperarono per ricondurlo in Roma, non tanto per simpatia nei suoi confronti, quanto per distruggere la crescente potenza di Roma, animati dalla paura e dall'invidia. 2 Durante questa battaglia che vide molte svolte per l'una e per l'altra parte, Marcio stava combattendo energicamente sotto gli occhi del dittatore, quando vide cadere lì vicino un soldato romano: non lo abbandonò, gli si parò invece davanti, lo difese e uccise il suo assalitore. A vittoria ottenuta, dunque, il generale incoronò per primo Marcio, con una corona di quercia.
3 Infatti è usanza che chi ha salvato un concittadino riceva questa corona: forse perché la quercia era particolarmente onorata per via degli Arcadi, chiamati mangiatori di ghiande da un oracolo del dio; o forse perché si potevano trovare subito querce in abbondanza dovunque si combattesse; o forse ancora perché si riteneva che la corona di foglie di quercia, essendo sacra a Zeus custode della città, fosse la più adatta ad offrirsi al salvatore di un cittadino. Inoltre la quercia è la più ricca di frutti tra le piante selvatiche e il più forte fra gli alberi coltivati. 4 Le sue ghiande, poi, venivano usate come cibo e la loro parte zuccherina come bevanda; forniva anche carne di greggi e volatili perché portatrice di vischio, strumento utile per la caccia agli animali. Nel corso della battaglia si dice che fossero apparsi i due Dioscuri, e che poco dopo lo scontro fossero stati visti, con i loro cavalli grondanti sudore, annunciare la vittoria, in piazza, presso la fontana dove ora sorge il loro tempio. E da quel momento, il giorno della vittoria, le idi di luglio, venne consacrato ai Dioscuri.
IV 1 Nei giovani dalla natura poco ambiziosa, sembrerebbe, fama e gloria affacciatesi troppo presto smorzano gli slanci: la loro sete e il loro appetito vengono facilmente soddisfatti. Alle menti salde e determinate, invece, gli onori danno splendore e le alimentano, spingendole come un soffio di vento verso ciò che appare bello. Non sentono infatti di aver ricevuto una ricompensa, ma di aver dato un pegno e si vergognano a lasciarsi la fama alle spalle e a non superarla con il loro operato. 2 Proprio con questo spirito Marcio gareggiava con se stesso nel fervore della prodezza e, desiderando sempre nuovi risultati, accumulava azioni nobili su azioni nobili e aggiungeva spoglie alle spoglie, così che gli ultimi comandanti competessero con i primi per rendergli onori e per sorpassarli nel testimoniare le sue prodezze. In quell'epoca erano molte le guerre e battaglie combattute dai Romani, e da nessuna tornò senza serti o senza onori.
3 Mentre per altri il fine ultimo del valore era la fama, per lui era la soddisfazione della madre. Che venisse a sapere che era stato lodato e lo vedesse incoronato e lo abbracciasse, piangendo di gioia. Questo per lui era il massimo dell'onore e della felicità. Si dice che anche Epaminonda condividesse un uguale sentimento, poiché riteneva non esistesse per lui gioia più grande del fatto che i suoi genitori fossero ancora in vita per vederlo, generale vittorioso, a Leuttra. 4 Ma lui poté dividere la sua gioia e il suo successo con entrambi i genitori, mentre Marcio, che pensava di dovere alla madre anche la gratitudine che sarebbe spettata al padre, non smetteva mai di coprire Volumnia di attenzioni e onori, tanto che sposò una donna scelta e voluta da lei, e visse sotto lo stesso tetto con la madre anche dopo la nascita dei figli.
V 1 Già godeva nella città di grande fama e influenza grazie al suo valore, quando il senato, prendendo le parti dei ricchi, si scontrò con il popolo, che era convinto di star subendo tremendi soprusi da parte dei creditori. Coloro infatti che avevano modeste risorse, venivano derubati di tutto da pegni e vendite, quelli invece che non avevano alcun mezzo di sostentamento venivano portati via e messi in prigione, nonostante i loro corpi mostrassero molti segni delle ferite ricevute e delle fatiche sopportate in campagne per la difesa della patria. 2 L'ultima era stata quella contro i Sabini, dietro promessa dei ricchi di comportarsi con moderazione e dopo la deliberazione del senato che il console Marco Valerio fosse garante di tale promessa. Ma dopo che le plebi ebbero strenuamente combattuto anche in quella battaglia e sconfitto i nemici, non trovarono nessuna ragionevolezza nei creditori; 3 il senato finse di non ricordarsi le promesse fatte e lasciò che la gente fosse di nuovo portata via e presa in ostaggio dai creditori. Allora vi furono pesanti tumulti e rivolte nella città, e i perturbamenti che sconvolgevano il popolo non sfuggirono al nemico, il quale mise a ferro e fuoco le campagne. Quando i consoli chiamarono alle armi le persone in età da reclutamento, nessuno obbedì e le autorità erano discordi sul da farsi. 4 Alcuni pensavano che bisognasse cedere ai poveri e allentare l'eccessivo rigore delle leggi; altri invece si opponevano, e tra questi vi era Marcio. A suo parere il problema principale non era quello economico ed esortava i magistrati, se avevano senno, a porre termine fin da subito e ad estinguere l'incipiente tentativo di sopraffazione e insolenza contro le leggi da parte delle masse.
VI 1 Il senato si riunì diverse volte nel giro di poco tempo per discutere la faccenda, senza però raggiungere alcuna soluzione. I poveri dunque, all'improvviso, fecero fronte unico e incoraggiatisi reciprocamente lasciarono la città. Presero possesso di un monte, che ora si chiama Sacro, e si stabilirono presso il fiume Aniene. Non commisero atti violenti o sediziosi, ma gridavano a gran voce di essere stati da tempo cacciati dalla città dai ricchi, e che l'Italia avrebbe offerto loro ovunque aria, acqua e terra per le loro tombe, 2 lo stesso che avrebbero avuto abitando a Roma, ma senza dover essere feriti e morire combattendo per i ricchi. Il senato impaurito dalla situazione mandò sul luogo i senatori più ragionevoli e democratici. Menenio Agrippa fece da portavoce. Dopo aver pregato a lungo il popolo e parlato francamente a favore del senato, concluse il suo discorso con una favola in seguito diventata famosa. 3 Raccontò che una volta tutte le membra del corpo umano si erano ribellate contro il ventre, e l'avevano accusato di essere l'unica componente oziosa, non partecipe del lavoro comune, mentre le altre dovevano sopportare grandi fatiche e prestare i propri servizi per soddisfare i suoi appetiti. Ma il ventre rise per la loro dabbenaggine, perché ignoravano che egli prendeva in sé tutto il nutrimento ma solo per rimandarlo indietro e distribuirlo a tutte le altre membra. 4 «È questo», disse, «il discorso che vi fa il senato, o cittadini: là vengono prese in esame con la dovuta cura e attenzione le proposte e gli atti concreti e viene quindi portato a tutti voi e distribuito quanto è utile e vantaggioso».
VII 1 A questo punto avvenne una riconciliazione, dopo che il popolo aveva chiesto e ottenuto dal senato di eleggere cinque uomini chiamati in seguito tribuni della plebe come difensori degli indigenti. Elessero per primi Giunio Bruto e Sicinnio Velluto, che erano stati i loro capi nella protesta. Così la città ritornò unita; subito il popolo prese le armi e si offerse prontamente ai consoli per servire in guerra.
2 Marcio, dal canto suo, non era contento che la plebe avesse acquisito potere a spese dell'aristocrazia, e vedeva che molti altri patrizi la pensavano come lui, tuttavia li esortò a non essere da meno della gente comune negli scontri in difesa della patria, ma a mostrarsi superiori al popolo nel valore più che nel potere.
VIII 1 Tra i Volsci, contro cui i Romani erano in guerra, la città di Corioli godeva del più alto prestigio. Il console Cominio l'aveva stretta d'assedio; tutti gli altri Volsci, allarmati, corsero in aiuto della città contro i Romani, muovendo da ogni direzione, in modo da combattere davanti a Corioli assalendo il nemico da entrambi i lati. 2 Cominio allora divise le sue truppe. Mosse personalmente incontro ai Volsci che provenivano da fuori, e lasciò a proseguire l'assedio Tito Larcio, uno dei Romani più valorosi. Gli uomini di Corioli, disprezzando le forze rimaste sul luogo, fecero una sortita contro di loro; all'inizio dell'attacco ebbero la meglio sui Romani e li inseguirono fino all'accampamento. 3 A questo punto si lanciò nella mischia Marcio con una piccola schiera, e dopo aver abbattuto chiunque gli si trovasse davanti e aver bloccato gli altri assalitori, con alte grida richiamò i Romani alla lotta. Infatti, come secondo Catone dovrebbe essere un vero soldato, non era solo vigoroso nei colpi, ma possedeva anche un tono di voce e un'espressione del volto che lo rendevano difficile da affrontare e incutevano timore nel nemico. Molti dei suoi uomini accorsero e si disposero intorno a lui, mentre i nemici si ritirarono impauriti. 4 Non contento, Caio Marcio li inseguì e li forzò a una fuga precipitosa fin sotto le porte della città. Là vide i Romani fare ritorno dall'inseguimento, sotto i dardi lanciati contro di loro dalle mura. Nessuno avrebbe nemmeno osato pensare di piombare assieme ai fuggitivi dentro la città dei nemici straripante di armi, ma Marcio si fermò a chiamare e incoraggiare i Romani, gridando che la fortuna aveva spalancato le porte della città più agli inseguitori che agli inseguiti. 5 Non erano in molti a volerlo seguire, ma lui si spinse lo stesso fin sotto le porte in mezzo ai nemici ed irruppe insieme a loro nella città; nessuno sulle prime gli si parò davanti o ebbe il coraggio di opporgli resistenza. Ma poi, quando videro che i Romani entrati erano pochissimi, fecero fronte unico e li attaccarono. 6 Circondato insieme da amici e avversari, si dice che Marcio combattesse nella città un'incredibile battaglia, con la forza del pugno, la velocità delle gambe e l'audacia dello spirito. Ebbe la meglio su tutti quelli che assalì: alcuni vennero respinti fin nelle parti più remote della città, altri rinunciarono a battersi e gettarono le armi. Permise in tal modo a Larcio di far entrare senza gravi rischi i suoi soldati.
IX 1 Così la città fu presa e i più si gettarono nel saccheggio e a rubare cose preziose. Marcio andò su tutte le furie e si mise a urlare che considerava spaventoso che nel momento in cui il console e altri cittadini al suo fianco forse si erano scontrati col nemico e stavano combattendo, si andasse in cerca di bottino o, con il pretesto del saccheggio, ci si sottraesse al pericolo. 2 Non molti gli prestarono attenzione, ma lui portò con sé quelli che volevano ascoltarlo e percorse la strada che, come aveva sentito, aveva preso l'esercito del console, spesso incitando i suoi compagni e esortandoli a non cedere, e spesso pregando gli dèi di non privarlo della battaglia, ma di farlo arrivare in tempo per combattere insieme ai suoi concittadini e condividerne i rischi. Era uso presso i Romani che, al momento di disporsi in ordine di combattimento, di prendere lo scudo e cingersi stretta la toga, facessero un testamento non scritto e che, alla presenza di tre o quattro testimoni, nominassero il loro erede. 3 I soldati erano appunto impegnati in questo atto quando sopraggiunse Marcio, mentre i nemici erano ormai in vista. Sulle prime alcuni si spaventarono vedendolo con uno sparuto gruppo di uomini, coperto di sangue e sudore. Ma quando corse giubilante incontro al console, gli porse la destra e annunciò che la città era stata presa, e Cominio lo baciò e abbracciò, presero coraggio, alcuni udendo i successi ottenuti, altri immaginandoli, e chiesero tutti a gran voce di essere guidati all'attacco. 4 Marcio domandò a Cominio come erano disposte le forze del nemico e dove erano schierati i guerrieri più validi. Il console gli rispose che secondo lui le truppe al centro erano quelle di Anzio, che erano le più combattive e non cedevano a nessuno per coraggio. «Ti chiedo dunque e ti imploro», disse Marcio, «di schierarci di fronte a questi uomini». Il console esaudì la richiesta, meravigliandosi del suo ardore.
5 Come cominciarono a volare le lance, Marcio balzò fuori dalle file: i Volsci che gli stavano di fronte non riuscirono a sostenerne l'attacco: e la parte della falange sulla quale si era abbattuto si spezzò subito. Ma gli altri si volsero contro di lui da entrambe le parti e una selva di armati lo circondò. Il console, temendo per Marcio, gli mandò in soccorso i migliori fra i suoi guerrieri. 6 Una feroce battaglia infuriava intorno a Marcio e in poco tempo caddero molti soldati. Tuttavia i Romani incalzando e stringendo da presso i nemici li costrinsero a battere in ritirata, e mentre si preparavano all'inseguimento chiesero che Marcio, stremato dalla stanchezza e dalle ferite, facesse ritorno all'accampamento. Ma lui rispose che la stanchezza non è dei vincitori, e si lanciò dietro ai fuggitivi. Il resto dell'esercito venne sconfitto, molti vennero uccisi e molti fatti prigionieri.
X 1 Il giorno successivo, una volta che Larzio era giunto sul luogo e che il resto dell'esercito era radunato di fronte al console, Cominio salì alla tribuna, e dopo il dovuto ringraziamento agli dèi per un successo tanto grande, si rivolse a Marcio. Prima di tutto lo elogiò per le splendide azioni, ad alcune delle quali aveva assistito di persona in battaglia, mentre di altre era testimone Larzio. 2 Poi dei molti tesori e cavalli catturati e uomini presi prigionieri gli ordinò di sceglierne una decima parte, prima che venissero distribuiti agli altri e gli donò, inoltre, come premio per il valore, un cavallo bardato. Dopo che i Romani approvarono con applausi, Marcio si fece avanti e disse: «Accetto il cavallo, sono lieto per gli elogi del console, ma rinuncio al resto, perché lo ritengo un pagamento e non un onore. Mi accontento della parte di bottino che toccherà a ciascuno. 3 Chiedo solo un piacere speciale», proseguì, «e vi prego di concedermelo. Avevo un ospite e amico fra i Volsci, un uomo cortese e probo. Ora è stato catturato e da ricco e felice è diventato schiavo. Molti mali si sono abbattuti su di lui, lasciate che lo liberi da uno almeno, dall'essere venduto come schiavo». A queste parole di Marcio, risposero grida di approvazione ancora più alte. E trovò più ammiratori per la superiorità mostrata nei confronti delle ricchezze che per il valore in guerra. 4 Anche coloro che nutrivano una certa gelosia e invidia per i cospicui onori da lui ricevuti, ora lo ritenevano meritevole di grandi premi, proprio perché non li accettava e apprezzavano questa sua virtù, che gli faceva disdegnare ricompense tanto grandi, più delle azioni che avevano meritato tali ricompense. Perché il buon uso delle proprie ricchezze è più nobile delle azioni militari; ma il non aver bisogno di ricchezze è ancor più nobile.
XI 1 Quando la moltitudine smise le urla e il tumulto, Cominio prese la parola: «Commilitoni, non potete forzare quest'uomo ad accettare i regali, se non li vuole prendere; ma c'è un dono che non può rifiutare quando gli verrà offerto. Porgiamogli questo presente e mettiamo ai voti che venga chiamato Coriolano, a meno che tale epiteto prima di noi non glielo abbiano già dato le sue azioni». E da allora il suo terzo nome fu Coriolano.
2 Pertanto è manifesto che Caio era il suo nome personale, il secondo, Marcio, era quello della famiglia o della stirpe, e il terzo veniva adottato più tardi e attribuito sulla base di qualche impresa o della fortuna o di un tratto fisico o di una qualità. Così i Greci conferivano soprannomi in base alle imprese, come Soter e Callinico, o in base a una caratteristica corporea, come Fiscone e Gripo, alle qualità, come Euergete e Filadelfo, o alla fortuna, come Eudemone il secondo dei Batti. 3 Alcuni dei loro re ricevettero addirittura dei nomi scherzosi, come Antigono Dosone e Tolomeo Latiro. Di soprannomi del genere facevano un uso ancora più frequente i Romani. Chiamavano uno dei Metelli Diademato, perché per lungo tempo avendo una ferita in suppurazione se ne andava in giro con la fronte fasciata, un altro venne soprannominato Celere, perché, pochi giorni dopo la morte del padre, si era affrettato ad organizzare dei giochi funebri di gladiatori, e la velocità e splendore degli allestimenti destò stupore. 4 Altri vengono ancor'oggi chiamati in base a un fatto casuale capitato alla nascita: Proclo, per esempio, se il figlio nasce quando il padre è assente, e Postumo se nasce dopo la morte del genitore; e quando uno dei gemelli sopravvive e l'altro muore, viene chiamato Vopisco. Dai tratti somatici non solo ricavano soprannomi come Silla, Nigro, e Rufo, ma anche Cieco e Claudio, e in questo modo abituano - e fanno bene - a non considerare la cecità o altre sfortune fisiche come un disonore o un insulto, ma a rispondere a questi nomi come a nomi propri. Ma questo argomento è meglio trattarlo in un altro tipo di opera.
XII 1 Non appena finita la guerra, i capi popolari risollevarono le sedizioni senza un nuovo motivo né una giusta lamentela, ma prendendo a pretesto contro i patrizi i mali conseguenti ai loro iniziali conflitti e torbidi. Infatti gran parte della terra era rimasta negletta e incolta e la guerra non aveva dato la possibilità di importare prodotti per il mercato. 2 Pertanto vi era una forte scarsità di cibo, e quando i capi popolari videro che non c'erano mercanzie, e che se c'erano, la gente non aveva mezzi per comprarle, lanciarono false accuse contro i ricchi imputandoli di aver provocato la fame, per rancore. Nel frattempo giunse un'ambasceria da parte degli abitanti di Velletri: si offrivano di consegnare la città ai Romani, e chiedevano di mandare dei coloni. Infatti una pestilenza si era abbattuta su di loro, e aveva portato una tale distruzione e rovina, che appena un decimo della popolazione era sopravvissuto. 3 Alle persone ragionevoli parve che la richiesta della gente di Velletri fosse giunta in un momento opportuno, sia perché avevano bisogno di alleggerirsi di abitanti per la carestia, sia perché speravano di stroncare la rivolta se purgavano la città dagli elementi più agitati, dagli accesi seguaci dei demagoghi come da detriti malsani e fastidiosi. 4 I consoli scelsero individui del genere per la colonizzazione e li mandarono a Velletri, altri ne arruolarono in una spedizione contro i Volsci, in modo che non rimanesse il tempo materiale per dei tumulti interni. Ritenevano inoltre che, trovandosi di nuovo insieme sotto le armi, nell'accampamento, in battaglie comuni, ricchi e poveri, plebei e patrizi, sarebbero stati più accomodanti e amichevoli gli uni con gli altri.
XIII 1 Ma si opposero i capi popolari, Sinicio e Bruto, urlando che era in atto un'operazione molto crudele dietro la mitissima parola colonia, e che i consoli chiamavano i poveri con l'intenzione di spingerli, per così dire, in un baratro, spedendoli in una città dall'aria malsana e piena di cadaveri insepolti, a convivere con un dio straniero e abominevole. 2 E poi, come non soddisfatti di aver distrutto per fame una parte dei loro concittadini, di averne esposti altri alla pestilenza, ancora scatenavano di loro iniziativa una guerra, così che nessun male risparmiasse la città che si era rifiutata di asservirsi ai ricchi. Il popolo, con la testa piena di questi discorsi, non si presentò alla lista di arruolamento dei consoli e mostrò ostilità nei confronti della colonia.
3 Il senato si trovò in una situazione difficile. Marcio, però, gonfio di orgoglio e ormai molto insuperbito, ammirato dai potenti, capeggiò apertamente l'opposizione ai capi popolari. La colonia venne mandata, i sorteggiati furono costretti a partire dietro minaccia di pene severe, e quando la gente rifiutò in massa il servizio militare, Marcio in persona raccolse i suoi clienti e quanti altri riuscì a persuadere, e fece un'incursione nel territorio di Anzio. 4 Là trovò molto grano e si assicurò un gran bottino di ovini e prigionieri: non tenne nulla per sé ma rientrò a Roma alla testa dei suoi soldati che spingevano o portavano sulle spalle ricche prede. Gli altri si pentirono e invidiavano quelli che erano venuti in possesso di tanti beni e odiavano Marcio, mal sopportando la sua fama e il suo potere che, secondo loro, cresceva a danno del popolo.
XIV 1 Poco dopo, quando Marcio si presentò per il consolato, la moltitudine divenne meno ostile, e la gente sentì una certa vergogna a disprezzare e ad accanirsi contro un uomo eminente per famiglia e valore e a cui si dovevano così tanti e grandi benefici. Era usanza che i candidati alla carica arringassero il popolo e ne sollecitassero i voti scendendo nel foro con un mantello e senza tunica. Forse per ottenere voti rendendosi umili nell'aspetto o forse, nel caso avessero cicatrici, per esibire le evidenti prove del loro coraggio. 2 Certamente non era per il sospetto che il candidato corrompesse i cittadini comprandone i voti che gli veniva richiesto di presentarsi davanti a loro senza cinta e senza tunica. Infatti la compravendita di voti arrivò molto più tardi a mischiare il denaro con i voti dell'assemblea. 3 Dopo di che la corruzione raggiunse i giudici e l'esercito, e trasformò la città in monarchia, asservendo le armi al denaro. Perché non si sbagliava, pare, chi disse che il primo ad abbattere il popolo è il primo che gli offre banchetti e denaro. Ma a Roma questo male sembra essere penetrato di nascosto e un poco alla volta senza venir subito notato. 4 Infatti non sappiamo chi fosse a Roma il primo corruttore del popolo e dei tribunali. Ad Atene, invece, si dice che il primo ad offrire denaro ai giudici fu Anito, figlio di Antemione, quando venne processato per tradimento per i fatti di Pilo, verso la fine della guerra del Peloponneso, nell'epoca in cui la stirpe pura dell'età dell'oro reggeva ancora il foro romano.
XV 1 Quando Marcio mostrò le molte ferite riportate nelle molte battaglie in cui aveva primeggiato come combattente per 17 anni consecutivi, la gente rimase profondamente colpita e tutti si promisero a vicenda di eleggerlo. Ma quando, il giorno delle votazioni, Marcio entrò altezzosamente nel foro accompagnato dal senato, e tutti i patrizi intorno a lui mostravano di sostenerlo come mai avevano caldeggiato altre cause, 2 la moltitudine perse di nuovo la buona disposizione nei suoi confronti e venne trascinata dal rancore e dall'invidia. Si mescolava a questi sentimenti anche la paura: se un aristocratico con così tanti seguaci fra i patrizi si fosse impadronito del potere poteva privare il popolo di ogni libertà.
3 Così, in questo stato d'animo, votarono contro Marcio e altri due candidati vennero eletti. I senatori erano molto contrariati, ritenendo il fatto un insulto più contro di loro che contro Marcio, e lui stesso non riuscì ad affrontare la situazione con equilibrio e autocontrollo. Aveva dato spazio alla parte impetuosa e ambiziosa dell'anima, ritenendola grande ed elevata, e non erano state instillate in lui, per mezzo dell'educazione e della disciplina, la dignità e la moderazione che sono le principali virtù dell'uomo politico. 4 Non sapeva inoltre che la caparbietà è «compagna della solitudine», come diceva Platone, e che va assolutamente evitata se uno vuole occuparsi degli affari pubblici; è necessario invece mescolarsi agli altri e divenire amante di quella pazienza che viene così tanto derisa. Ma essendo una persona semplice e tenace, e ritenendo la vittoria e il comando sempre e in ogni cosa opera del coraggio e non della fiacchezza e debolezza, che, come un edema, dall'anima sofferente e agitata sprigionano rabbia, se ne andò via pieno di rancore e di amarezza nei confronti del popolo. 5 I giovani patrizi, quelli che in città più vantavano nobili origini e floridezza economica, erano stati sempre incredibilmente devoti a quest'uomo, e anche allora si strinsero intorno a lui in un momento in cui la loro presenza non gli faceva alcun bene, e ne rinfocolarono il cattivo umore condividendo la sua indignazione e il suo dolore. Era infatti loro guida e amichevole maestro nell'arte militare durante le campagne e ispirava loro nelle vittorie uno zelo per il valore che non conosceva invidie reciproche.
XVI 1 Nel frattempo arrivò a Roma il grano, in gran parte comprato in Italia, ma non poco giunto da Siracusa in regalo, mandato da Gelone il tiranno. Le masse dunque nutrivano grandi speranze, aspettandosi che la città sarebbe stata liberata dalla carestia e dalle contese. Subito fu riunito il senato e la gente radunatasi fuori aspettava l'esito della seduta, sperando in un prezzo filantropico per il grano sul mercato e in una distribuzione gratuita del grano giunto in regalo. Infatti c'erano alcuni nel senato che consigliavano ai colleghi quest'operazione. 2 Ma Marcio si alzò e attaccò duramente coloro che favorivano la moltitudine, bollandoli come demagoghi e traditori dell'aristocrazia e dichiarando che alimentavano, a proprio svantaggio, i semi maligni dell'insubordinazione e dell'insolenza che erano stati gettati fra le masse. Non avrebbero dovuto permettere sin da subito che attecchissero né rafforzare il potere delle masse con la carica del tribunato. Ora i tribuni erano diventati una minaccia perché avevano ottenuto tutto ciò che volevano e la loro volontà non poteva essere contrastata, si rifiutavano di obbedire ai consoli, e nell'insubordinazione avevano dei capi che loro definivano magistrati. 3 Stare lì seduti a elargire donazioni e contributi al popolo, come i democratici più spinti fra i Greci, disse, significava solo alimentarne la disobbedienza, che avrebbe condotto alla rovina comune. «Perché certo non potranno dire che ricevono questi doni come ricompensa per il servizio militare che non hanno prestato, e per la secessione con la quale hanno rinnegato la patria, e per le calunnie lanciate contro il senato. Penseranno invece che voi, cedendo alla paura e al servilismo, offriate questi doni, facciate queste concessioni e non porranno limite alla propria indocilità, non cesseranno di creare disordini e rivolte. 4 Una condotta del genere da parte nostra sarebbe dunque pura follia. Se siamo saggi, portiamogli via il tribunato che esautora i consoli e divide la città: questa città ormai non è più unita come un tempo, è stata spezzata in due, noi non possiamo più crescere insieme, né pensare in modo unanime, né por fine ai mali e gli sconvolgimenti reciproci».
XVII 1 Dicendo molte cose del genere, Marcio ottenne un successo oltre misura, i giovani condividevano il suo entusiasmo e così pure quasi tutti i ricchi, e gridavano che lui era l'unico uomo nella città che non cedeva al popolo, che non lo adulava. Alcuni dei senatori più anziani si opposero, prevedendo gli esiti. E gli esiti non portarono nulla di buono. Infatti i tribuni erano presenti e quando videro che la proposta di Marcio avrebbe vinto, corsero fuori, dalla gente, gridando, e incitarono i plebei a ribellarsi e a venire in loro aiuto. 2 Ci fu una tempestosa assemblea, e quando venne riportato il discorso di Marcio, il popolo fu preso dalla rabbia e tentò di irrompere nell'aula del senato. I tribuni presentarono denuncia contro Marcio e lo fecero convocare perché si discolpasse. Ma quando Coriolano con insolenza respinse gli ufficiali che gli erano stati mandati, si recarono loro stessi, accompagnati dagli edili, per tradurlo via a forza, e tentarono di mettergli le mani addosso. Ma i patrizi, coalizzati, cacciarono i tribuni e picchiarono gli edili.
3 A questo punto era calata la sera a porre fine al tumulto; come si fece giorno i consoli videro il popolo esacerbato accorrere al foro da ogni direzione, e provarono paura per Roma. Riunirono quindi il senato e gli ordinarono di cercare, con discorsi adatti e soluzioni valide, di calmare e rappacificare la moltitudine, perché non era il momento per gare di ambizione e di fama, se avevano un po' di saggezza, la situazione era critica e pericolosa, e necessitava una politica indulgente e umanitaria. 4 La maggioranza dei senatori cedette e i consoli si recarono a ragionare, per quanto potevano, con la gente e a calmarla; risposero alle accuse in modo equilibrato e usarono consigli e avvertimenti con moderazione; per quanto riguardava il prezzo del grano in vendita e il rifornimento del mercato dichiararono che non ci sarebbero state divergenze con il popolo.
XVIII 1 Così la maggior parte della gente si arrese ed era ovvio dal modo ordinato e pacifico con cui porgevano ascolto che si sarebbero lasciati guidare e incantare. Allora i tribuni si alzarono e dichiararono che visto il modo ragionevole con cui agiva il senato, il popolo dal canto suo si sarebbe mostrato bendisposto. Insistettero però che Marcio rispondesse alle imputazioni. Negava di aver istigato il senato a violare la costituzione e a liquidare i poteri del popolo? Quando gli era stato ordinato di presentarsi davanti ai tribuni non si era rifiutato? 2 Infine, picchiando e ingiuriando gli edili nel foro, non aveva fatto quanto era in suo potere per incitare la gente ad armarsi e scatenare la guerra civile? Ponevano questi interrogativi nella speranza che Marcio venisse umiliato in pubblico se, contrariamente alla sua natura, avesse soffocato l'orgoglio e si fosse piegato al volere della plebe. Oppure che, cedendo alla propria indole, facesse qualcosa che giustificasse la loro ira contro di lui e la rendesse implacabile. Era questo che essi soprattutto si aspettavano e avevano dato una corretta valutazione dell'uomo.
3 Venne e si presentò di fronte a loro, come volesse difendersi, e la gente stava zitta e quieta. Ma quando, invece dell'atteso discorso apologetico, iniziò non solo ad usare una sfrontatezza offensiva e carica di accuse, ma a mostrare anche col tono di voce e l'espressione del volto una mancanza di paura non lontana dal disdegno e dal disprezzo, 4 il popolo si inasprì e dette chiari segni di essere infastidito e irritato dalle sue parole. A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpeae di gettarlo giù nella voragine. 5 Ma quando gli edili afferrarono la sua persona parve, persino a molti plebei, una misura orribile e eccessiva; i patrizi, completamente fuori di senno e orripilati, lanciando alte grida accorsero in suo aiuto. Alcuni di loro bloccarono gli ufficiali che eseguivano l'arresto e presero Marcio fra di loro; 6 altri tesero le mani verso i plebei in segno di supplica, dato che le parole e le grida non servivano a nulla in mezzo a un tale tafferuglio e tumulto. Alla fine gli amici e i parenti dei tribuni, rendendosi conto che era impossibile portare via Marcio e punirlo senza versare il sangue di molti patrizi, li persuasero a desistere dall'insolita e pesante punizione, a rinunziare alla violenza e alla condanna a morte senza processo, e li convinsero invece a consegnare Coriolano al popolo perché si pronunziasse mediante votazione. 7 Allora Sicinnio, calmatosi, chiese ai patrizi a che scopo sottraevano Marcio al popolo che lo voleva punire. Ma i patrizi domandarono a loro volta: «Con che idea e a che scopo tentate di trascinare, senza processo, uno degli uomini più eminenti di Roma a una punizione crudele e illegale?». 8 «Ebbene», disse Sicinnio, «non avrete più nessun pretesto di discordia e contesa faziosa con il popolo: la vostra richiesta di un processo sarà accontentata. Ti ordiniamo, Marcio, di presentarti davanti ai cittadini, il terzo giorno di mercato a partire da oggi, per convincerli, se puoi, della tua innocenza. Verrai giudicato mediante votazione».
XIX 1 Per il momento i patrizi furono soddisfatti della riconciliazione e se ne andarono via contenti di avere Marcio con loro. Ma nel periodo precedente al terzo giorno di mercato (i Romani tenevano mercato ogni nove giorni e pertanto veniva chiamato nundinae) nacque in loro la speranza di un rinvio perché fu intrapresa una campagna contro la città di Anzio. Quest'operazione militare sarebbe durata abbastanza a lungo - pensavano - perché la gente diventasse malleabile, una volta che l'ira diminuisse o si estinguesse del tutto grazie all'impegno bellico. 2 Invece i cittadini fecero ritorno a casa dopo una veloce soluzione del conflitto con gli Anziati, e i patrizi allora tennero molte riunioni; erano spaventati e studiavano come evitare la consegna di Marcio senza offrire con ciò ai capi popolari l'occasione per agitare le masse. Appio Claudio, dunque, che aveva la fama di uno fra i più ostili oppositori delle plebi affermò solennemente che il senato si sarebbe autodistrutto e avrebbe totalmente tradito il governo se lasciava che il popolo disponesse del voto contro i patrizi: 3 i membri più anziani e i più democratici erano invece di opinione contraria: secondo loro il popolo non sarebbe stato reso duro e intransigente da questa facoltà, bensì misurato e umano. Non disprezzava, infatti, il senato ma si sentiva da esso disprezzato, il processo avrebbe rappresentato un segno d'onore e una consolazione e, arrivato alla votazione, il popolo avrebbe deposto l'ira.
XX 1 Marcio, vedendo che il senato era diviso tra la simpatia nei suoi confronti e la paura del popolo, chiese ai tribuni quali fossero le accuse contro di lui, e con quali imputazioni lo avrebbero tradotto per il giudizio davanti al popolo. Risposero che l'accusa era di tirannide e che loro avrebbero dimostrato la sua intenzione di usurpare il potere. Allora si alzò e disse che si sarebbe immediatamente presentato di fronte al popolo per la sua difesa e che non avrebbe rifiutato nessun tipo di verdetto né, se trovato colpevole, alcun tipo di punizione: «Solo», disse, «attenetevi a queste accuse e non ingannate il senato». Furono d'accordo e in base a questi termini si svolse il processo.
2 Ma quando la gente si raccolse, prima di tutto i tribuni pretesero che la votazione avvenisse non per centurie ma per tribù, rendendo così le masse degli indigenti e turbolenti, privi di senso dell'onore, superiori nel potere di voto ai ricchi e illustri e pronti a servire in guerra. 3 In secondo luogo abbandonarono l'imputazione di tirannide, indimostrabile, e ricordarono nuovamente i discorsi di Marcio davanti al senato, quando aveva cercato di impedire il ribasso dei prezzi di mercato e aveva chiesto l'abolizione del tribunato. Aggiunsero anche una nuova accusa contro di lui, e cioè che si era opposto alla distribuzione delle spoglie raccolte nel territorio di Anzio, non le aveva consegnate al tesoro pubblico ma le aveva distribuite fra i soldati che avevano combattuto al suo fianco. 4 Si dice che questa accusa turbasse Marcio più delle altre. Non se l'era aspettata e non aveva subito pronta una risposta persuasiva per le masse, e così si limitò a elogiare gli uomini che avevano partecipato alla campagna, ma quelli che non avevano partecipato, e erano la maggioranza, tumultuarono contro di lui. Infine le votazioni si svolsero secondo le tribù e Marcio venne condannato per una maggioranza di tre tribù. La pena comminata fu l'esilio a vita. 5 Dopo che l'esito venne annunziato, il popolo se ne andò mostrando più gioia e felicità che se avesse vinto una battaglia contro il nemico. Il senato invece era angosciato e profondamente avvilito: si pentiva ora e pativa per non aver fin dall'inizio fatto e sopportato qualunque cosa piuttosto che permettere al popolo di oltraggiarlo servendosi del grande potere acquisito. E non c'era più bisogno ora di un abito o altri segni esteriori per distinguersi, ma era immediatamente chiaro che chi esultava era plebeo e chi si rammaricava era patrizio. |[continua]|
|[VITA DI CORIOLANO, 2]|
XXI 1 Tuttavia Marcio, imperturbabile e per nulla umiliato, ma composto nell'aspetto, nel portamento e nell'espressione, appariva l'unico a non provare compassione per se stesso in mezzo a tutti gli altri patrizi sofferenti. E ciò non avveniva in base a un calcolo, o per via della mitezza o di un'equilibrata sopportazione degli eventi, Coriolano anzi era posseduto dall'ira e da un profondo risentimento, e questo, anche se i più non lo riconoscono, è dolore. 2 Perché quando il dolore si trasforma in rabbia è come un fuoco che caccia l'umiltà e l'inerzia. L'uomo in preda all'ira appare attivo, come un febbricitante è caldo, la sua anima per così dire pulsa, si dilata, si gonfia. E Marcio con i fatti dimostrò ben presto che si trovava appunto in questa condizione.
3 Andò a casa dove la madre e la moglie lo ricevettero con pianti e lamenti, le abbracciò, ordinò loro di sopportare con equilibrio quanto era avvenuto, e si diresse subito verso le porte della città. Là tutti i patrizi insieme lo accompagnarono, ma lui si allontanò senza prendere o chiedere niente, e portandosi dietro solo tre o quattro clienti. 4 Per qualche giorno rimase da solo in qualche località di campagna, lacerato da pensieri contrastanti, suggeritigli dall'ira, e non erano pensieri nobili o utili, ma solo di vendetta contro i Romani. Infine decise di spingere i paesi confinanti a una guerra feroce contro di loro. Cercò dunque di convincere per primi i Volsci, sapendoli ancora forti di uomini e di mezzi e pensando che le recenti sconfitte avessero avuto l'effetto non tanto di distruggere la loro potenza quanto di riempirli di rabbia e desiderio di rivincita contro i Romani.
XXII 1 C'era un uomo ad Anzio che per ricchezza, coraggio e natali, aveva un'alta reputazione e veniva considerato alla stregua di un re presso tutti i Volsci. Si chiamava Tullo Anfidio. Marcio sapeva di essere odiato da quest'uomo come nessun altro dei Romani; spesso, infatti, si erano scambiati minacce e sfide nel corso delle battaglie, e la loro rivale spavalderia come l'ardore e l'ambizione di giovani guerrieri aveva portato a un reciproco odio personale in aggiunta a quello dei loro popoli. 2 Comunque vedendo che Tullo possedeva una certa grandezza d'animo e che, più di tutti gli altri Volsci, voleva a suo turno stroncare i Romani, se solo gliene avessero data l'opportunità, Marcio testimoniò quanto avesse ragione colui che aveva detto: «È difficile combattere il proprio animo: quello che vuole lo compra al prezzo della vita». Infatti, indossando un vestito e un abbigliamento che l'avrebbe fatto sembrare, a chi lo guardasse, chiunque fuorché lui, come Odisseo «entrò nella città di gente nemica».
XXIII 1 Era sera e molti lo incontrarono ma nessuno lo riconobbe. Si recò dunque alla casa di Tullo, entrò di nascosto e si diresse rapidamente verso il focolare, si sedette in silenzio, si coprì il capo e rimase immobile. La gente di casa era stupita ma non aveva il coraggio di farlo alzare (il suo aspetto ed il silenzio infatti avevano un che di nobile); ma riportarono a Tullo, che stava cenando, lo strano avvenimento. 2 Tullo si alzò e si recò da lui, gli chiese chi fosse e per che motivo fosse venuto. Allora Marcio scoprì il volto e alcuni attimi dopo disse: «Se ancora non mi riconosci, Tullo, o non credi ai tuoi occhi, dovrò diventare l'accusatore di me stesso. Sono Caio Marcio, quello che ha arrecato a te e ai Volsci molte sofferenze, il mio soprannome, Coriolano, non lascia dubbi. 3 Non ho ottenuto altra ricompensa per le fatiche e i pericoli da me affrontati se non questo nome che è come un emblema del mio odio per la tua gente. Questo non mi verrà mai tolto; tutto il resto invece mi è stato portato via dall'invidia e insolenza del popolo romano e dalla codardia e tradimento dei magistrati e dei miei pari. Sono stato mandato in esilio e sono venuto come supplice al tuo focolare, non in cerca di protezione e salvezza (perché infatti verrei qui se avessi paura di morire?) ma per ottenere giustizia contro coloro che mi hanno cacciato, cosa che faccio mettendomi al tuo servizio. 4 Se tu dunque sei ansioso di attaccare i nemici, vai, mio signore, approfitta delle mie disgrazie e fai della mia sfortuna personale la fortuna dei Volsci; combatterò per voi meglio di come abbia combattuto contro di voi, perché chi conosce i nemici li combatte meglio di chi non li conosce. Se rifiuti, né io voglio più vivere, né tu ricavi alcun vantaggio nel risparmiare un uomo che una volta ti fu odioso nemico, e ora è inutile e inservibile».
5 Udite queste parole, Tullo se ne rallegrò straordinariamente e porgendogli la destra: «Alzati», disse, «Marcio, e fatti coraggio. Offrendoti a noi, ci fai un grande regalo, e dai Volsci te ne puoi aspettare uno ancora più grande». Allora invitò al banchetto Marcio con ogni amicizia, e nei giorni seguenti i due prepararono piani per la guerra.
XXIV 1 Ma a Roma, grazie all'odio dei patrizi nei confronti del popolo, dovuto soprattutto alla condanna di Marcio, regnava una grande agitazione e molti preoccupanti presagi venivano riportati dagli indovini, dai sacerdoti e da privati cittadini. Uno di questi accadde, dicono, così. C'era un tale Tito Latino, un uomo non molto in vista, un tipo pacifico e semplice, in generale, libero da superstizioni e ancor più da vanterie. 2 A quest'uomo dunque Zeus apparve in sogno e gli ordinò di riferire al senato che avevano designato a aprire la sua processione un danzatore cattivo e sgradevolissimo. Tito - così dichiarò - in principio non aveva dato troppo peso alla visione, ma dopo che gli era apparsa una seconda e una terza volta, e ancora la ignorava, subì la perdita di un ottimo figlio e lui stesso perse le forze per un improvviso indebolimento fisico. 3 Raccontò questa storia dopo essere stato condotto al senato su una lettiga. Conclusa la sua esposizione, dicono, subito sentì il vigore ritornargli in corpo e, alzatosi in piedi, se ne andò camminando. Stupiti, i senatori condussero un'attenta indagine sul caso. Ecco cos'era successo. Un tale aveva consegnato un suo schiavo a degli altri schiavi con l'ordine di trascinarlo a suon di frustate attraverso il foro, e poi di ucciderlo. 4 Mentre gli schiavi eseguivano gli ordini e maltrattavano il disgraziato, che si dimenava per ogni verso, contorto dal dolore e spinto a camminare con una serie di movimenti scomposti, per caso la sacra processione in onore di Zeus avanzava dietro di lui. Molti dei presenti si indignarono di fronte a una vista così poco divertente e a movimenti tanto sgradevoli, ma nessuno protestò: si limitarono a riversare insulti e imprecazioni contro chi infliggeva una punizione così crudele. Infatti allora gli schiavi venivano trattati con grande umanità perché i padroni lavoravano e mangiavano insieme ad essi, ed avevano pertanto un rapporto più civile e familiare con loro. 5 Era considerata una punizione severa per uno schiavo che aveva commesso una mancanza, se veniva costretto a caricarsi sulle spalle il blocco di legno con il quale si sostiene il timone del carro, e a portarlo in giro attraverso il vicinato. Chi subiva tale punizione sotto gli occhi dei vicini, ne perdeva la fiducia e veniva chiamato «furcifero»: dato che quello che i Greci chiamano supporto o sostegno viene chiamato furca dai Romani.
XXV 1 Quando dunque Latino riferì ai senatori la sua visione, ed essi erano in difficoltà su chi potesse essere il cattivo e sgraziato danzatore in testa a quella processione, alcuni si ricordarono, data l'insolita punizione, di quello schiavo che era stato trascinato a suon di frusta nel foro e quindi ucciso. Dunque, d'accordo con i sacerdoti, il padrone dello schiavo venne punito, e la processione e gli spettacoli in onore del dio furono organizzati da capo.
2 Ora sembra che Numa, anche per altri aspetti una saggia guida per i riti sacri, per ottenere il rispetto reverenziale della gente avesse stabilito questa ottima legge: quando i magistrati o i sacerdoti celebrano una funzione religiosa, un araldo li precede gridando a gran voce: Hoc age. Il significato della frase è: «Occupati di questo», e avvisa la gente di prestare attenzione ai sacerdoti e di non frapporre attività alcuna o preoccupazione di lavoro, ritenendo che gli uomini svolgono la maggioranza delle attività per necessità o costrizione. 3 È abitudine dei Romani ripetere da capo sacrifici e processioni e spettacoli, non solo per motivi come questo, ma anche per ragioni di minima importanza. Per esempio, se a uno dei cavalli che tirano il carro sacro chiamato tessa mancano le forze, oppure se l'auriga tiene le redini con la mano sinistra, decretano che la processione venga ricominciata. E in tempi più recenti lo stesso sacrificio è stato ripetuto trenta volte, sempre perché si riteneva vi fosse stata qualche omissione o causa di offesa. Tale è la riverenza dei Romani per il dio.
XXVI 1 Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. 2 Alcuni dicono che ciò era accaduto grazie a un astuto inganno di Marcio, il quale avrebbe mandato dai consoli a Roma un falso informatore a riferire che i Volsci intendevano attaccare i Romani durante gli spettacoli e dar fuoco alla città. Il bando pubblico inasprì tutti i Volsci contro i Romani: Tullo ingigantì l'incidente e li istigò finché non li convinse a mandare ambasciatori a Roma a chiedere la restituzione di terre e città sottratte in guerra ai Volsci stessi. 3 Ma i Romani, ascoltati gli ambasciatori, si infuriarono e risposero che se i Volsci fossero stati i primi a prendere in mano le armi i Romani sarebbero stati gli ultimi a deporle. In seguito a ciò Tullo convocò un'assemblea generale del suo popolo e dopo che avevano tutti votato a favore della guerra, li consigliò di chiamare Marcio, di non mostrare risentimento nei suoi confronti, ma di riporre in lui fiducia perché sarebbe stato più utile come alleato di quanto fosse mai stato dannoso come nemico.
XXVII 1 Marcio venne dunque chiamato e tenne un discorso di fronte all'assemblea in cui si rivelò un uomo non meno straordinario e pugnace nel parlare che nel combattere, un individuo fuori dal comune per intelligenza e audacia; venne quindi eletto insieme a Tullo in qualità di generale con pieni poteri. 2 Temendo che il tempo necessario per preparare i Volsci fosse così lungo da fargli perdere il momento migliore per l'azione, ordinò ai magistrati e ai potenti della città di raccogliere il resto delle forze e le vettovaglie, mentre dal canto suo persuase i più accesi a seguirlo come volontari senza aspettare di essere arruolati, e piombò sul territorio romano, all'improvviso, quando nessuno se lo aspettava. 3 In questa maniera si procurò un bottino così abbondante che i Volsci non riuscirono né a portarlo via né a farne uso sul campo. Ma quella ricchezza e il grave danno e distruzione arrecati al paese nemico, erano per lui il risultato meno significativo della spedizione: il suo scopo principale era quello di rendere i patrizi ancora più invisi al popolo romano. Infatti mentre aveva devastato e distrutto tutto il resto aveva invece vigorosamente protetto i poderi degli abbienti e non aveva permesso che patissero alcun danno o che qualcosa fosse portato via. 4 Questo condusse a ulteriori reciproche accuse e a disordini, i patrizi davano la colpa al popolo per aver bandito ingiustamente un uomo che contava, e il popolo imputava ai patrizi di incitare Marcio contro la plebe per spirito di vendetta, e di godersi poi lo spettacolo di altri che combattevano, mentre la guerra proteggeva i beni e le proprietà terriere degli aristocratici. Dopo essere riuscito nel suo intento ed aver aiutato i Volsci ad acquistare coraggio e disprezzo per il nemico, Marcio ritirò le sue truppe sane e salve.
XXVIII 1 Tutte le forze dei Volsci furono velocemente e alacremente radunate e sembrarono così vaste che venne deciso di lasciarne una parte a difesa delle città e di marciare con l'altra contro Roma. Marcio concesse a Tullo di decidere quale delle due unità voleva comandare. Tullo rispose di aver notato che Marcio non gli era inferiore per valore e che aveva ottenuto maggiore fortuna in tutte le sue battaglie: pertanto lo invitò a mettersi a capo delle truppe che scendevano in campo, mentre lui sarebbe rimasto indietro a proteggere le città e a rifornire del necessario i combattenti. 2 Con forze superiori alle precedenti Marcio si diresse prima contro Circei, una colonia di Roma, ed essa si arrese di sua volontà, senza subire danni. Poi devastò il territorio dei Latini: in esso si attendeva che i Romani avrebbero ingaggiato battaglia contro di lui per difendere i Latini: erano alleati di Roma e ne avevano ripetutamente chiesto l'intervento. 3 Ma il popolo dimostrava scarso entusiasmo e i consoli non volevano correre rischi verso la fine della loro carica, e pertanto congedarono i messi dei Latini. Così Marcio condusse il suo esercito contro le città e prese con la forza quelle che gli resistevano: Tolerio, Labico, Pedo e in seguito Bola, fece un bottino di schiavi e razziò ogni bene. Ma mostrava grande riguardo per le città che gli si arrendevano spontaneamente, e perché non subissero, contro la sua volontà, danni di sorta, si accampava quanto più lontano possibile dalle loro aree.
XXIX 1 Ma dopo che ebbe preso Bola, una città situata a non più di cento stadi da Roma, dove si impadronì di ricche prede e uccise quasi tutti gli adulti, i Volsci che avevano avuto l'incarico di rimanere nelle città non riuscirono più a resistere, ma in armi raggiunsero Marcio, dichiarando che lui era l'unico e solo generale che riconoscevano come capo. Il suo nome divenne allora famosissimo in tutta Italia, e ci si stupiva molto che il valore di un singolo uomo, trasferitosi dall'altro lato della barricata, avesse prodotto un così imprevisto capovolgimento della situazione.
2 A Roma regnava il disordine, i cittadini si rifiutavano di combattere e passavano le giornate in riunioni e dispute sediziose, finché si ebbe notizia che i nemici avevano stretto d'assedio Lavinio dove erano custoditi i sacri emblemi degli aviti dèi di Roma, e da cui aveva avuto origine la loro nazione: Lavinio era stata la prima città fondata da Enea. 3 Il fatto produsse un radicale e totale cambiamento di idee nel popolo nonché un mutamento strano e inatteso nei patrizi. Il popolo era pronto a annullare la condanna di Marcio e a richiamarlo dall'esilio, mentre i senatori, dopo essersi riuniti e aver discusso la proposta, la ostacolarono e la respinsero. Forse perché si ostinavano a opporsi a tutti i desideri del popolo, 4 oppure perché non volevano che Marcio fosse richiamato dalla benevolenza del popolo, oppure ancora perché erano loro stessi adirati contro di lui, vedendo che faceva del male a tutti, sebbene non fosse stato offeso da tutti, e si mostrava un nemico della patria, anche se sapeva che gli uomini più influenti e potenti simpatizzavano con lui e pativano per l'ingiustizia da lui patita. La decisione del senato, una volta resa pubblica, esautorò il popolo: non poteva, infatti, emanare una legge col proprio voto senza un precedente decreto del senato.
XXX 1 Ma quando Marcio ricevette la notizia, si esasperò ancora di più, abbandonò l'assedio e, in preda all'ira, marciò contro Roma, accampandosi alle cosiddette Fosse Clelie, a quaranta stadi dalla città. La sua vista creò panico e confusione, ma allo stesso tempo pose fine al dissenso in atto; perché nessuno, console o senatore, ebbe il coraggio di opporsi al popolo riguardo al richiamare Marcio. 2 Anzi, quando videro le donne correre a destra e a sinistra, gli anziani rivolgersi ai templi tra preghiere, suppliche e lacrime, e la popolazione totalmente priva di coraggio e di piani di salvezza, ammisero che la plebe aveva ragione a cercare una riconciliazione con Marcio e che il senato aveva sbagliato completamente perché sarebbe stato meglio lasciare da parte l'ira e lo spirito di vendetta fin dall'inizio. Venne dunque deciso da tutti di mandare degli ambasciatori da Marcio per offrirgli di tornare in città e per chiedergli di porre fine alla guerra contro di loro. 3 I messaggeri del senato erano legati a Marcio e ci si attendeva che al loro primo incontro sarebbero stati trattati con simpatia da un uomo che era loro parente ed amico. Ma non accadde nulla di questo: condotti attraverso il campo nemico lo trovarono seduto in pompa magna e di una arroganza intollerabile. 4 Circondato dai capi dei Volsci, ordinò ai visitatori di dire che cosa volevano. Essi si espressero in un linguaggio ragionevole e cortese e in una maniera adatta alla situazione: quando ebbero finito, Marcio rispose per parte sua in modo pungente e pieno di rabbia per quello che aveva subito, e poi a nome dei Volsci e come loro generale chiese la restituzione delle città e delle terre che erano state prese durante la guerra e un decreto che concedesse ai Volsci gli stessi diritti civili dei Latini, 5 perché la cessazione del conflitto sarebbe stata garantita solo dalla parità di diritti e dalla giustizia. Diede al senato trenta giorni di tempo, e quando gli ambasciatori se ne furono andati, ritirò immediatamente le sue forze dal paese.
XXXI 1 Questo fu il primo capo di imputazione da parte di quei Volsci che erano da tempo gelosi di lui e mal sopportavano il suo potere: tra di loro vi era anche Tullo, non perché avesse subito personalmente dei torti da Marcio, la sua era solo una reazione umana. Lo irritava vedere la propria fama totalmente oscurata ed essere negletto dai Volsci, i quali ritenevano che solo Marcio fosse tutto per loro e che gli altri generali si dovessero accontentare di quella parte di potere e autorità che da lui ricevevano. 2 Dal ritiro delle truppe nacquero e si sparsero di nascosto le prime accuse: i malcontenti si riunirono tra di loro e definirono l'abbandono del campo un tradimento, non tanto di città e armi, ma di una situazione preziosa, di quelle da cui dipendono la salvezza o la rovina di tutti. Perché Marcio aveva concesso una tregua di trenta giorni, quando in guerra cambiamenti più grandi possono verificarsi in un periodo molto più breve.
3 Frattanto Marcio non trascorse quel tempo con le mani in mano, assalì e sgominò gli alleati del nemico, ne devastò le terre e conquistò sette città grandi e popolose. I Romani non avevano il coraggio di accorrere in loro aiuto: il loro animo era esitante, l'atteggiamento nei confronti della guerra era quello di uomini completamente intorpiditi e paralizzati. 4 Quando il tempo fu trascorso e Marcio riapparve con tutte le sue forze, mandarono un'altra ambasciata che chiedeva a Marcio di moderare la sua ira, di ritirare i Volsci dal territorio, e di fare e dire, poi, ciò che riteneva migliore per le due parti. Perché i Romani non avrebbero fatto concessioni dettate dalla paura, ma se lui pensava che i Volsci dovessero ottenere dei benefici, sarebbero stati loro interamente concessi se deponevano le armi. 5 Marcio replicò che, in qualità di generale dei Volsci, non avrebbe dato una risposta, ma che essendo ancora cittadino di Roma, li consigliava ed esortava a riflettere in modo più equilibrato sulla giustizia, e a tornare da lui dopo tre giorni con le sue richieste ratificate; ma se la decisione fosse stata diversa - li ammonì - non sarebbe stato più possibile per loro entrare nell'accampamento impunemente con discorsi vuoti.
XXXII 1 Quando gli ambasciatori fecero ritorno e il senato li ebbe ascoltati, sembrò che la città fosse in balia dei flutti di una grande tempesta, e venne gettata l'ancora di salvezza. Si votò che tutti i sacerdoti degli dèi e i celebranti dei misteri e i custodi e coloro che praticavano l'antica e patria ornitomanzia, si recassero tutti da Marcio, indossando i paramenti delle cerimonie, e gli rinnovassero le stesse richieste: porre fine alla guerra, e dopo discutere con i suoi concittadini a proposito dei Volsci. 2 Ricevette dunque gli uomini al campo, ma non fece nessun'altra concessione, né si comportò e parlò in modo più condiscendente: li invitò a stipulare la riconciliazione secondo i termini prefissati, oppure ad accettare la guerra. Quando i sacerdoti fecero ritorno, si decise di rimanere saldamente nella città, di proteggere le mura e di respingere gli eventuali attacchi del nemico. 3 Ponevano le loro speranze soprattutto nel tempo e nelle bizzarrie della fortuna, dato che non sapevano come salvarsi con le loro azioni, ma agitazione, paura e voci funeste dominavano la città. Finché accadde qualcosa in un certo senso simile a ciò di cui parla spesso Omero, e che normalmente non viene creduto. 4 Perché di fronte a fatti grandi e insoliti, egli esclama: «Venne intanto ispirato da Atena dagli occhi fulgenti»; e ancora: «Ma qualche immortale gli fece mutare opinione, e gli mise in cuore la voce del popolo»; e di nuovo: «Meditava qualcosa o così volle un dio». Ma la gente disprezza Omero perché con le sue azioni impossibili e racconti inverosimili rende non credibile la responsabilità del singolo nelle proprie scelte. 5 In realtà Omero non fa questo, ma le azioni ragionevoli, consuete e logiche le attribuisce al nostro volere e perciò spesso dice: «Io pensavo nel mio magnanimo cuore»; e: «Così parlò, e il dolore colpì il figlio di Peleo, e il suo cuore dentro il petto villoso era diviso»; e ancora: «Ma non riuscì a persuadere in alcun modo Bellerofonte che era saggio e prudente»;
6 mentre nel caso di azioni insolite e straordinarie e che richiedono un qualche slancio invasato e una dimostrazione di coraggio, non rappresenta un dio che toglie all'uomo la scelta, bensì che la sollecita; che non crea degli impulsi, ma le idee che producono gli impulsi, e questi non causano azioni involontarie, ma danno l'avvio alla volontà, a cui dio aggiunge coraggio e speranza. 7 Infatti o l'intervento degli dèi deve venire totalmente escluso dall'origine delle nostre azioni, o in quale altro modo possono assistere e collaborare con l'uomo? Certamente non plasmando i nostri corpi, né modificando, come occorre, la posizione delle nostre mani e dei nostri piedi, ma con certi principi, idee e concezioni svegliano la parte pratica e decisionale della nostra anima, oppure la distolgono e la frenano.
XXXIII 1 A Roma, allora, gruppi di donne si recarono in vari templi, ma la maggior parte e le più nobili si riunivano a pregare intorno all'altare di Zeus Capitolino. Fra di esse vi era Valeria, una sorella di quel Publicola che aveva reso così tanti e notevoli servigi ai Romani sia come guerriero sia come uomo politico. Publicola era morto già da qualche tempo, come ho scritto nella sua Vita; Valeria stava invece ancora godendo di fama e onore nella città, e si riteneva che la sua vita facesse onore alla sua stirpe. 2 Questa donna dunque, improvvisamente colta da una di quelle sensazioni di cui ho parlato prima, afferrò ciò che richiedeva il momento con un'immaginazione non priva di ispirazione divina: si alzò, fece alzare tutte le altre donne e si diresse alla casa di Volumnia, la madre di Marcio. Entrando, la trovò seduta insieme a Virgilia, sua nuora, con i bambini di Marcio in braccio. Valeria chiamò attorno a sé le donne che l'avevano seguita e disse: 3 «Volumnia, e tu Virgilia, noi veniamo qui da donne a donne, non per delibera del senato o ordine dei consoli. Ma il nostro dio, a quanto pare, ha avuto compassione delle nostre preghiere e ci ha spinto a venire qui e implorarvi di offrire la salvezza a noi e agli altri cittadini, e ciò porterà a voi che avrete acconsentito una fama ben superiore di quella ottenuta dalle figlie dei Sabini, quando indussero i padri e i mariti a abbandonare la guerra e li portarono all'amicizia e alla pace. 4 Su, seguiteci da Marcio, unitevi a noi nelle suppliche, testimoniando la verità e la giustizia per il bene della patria, e cioè che essa, nonostante i molti danni patiti non ha mai fatto né inteso fare del male a voi, nella sua ira, ma vi restituisce a lui, pur sapendo che da lui non verrà trattata con giustizia».
5 Alle parole di Valeria fecero eco le grida di dolore delle altre donne, e Volumnia rispose: «Anche noi prendiamo uguale parte alle comuni sventure, ma soffriamo anche per un nostro male, abbiamo perso la fama e la virtù di Marcio e vediamo la sua persona vigilata più che preservata da morte dalle armi dei nemici. Ed è la più grande delle sfortune per noi che la patria si sia così indebolita da dover riporre le sue speranze in noi. 6 Infatti non so se Marcio avrà alcun riguardo per noi quando non ne ha per la patria, che un tempo ha anteposto a sua madre, a sua moglie e ai suoi figli. Comunque servitevi di noi, includeteci nel vostro gruppo e portateci da lui: se non altro spireremo nell'atto di supplicare per la patria».
XXXIV 1 Dopodiché prese i bambini e Virgilia e si recò insieme alle altre donne all'accampamento dei Volsci. La loro vista e la pena che suscitava suscitarono anche nel nemico rispetto e silenzio. In quel momento Marcio si trovava seduto in tribuna insieme agli altri comandanti. 2 Come scorse le donne che si avvicinavano, rimase sconcertato; e quando riconobbe la madre che le capitanava, avrebbe voluto continuare nel suo atteggiamento impassibile e implacabile, ma cedette ai sentimenti, e confuso dallo spettacolo, non riuscì a rimanere seduto mentre le donne si avvicinavano, e scese, non adagio ma in fretta dalla tribuna e corse loro incontro: prima abbracciò la madre, a lungo, poi la moglie e i figli, senza risparmiare lacrime e carezze, ma come concedendosi alla corrente delle emozioni che lo trascinava via.
XXXV 1 Ma quando fu sazio di ciò e si rese conto che la madre ora voleva parlargli, alla presenza dei consiglieri dei Volsci, ascoltò Volumnia che così si espresse: «Tu vedi, figlio mio, anche se non te lo diciamo noi stesse, e puoi rilevarlo dall'aspetto misero delle nostre vesti e delle nostre persone, quale effetto abbia avuto il tuo esilio sulla nostra casa. 2 Rifletti come noi che veniamo da te siamo le più sfortunate di tutte le donne, perché il destino ci ha reso terribile uno spettacolo che avrebbe dovuto essere dolcissimo: io vedo sì mio figlio, e lei suo marito, ma accampato contro le mura patrie. E quello che per gli altri è un conforto per tutta la sfortuna e tutte le disavventure, pregare gli dèi, per noi è diventato assolutamente impossibile. Infatti non possiamo allo stesso tempo chiedere agli dèi la vittoria della patria e la salvezza per te, ma le maledizioni che un nemico potrebbe augurarci sussistono nelle nostre preghiere. 3 Perché è necessario che tua moglie e i tuoi figli siano privati o della patria o di te. Io non aspetterò in vita che la guerra decida la mia sorte, ma se non riesco a convincerti a optare per l'amicizia e la concordia e non per il dissenso e i mali, e a diventare il benefattore per entrambe le parti e non il distruttore di una delle due, allora sappi, preparati, perché non potrai lanciarti contro la patria prima di passare sul cadavere di chi ti ha messo al mondo. Perché non posso macerarmi aspettando il giorno in cui mio figlio verrà condotto nel corteo trionfale dei suoi concittadini o trionferà lui contro la patria. 4 Se ti domandassi di salvare la patria e distruggere i Volsci, ti troveresti di fronte, figlio mio, a una decisione penosa e difficile da prendere, perché se non è bello uccidere i concittadini, non è neanche giusto tradire chi ha riposto fiducia in te. Ma noi chiediamo solo la liberazione dalle sventure: essa risulterebbe vantaggiosa per entrambe le parti, e porterebbe maggior gloria e fama ai Volsci, perché, essendo oggi i più forti, sembreranno offrirci loro i beni più alti, la pace e l'amicizia, mentre ne godrebbero anch'essi in prima persona. E il merito di tutto questo, se si avvera, andrebbe a te; se non si avvera sarai visto da entrambe le parti come l'unico colpevole. 5 L'esito della guerra è ancora oscuro, ma è chiaro invece che se vincerai, sarai solo il demone maledetto del tuo paese. Se verrai sconfitto apparirai come uno che per soddisfare la sua ira ha arrecato ai suoi benefattori e amici le più grandi calamità».
XXXVI 1 Marcio ascoltò il discorso della madre senza ribattere, e quando Volumnia ebbe terminato continuò a rimanere in silenzio. La madre allora riprese: «Perché taci, figlio? È dunque bello cedere all'ira e al risentimento, ma non è bello gratificare una madre che ti supplica? 2 O il ricordo dei torti subiti si addice a un grand'uomo, mentre la reverenza e l'onore per i benefici che i figli hanno ricevuto dai genitori non si confanno a un grand'uomo? Perché nessuno più di te avrebbe dovuto serbare la gratitudine, visto che agisci con tanta asprezza contro l'ingratitudine. 3 Eppure hai punito severamente la patria, ma non mostri alcuna riconoscenza verso tua madre. Sarebbe azione assai pia esaudire, senza esserne costretto, le richieste tanto ragionevoli e giuste che ti rivolgo; ma se non ti convinco perché dovrei risparmiare la mia ultima speranza?». Detto questo si gettò ai suoi piedi insieme alla moglie e ai figli. 4 Allora Marcio gridò: «Cosa mi hai fatto, madre?», e la tirò su, le strinse forte la destra. «Hai vinto», continuò, «e la tua vittoria significa fortuna per la patria, ma rovina per me: io ritirerò le mie truppe, da te sola sconfitto». Detto questo si trattenne ancora un poco in privato con la madre e la moglie, le fece rientrare a Roma, come era loro desiderio e, trascorsa la notte, diede ordine alle truppe dei Volsci di arretrare. I Volsci non erano tutti dello stesso parere sull'accaduto: 5 alcuni disapprovavano sia l'uomo sia l'azione, altri né l'uno né l'altra, in quanto erano favorevoli all'armistizio e alla pace; altri ancora, pur malcontenti per il fatto, non consideravano però Marcio un individuo ignobile, ritenevano che occorresse perdonarlo, se era crollato sotto una tale pressione. Ad ogni modo, nessuno si oppose al suo ordine, ma tutti lo seguirono impressionati più dalla sua virtù che dalla sua autorità.
XXXVII 1 Il popolo romano mostrò in modo più percepibile, quando ne fu liberato, quanto fossero grandi la paura e il pericolo in cui viveva in guerra. Non appena dalle mura si videro i Volsci abbandonare il campo, subito tutti i templi vennero spalancati e la gente si incoronò con ghirlande e offrì sacrifici come se si trattasse di una vittoria. Ma la gioia della città fu palese soprattutto nell'affetto e onore tributato alle donne dal popolo e dal senato, i quali dichiararono che la salvezza della città si doveva senz'altro a loro. 2 Il senato deliberò che qualsiasi cosa le due donne avessero richiesto in segno di onore o favore, i magistrati avrebbero provveduto a esaudire il loro desiderio. Ma esse non chiesero nulla per sé salvo l'erezione di un tempio alla Fortuna delle Donne, alla spesa si offrirono di contribuire, se la città si fosse fatta carico di tutti i sacrifici e gli onori dovuti agli dèi. 3 Il senato lodò la loro munificenza ma eresse a spese pubbliche il tempio e la statua della dea. Le donne contribuirono comunque con il proprio denaro e fecero fare una seconda statua della dea che, secondo quanto affermano i Romani, quando fu posta nel tempio mormorò qualcosa come: «Caro agli dèi, o donne, è questo vostro pio dono di me».
XXXVIII 1 Raccontano che la frase fosse pronunciata due volte, forzandoci a credere a una cosa di scarsa attendibilità e che probabilmente non è mai accaduta. Non è da escludere, infatti, che si sian viste statue sudare o versare lacrime o colare umori sanguigni: spesso infatti il legno e la pietra contraggono una muffa che produce umidità, si ricoprono di molti colori, e ricevono tinte dall'ambiente circostante, e nulla impedisce di considerare questi segni come divini. 2 È anche possibile che le statue, a causa di una frattura o di una crepa, emettano rumori simili a gemiti e lamenti, tanto più forti se la frattura è interna. Ma non è assolutamente possibile che da un oggetto inanimato possano provenire un discorso articolato e un linguaggio così chiaro, abbondante e distinto, dato che nemmeno l'anima dell'uomo o il dio, senza un corpo attrezzato e munito di parti vocali, ha mai parlato e conversato. 3 Perciò quando la storia ci impone numerosi e credibili testimoni, bisogna supporre che una sensazione diversa dalla percezione ma altrettanto convincente, si sviluppi nella parte immaginativa della mente, come nei sogni ci sembra di udire mentre non udiamo e di vedere mentre non vediamo. Tuttavia coloro che nutrono un forte sentimento di devozione e amore per il dio, e non possono pertanto né rifiutare né negare nulla di questo tipo, ripongono fede nella natura meravigliosa e sovrumana della potenza celeste. 4 Perché il dio non è in alcun modo simile all'uomo, né nella natura, né nel movimento, né nell'arte, né nella forza; e non è contrario alla ragione se fa qualcosa che noi non possiamo fare o fabbrica qualcosa che noi non possiamo fabbricare; ma visto che si distingue da noi in tutto, specialmente nel suo operato è molto diverso e lontano da noi. Ma la maggior parte delle cose divine, come dice Eraclito, «sfugge alla nostra conoscenza attraverso l'incredulità».
XXXIX 1 Per quanto riguarda Marcio, invece, come fece ritorno ad Anzio dalla spedizione, Tullo che da tempo lo odiava ed era oppresso dalla gelosia, tramò di eliminarlo subito, perché se gli sfuggiva adesso, non gli avrebbe offerto un'altra occasione. Mise insieme e preparò un folto gruppo contro di lui, gli ingiunse di rinunciare al comando e di rendere conto ai Volsci del suo operato. 2 Marcio, temendo di diventare un privato mentre Tullo era a capo dell'esercito e godeva di molto potere fra i suoi concittadini, disse che rimetteva il comando ai Volsci, se glielo ordinavano, dato che l'aveva assunto per generale designazione e che era pronto in ogni momento e non avrebbe rifiutato di presentare anche subito un dettagliato resoconto agli Anziati che lo desideravano. Venne convocata dunque l'assemblea, durante la quale i capi popolari scelti per questo si alzarono e aizzarono il popolo contro di lui. 3 Ma quando si alzò Marcio, gli elementi più agitati, per rispetto, si calmarono e gli diedero la possibilità di parlare tranquillamente, mentre gli Anziati più nobili e che più si rallegravano per la pace, resero evidente che lo avrebbero ascoltato con benevolenza e giudicato con giustizia. Tullo ebbe paura dell'autodifesa di Marcio. Perché era fra i più abili oratori, e le sue imprese precedenti gli avevano garantito una gratitudine che superava le sue successive colpe, inoltre proprio l'accusa contro di lui era testimone dell'entità della riconoscenza. 4 Non avrebbero infatti pensato di subire un'ingiustizia a non prendere Roma, se non ci fossero arrivati vicino grazie a Marcio. I congiurati dunque decisero di non indugiare e di non mettere alla prova la massa, ma i più arditi, gridando con rabbia che i Volsci non dovevano ascoltare il traditore né sopportare che mantenesse il comando e non deponesse la carica, gli si buttarono addosso in massa e lo uccisero, e nessuno dei presenti venne in suo aiuto. 5 Ma che il delitto non fosse stato compiuto con l'approvazione della maggioranza, lo dimostra il fatto che dalle città i Volsci subito corsero a radunarsi intorno al suo cadavere, e lo seppellirono con tutti gli onori, adornando la sua tomba con armi e spoglie come si addice a un uomo valoroso e a un generale. Quando i Romani seppero della sua morte, non diedero alcuna dimostrazione né di onore né di ira, ma esaudirono la richiesta delle donne di portare il lutto per dieci mesi, come era tradizione quando veniva a mancare il padre, o un figlio o un fratello. Questo infatti era il tempo stabilito per il lutto più lungo, sancito da Numa Pompilio, come è scritto nella sua Vita.
6 La perdita di Marcio ebbe ripercussioni politiche immediate sui Volsci. Infatti prima vennero a contrasto con gli Equi, loro alleati ed amici, per il comando supremo, arrivando fino al confronto armato e alla strage; poi furono sconfitti in battaglia dai Romani, Tullo fu ucciso nello scontro e proprio il fiore delle loro forze venne distrutto. Così si dovettero accontentare di termini di pace assolutamente vergognosi, diventando soggetti a Roma e accettando di obbedire ai suoi ordini. VITA DI ALCIBIADE
I 1 Pare che la famiglia di Alcibiade risalga come capostipite a Eurisace, il figlio di Aiace; da parte di madre, invece, egli era un Alcmeonide, in quanto nato da Dinomache, figlia di Megacle. Clinia, suo padre, si distinse combattendo all'Artemisio con una trireme allestita a proprie spese; in seguito, cadde sul campo combattendo contro i Beoti presso Coronea. Tutori di Alcibiade furono Pericle e Arifrone, figli di Santippo, e suoi parenti.
2 Si racconta, e non a torto, che, per la sua fama, Alcibiade trasse non poco profitto dalla simpatia e dall'affetto che Socrate mostrava nei suoi confronti. Il nome della madre di Nicia, di Demostene, di Lamaco, di Formione, di Trasibulo e di Teramene, tutti personaggi illustri contemporanei di Alcibiade, non ci è mai capitato di conoscerlo. Nel caso di Alcibiade, invece, ci sono noti persino il nome della nutrice, Amicla, una donna della Laconia, e di Zopiro, il precettore, attestati l'uno da Antistene, l'altro da Platone.
3 Parlare della bellezza di Alcibiade, poi, è forse superfluo; basterà dire che essa, fiorente in ogni fase della sua vita - infanzia, adolescenza, maturità -, gli conferì un aspetto fisico gradevole e amabile. Non sempre, come sosteneva Euripide, anche l'autunno della bellezza è bello; ma per Alcibiade - e con lui pochi altri - le cose andarono proprio così: tali erano la prestanza e l'eccezionalità del suo fisico. 4 Anche il suo difetto di pronuncia - dicono - si addiceva bene alla sua voce, aggiungeva anzi una grazia ricca di fascino al suo discorrere. Di questa particolarità fa menzione anche Aristofane quando canzona Teoro: «Così mi disse Alcibiade con la sua pronuncia blesa: "Lo scolgi Teolo? Ha la testa di un colvo". Aveva ragione, in quel caso, Alcibiade a usare la "l" invece della "r"!». E Archippo, prendendosi gioco del figlio di Alcibiade, diceva: «Cammina con movenze effeminate, strascina il mantello, per sembrare il più possibile simile a suo padre, e ha l'aria affettata, adopra la "l" per la "r"».
II 1 Quanto a carattere, si mostrò in seguito assai volubile e incostante, come è naturale quando si verificano avvenimenti importanti e variano i casi della vita. Ebbe molte e violente passioni, e la più accesa fu lo sfrenato desiderio di essere sempre il primo - com'è evidente dalle storie che si ricordano della sua giovinezza.
2 Una volta, nella lotta, semisoffocato dall'avversario, per non cadere, si tirò verso la bocca le braccia del rivale, e gli azzannò le mani. L'avversario, mollata la presa, protestò: «Alcibiade, tu mordi come le donne!». «No», fu la risposta, «come i leoni!». Quando era ancora piccolo, un giorno stava giocando con gli astragali in una via piuttosto stretta; toccava a lui lanciarli, quando sopraggiunse un carro carico di merce. 3 Per prima cosa, Alcibiade ordinò al conducente del veicolo di fermarsi, perché i dadi dovevano cadere proprio dove transitava il carro. Ma quel rozzo individuo non gli badò e proseguì per la sua strada. Gli altri ragazzi, allora, cedettero il passo; Alcibiade, invece, si gettò rapido davanti ai cavalli, si stese bocconi e invitò il carrettiere a passare, se era ciò che voleva. Quello, terrorizzato, fermò subito il veicolo, mentre gli astanti, sconvolti, si precipitarono gridando a soccorrere il fanciullo.
4 Quando iniziò ad andare a scuola, fu buon allievo di tutti i suoi maestri, ma si rifiutò assolutamente di studiare il flauto, una cosa ignobile e indegna di un uomo libero. L'uso del plettro, diceva, e della lira non offende il contegno e la dignità di un uomo libero, mentre quando uno soffia nelle canne con la bocca, persino i parenti stretti stentano a riconoscerne il volto. 5 La lira, inoltre, accompagna il canto e la voce di chi la suona, il flauto, invece, serra, sbarra la bocca, impedisce a chiunque di usare voce e parole. «Che lo suonino i ragazzi tebani, il flauto!», diceva Alcibiade. «Loro non sanno conversare. Noi Ateniesi, invece - e lo tramandano i nostri padri -, abbiamo Atena come fondatrice della stirpe e Apollo come protettore della patria: lei gettò via il flauto, lui addirittura scuoiò chi lo suonava». 6 E così, un po' scherzando e un po' parlando sul serio, Alcibiade liberò sé e i compagni dall'obbligo di imparare il flauto. Presto, infatti, si sparse la voce tra i ragazzi che Alcibiade, giustamente, detestava l'arte di suonarlo e derideva chi vi si applicasse. Ne conseguì che lo strumento scomparve completamente dalle arti liberali e divenne oggetto di totale discredito.
III 1 Nel libello diffamatorio di Antifonte contro Alcibiade, c'è anche scritto che ancora ragazzo scappò di casa per andare a vivere con Democrate, uno dei suoi amanti; Arifrone intendeva darne pubblica notizia. Ma Pericle glielo impedì, asserendo che se era morto, il proclama lo avrebbe fatto sapere solo un giorno prima, se, invece, era vivo sarebbe stato come defunto per il resto dell'esistenza. Antifonte aggiunge, inoltre, che Alcibiade avrebbe ucciso uno dei suoi nella palestra di Sibirtio, colpendolo con una mazza di legno. Non è, comunque, corretto prestare eccessiva fiducia a notizie fornite da uno che aveva espressamente dichiarato di voler danneggiare Alcibiade perché lo odiava.
IV 1 Ormai erano in molti - e tutti di alti natali - a raccogliersi intorno ad Alcibiade e a trattarlo con rispetto; ma, mentre era evidente che gli altri restavano colpiti dallo splendore della sua giovinezza e per questo lo corteggiavano, l'amore di Socrate per lui era una prova evidente dell'inclinazione naturale del giovane alla virtù. Socrate, notando che questa dote traspariva e lampeggiava nel suo aspetto, ebbe paura della ricchezza, del rango e della folla di cittadini, stranieri e alleati in gara per lusingare e favorire Alcibiade. Si mise allora a proteggerlo, non tollerò che una pianta in fiore perdesse o lasciasse avvizzire il proprio frutto. 2 La sorte, in realtà, non cinse e circondò mai nessun uomo dei cosiddetti beni al punto da renderlo insensibile alla filosofia e inaccessibile ai discorsi che hanno franchezza e mordente. Così Alcibiade, viziato sin da piccolo, dissuaso da chi gli stava intorno e voleva solo compiacerlo dal prestare orecchio a chi, invece, voleva consigliarlo e educarlo, un bel giorno, grazie alla sua indole sana, scoprì Socrate e gli si accostò, allontanandosi dai suoi ricchi e illustri amanti. 3 In poco tempo ne divenne assiduo frequentatore; e, dando retta alle parole di quell'amante, che non cercava piaceri effeminati né domandava baci e carezze, ma gli comprovava il marcio del suo animo e ne reprimeva la vuota e sciocca vanità, «come un gallo sconfitto abbassò le ali». Egli considerò l'opera di Socrate realmente un aiuto da parte degli dèi, interessati alla cura e alla salvaguardia dei giovani. 4 Cominciò, così, a disprezzare se stesso e ad ammirare Socrate, ad amarne la filosofia e ad avere rispetto per la sua virtù: senza neanche accorgersene, fece propria, come dice Platone, «un'immagine dell'amore che è risposta ad altro amore». Tutti si meravigliavano a vederlo dividere i pasti con Socrate, a esercitarsi con lui nella lotta e ad accoglierlo nella sua tenda; con gli altri spasimanti, invece, era duro e per nulla conciliante, alcuni, poi, li trattava con altezzosità, come fece con Anito, figlio di Antemione.
5 Costui, innamorato di Alcibiade, una volta offrì un banchetto ad alcuni ospiti, e pregò anche Alcibiade di intervenire. Egli declinò l'invito, ma si presentò da Anito tra canti e schiamazzi, dopo essersi ubriacato in casa propria con alcuni amici. Sostando sulle porte del salone del convito, vide le tavole cariche di coppe d'oro e d'argento; ordinò, allora, ai servi di raccoglierne la metà e di portarle a casa sua, e però non volle entrare, dopo aver compiuto questa bravata, e se ne ripartì. Si indignarono gli ospiti e dissero che Alcibiade si era comportato con Anito da villano e da insolente. «Al contrario», controbatté Anito, «ha dimostrato gentilezza e umanità: poteva portarsi via tutto, e invece me ne ha lasciato metà».
V 1 In questa maniera, dunque, trattò anche gli altri suoi ammiratori, tranne uno che, dicono, era meteco: costui non disponeva di molti mezzi; e però vendette tutto e portò il ricavato, circa cento stateri, ad Alcibiade, pregandolo di accettarlo. E Alcibiade, dopo essersi fatto una bella risata, compiaciuto lo invitò a pranzo. Concluso il banchetto - i due erano ormai amici -, gli restituì l'oro e gli impose di presentarsi il giorno seguente all'asta per l'appalto delle tasse e di alzare il prezzo dell'offerta rispetto a quello degli altri concorrenti. 2 L'uomo rifiutò perché la gara richiedeva molti e molti talenti; Alcibiade, che aveva dei motivi di risentimento contro gli appaltatori delle tasse, minacciò di farlo frustare se non avesse obbedito. E così, di buon mattino, il meteco si recò in piazza e, nel corso dell'asta pubblica, rilanciò di un talento. Gli esattori, allora, compatti e indignati, gli imposero di fare il nome di un garante, convinti che non lo avrebbe trovato. L'uomo, in preda al panico, era ormai deciso a ritirarsi, quando Alcibiade, alzatosi in piedi, gridò agli arconti da lontano: «Scrivete pure il mio nome, è un mio amico, garantisco io per lui». 3 A sentire queste parole tutti gli appaltatori restarono di stucco: abituati, infatti, a saldare sempre i debiti precedenti con i profitti degli appalti ottenuti dopo, non trovavano via d'uscita in una situazione del genere. Pregarono, così, quell'uomo di rinunciare all'affare, promettendogli del denaro; ma Alcibiade non gli permise di accettare meno di un talento. Quando gli appaltatori glielo offrirono, Alcibiade invitò il meteco a incassarlo e a andarsene. Ecco il beneficio che Alcibiade rese a quell'uomo.
VI 1 L'amore di Socrate, che pure doveva competere con molti potenti rivali, aveva talvolta la meglio su Alcibiade: le parole del filosofo avevano presa su di lui per la sua buona indole, ne toccavano il cuore, portandolo addirittura alle lacrime. Ma a volte, cedeva ai suoi adulatori, che lo adescavano con mille piaceri; allora, si allontanava da Socrate e bisognava dargli la caccia proprio come a uno schiavo fuggitivo, anche se poi Alcibiade rispettava e temeva solo Socrate, mentre per gli altri nutriva disprezzo.
2 Cleante era solito dire che Socrate prendeva l'amato per l'orecchio, e lasciando ai suoi rivali numerose altre «prese» da lui trascurate (e intendeva ventre, sesso e gola). Alcibiade, in effetti, era particolarmente incline al piacere: ci induce a sospettarlo anche la sregolatezza, di cui parla Tucidide, del suo tenore di vita. 3 Quelli che lo corrompevano, facendo leva soprattutto sulla sua ambizione e sul desiderio di fama, lo spingevano anzitempo a realizzare grandi progetti: lo persuadevano che appena fosse entrato nella vita pubblica avrebbe non solo messo in ombra gli altri strateghi e capi del popolo, ma avrebbe addirittura superato il potere di Pericle e la reputazione di cui godeva presso i Greci. 4 Come il ferro, ammollito dal fuoco, si solidifica di nuovo a contatto con il freddo e si ricompatta nelle sue particelle, così Socrate, tutte le volte che lo sorprendeva gonfio di lussuria e vanità, piegandolo e serrandolo con la parola, lo rendeva modesto e docile: e gli faceva capire di quante cose mancasse per raggiungere la virtù.
VII 1 Una volta uscito di fanciullezza, Alcibiade si recò da un maestro di scuola e gli chiese un libro di Omero. Il maestro rispose che di Omero non aveva nulla; il giovane, allora, gli tirò un pugno e se ne andò. Un altro maestro gli disse di possedere un testo di Omero da lui stesso corretto. «Come», disse Alcibiade, «sei in grado di correggere Omero e insegni a leggere ai bambini? Perché non educhi, invece, i giovani?».
2 Un'altra volta, volendo incontrarsi con Pericle, passò da casa sua. Gli fu detto che lo statista non aveva tempo per riceverlo: stava studiando come presentare agli Ateniesi il bilancio economico della sua magistratura. Alcibiade, nell'atto di venirsene via, domandò: «E non sarebbe meglio, invece, che studiasse come non presentarlo?». Ancora giovinetto, prese parte alla spedizione militare contro Potidea, condivise con Socrate la tenda e se lo trovò al fianco come compagno d'armi. 3 Ci fu uno scontro particolarmente duro e entrambi si distinsero per il valore. Allorché Alcibiade cadde a terra ferito, Socrate gli si piazzò davanti, lo protesse e lo mise in salvo insieme alle armi, sotto gli occhi di tutti. A voler essere giusti, la ricompensa al valore sarebbe spettata a Socrate, ma i comandanti, condizionati dal suo rango sociale, sembravano voler attribuire ad Alcibiade ogni merito. E Socrate, che intendeva accrescere nel giovane l'ambizione per le azioni belle, fu il primo a testimoniare in suo favore e a chiedere che gli fossero assegnate una corona e un'armatura completa.
4 In seguito, nella battaglia di Delio, quando gli Ateniesi erano in rotta, Alcibiade, che possedeva un cavallo, vide Socrate che si ritirava a piedi insieme a pochi compagni. Non lo oltrepassò: anzi, gli fece da scorta e lo difese da qualunque attacco, mentre i nemici incalzavano e facevano strage. Ma questo episodio accadde tempo dopo.
VIII 1 A Ipponico, padre di Callia, che godeva di grande considerazione e potere per via del patrimonio e della nobiltà di stirpe, Alcibiade, un giorno, assestò un pugno. E non perché spinto dall'ira o perché fosse scoppiato un litigio, ma per ridere, per una scommessa con i compagni. La notizia di questo gesto insolente fece il giro di tutta la città, suscitando, come è ovvio, lo sdegno generale; la mattina seguente, all'alba, Alcibiade si presentò a casa di Ipponico, bussò alla porta ed entrò da lui. Si tolse il mantello e offrì la schiena invitando l'offeso a punirlo a frustate. 2 Ma Ipponico lo perdonò e depose l'ira; anzi, qualche tempo dopo gli diede in moglie la figlia Ipparete. Secondo altri non fu Ipponico, bensì Callia, suo figlio, a concedere ad Alcibiade la mano di Ipparete insieme alla somma di dieci talenti; quando, poi, la donna diede alla luce un bambino, Alcibiade ne pretese altri dieci, affermando che questi erano i patti se fossero nati dei figli. Callia, allora, temendo trame di Alcibiade, si recò all'assemblea del popolo e disse che destinava in dono allo Stato tutti i suoi beni e la casa, qualora gli fosse capitato di morire senza eredi.
3 Ipparete, moglie obbediente e affezionata, soffriva di questo suo matrimonio, perché il marito passava il suo tempo con etere, straniere e cittadine: alla fine abbandonò il tetto coniugale e andò a vivere da suo fratello. Alcibiade non se ne dette pensiero e continuò a divertirsi: così Ipparete fu costretta ad avanzare all'arconte la richiesta di divorzio, e non tramite terzi, ma personalmente. 4 Mentre si stava recando dal magistrato come prescriveva la legge, Alcibiade le piombò addosso, la afferrò per un braccio e la trascinò per la piazza, dirigendosi verso casa: nessuno osò opporsi o strappargliela di mano. E così la donna continuò a vivere con lui sino alla morte, che sopraggiunse poco tempo dopo, mentre Alcibiade navigava verso Efeso.
5 Questo atto di violenza non fu per nulla giudicato illegale o disumano: la legge, infatti, a quanto sembra, stabiliva che a presentarsi in tribunale fosse la donna che voleva il divorzio, proprio per offrire al marito la possibilità di incontrarla e recuperarla.
IX 1 Alcibiade possedeva un cane incredibilmente grande e bello, che aveva pagato settanta mine; un giorno, tuttavia, gli tagliò la coda, una coda splendida. I familiari, allora, lo rimbrottarono, dicendo che tutti adesso, morsi dalla sorte del cane, ne ingiuriavano il padrone: «Succede proprio quello che volevo!», rispose Alcibiade ridendo. «Io volevo che gli Ateniesi cianciassero di questo e così non dicessero nulla di peggio sul mio conto».
X 1 Il suo primo ingresso nella vita politica, raccontano, avvenne per una elargizione di denaro priva di calcoli. Un giorno passava in mezzo a un gruppo di Ateniesi che vociavano e chiese il motivo del baccano. Saputo che si trattava di una elargizione pubblica in favore dello Stato, si fece avanti e diede la sua parte. La gente lo applaudì e levò grida di gioia e Alcibiade si dimenticò completamente della quaglia che teneva sotto il mantello. L'animale, spaventato, volò via e ciò contribuì a aumentare il vocìo degli Ateniesi: molti, anzi, si lanciarono all'inseguimento della quaglia, ma fu Antioco, il timoniere, a catturarla e a restituirgliela. Per questo motivo divenne carissimo a Alcibiade.
2 La stirpe, le ricchezze, il valore militare, nonché un bel numero di amici e parenti, spalancarono le porte alla carriera politica di Alcibiade. Ma egli ritenne che nulla gli avrebbe dato potere sulla folla più dell'eleganza nel discorrere. D'altra parte, che fosse dotato di una grande eloquenza lo testimoniano non solo i poeti comici, ma anche il principe degli oratori; Demostene, nel suo discorso contro Midia, attesta che tra le tante sue altre qualità Alcibiade possedeva spiccata anche quella di saper parlare in pubblico. 3 Se dobbiamo prestar fede a Teofrasto, tra i filosofi il più appassionato a raccogliere notizie e il più rigoroso, Alcibiade, meglio di chiunque altro, era abile nello scoprire e capire ciò che fosse opportuno. Cercava non solo gli argomenti in quel momento necessari, ma anche i vocaboli e le espressioni adatti a esprimerli. E così, quando non trovava il termine esatto, spesso attraversava un momento di crisi: allora ammutoliva nel bel mezzo del discorso; soprassedeva, perché gli era sfuggita l'espressione giusta. Poi riprendeva il discorso, con cautela.
XI 1 I suoi allevamenti di cavalli divennero famosi, anche perché possedeva un ingente numero di carri. Nessun altro mai, né privato cittadino né re, fece gareggiare alle Olimpiadi ben sette equipaggi: lui solo ne fu in grado. L'aver riportato la vittoria - conquistando il primo e il secondo posto, e anche il quarto, in base alla testimonianza di Tucidide, o il terzo, stando a Euripide - supera, poi, per gloria e splendore ogni aspettativa di chi nutre alte ambizioni in questo campo. 2 Così scrive Euripide nella sua ode: «Canterò te, figlio di Clinia. È bello vincere, ma è bellissimo - e nessuno dei Greci ci è riuscito mai - ottenere il trionfo, e il secondo, il terzo premio, e presentarsi, senz'ombra di stanchezza, coronato con l'ulivo di Zeus all'araldo perché proclami a grande voce il tuo nome».
XII 1 Questo splendido trionfo lo resero ancora più clamoroso gli onori che le città, in gara, tributarono ad Alcibiade. Gli Efesii gli allestirono una tenda addobbata stupendamente, la città di Chio gli offrì foraggio per i cavalli e molto bestiame per sacrifici, i Lesbii vino e le provviste per invitare a un lussuoso banchetto molti invitati. Eppure destò più rumore una calunnia o una disonestà connessa con quell'ambiziosa gara.
2 Raccontano, infatti, che ad Atene vivesse Diomede, una persona per bene, amico di Alcibiade. Gli sarebbe piaciuto molto vincere a Olimpia. Così, quando seppe che ad Argo vi era un carro da corsa di proprietà dello Stato, essendo al corrente che Alcibiade in quella città contava molto e aveva numerosi amici, gli chiese di acquistare il cocchio per lui. 3 Alcibiade lo comprò, registrandolo però a proprio nome e senza preoccuparsi affatto di Diomede, il quale prese la cosa molto male e ne chiamò a testimoni sia gli dèi sia gli uomini. Sembra che la vicenda finisse in tribunale: Isocrate scrisse un discorso per il figlio di Alcibiade Sulla quadriga (il nome dell'accusatore è, però, quello di un certo Tisia, non di Diomede).
XIII 1 Una volta entrato, ancor giovane, nella vita politica, Alcibiade mise subito in ombra tutti gli altri capi del popolo. E venne in conflitto con Feace, figlio di Erasistrato, e con Nicia, figlio di Nicerato. Il primo, più avanzato d'età, godeva della fama di ottimo generale, Feace aveva iniziato allora la sua ascesa proprio come Alcibiade, e apparteneva a un casato illustre, ma era inferiore al suo avversario e in altri campi e in particolare nell'arte oratoria. 2 Conversando in privato, infatti, risultava cordiale e persuasivo, era deludente, invece, nell'affrontare pubblici dibattiti. Come dice Eupoli, egli era «bravissimo nel cianciare, inettissimo nel parlare». Di Feace resta un'orazione contro Alcibiade: in essa, tra l'altro, è scritto che Alcibiade tutti i giorni, nella vita domestica, utilizzava, come se fossero sue, molte suppellettili sacre d'oro e d'argento appartenenti alla città.
3 In Atene abitava un certo Iperbolo, del demo di Peritede, il quale, ricordato anche da Tucidide come una persona poco per bene, in teatro indistintamente e costantemente a tutti i poeti comici offrì motivi di scherno. Iperbolo accettava senza batter ciglio che parlassero male di lui, era indifferente alla cattiva reputazione di cui godeva - tanta impudenza e follia c'è chi la definisce autentico coraggio -, e non piaceva a nessuno. Spesso il popolo si serviva di lui quando voleva gettar fango con la calunnia su personalità di rilievo. 4 Spinti, dunque, da Iperbolo, gli Ateniesi si accingevano, allora, a decretare un ostracismo: dell'ostracismo essi si servivano regolarmente per esiliare chi tra i cittadini primeggiasse per fama e potere. Era un modo di soddisfare l'invidia, più che di porre freno alla paura. Quando fu chiaro che il decreto avrebbe colpito uno dei tre contendenti, Alcibiade appianò le divergenze tra la sua fazione e quella di Nicia, con il quale ebbe un colloquio, e dirottò la condanna contro Iperbolo. Altri sostengono, invece, che Alcibiade non si sarebbe schierato con Nicia, bensì con Feace, alle cui forze politiche avrebbe unito le proprie, in modo da far esiliare Iperbolo, che non se lo aspettava davvero. 5 Un simile tipo di punizione, infatti, non si abbatteva mai contro cittadini di basso rango e screditati; lo ha detto anche, se non erro, Platone il comico, ricordando appunto il caso di Iperbolo: «Ebbe una sorte degna di antichi personaggi, ma disadatta a lui ed ai suoi. L'ostracismo non fu certo pensato per simili individui». Ma di questa vicenda ho già discusso altrove, con maggiori particolari.
XIV 1 Alcibiade pativa molto sia perché Nicia era ammirato dai suoi nemici, sia perché veniva stimato dai suoi concittadini. Alcibiade era «console» di Sparta, si era preso cura dei soldati spartani catturati a Pilo; 2 ma la conclusione della pace e la restituzione dei prigionieri furono opera di Nicia e così gli Spartani ebbero per lui un attaccamento superiore. Tra i Greci addirittura si diceva: Pericle ha scatenato la guerra, Nicia vi ha messo fine; e i più chiamavano quella «la pace di Nicia». Alcibiade, irritato fuor di misura e geloso, cercava il modo di rompere l'accordo. 3 Come prima cosa, saputo che gli Argivi, per odio e paura, cercavano di svincolarsi da Sparta, di nascosto alimentò in loro la speranza di un accordo con la città di Atene, e li incoraggiò per lettera e trattando in prima persona con i capi del popolo. Ad essi suggeriva di non temere gli Spartani, di non cedere, ma di schierarsi piuttosto dalla parte degli Ateniesi e di attendere, perché si erano già pentiti e volevano liquidare la pace.
4 In secondo luogo, quando gli Spartani si allearono con i Beoti e resero agli Ateniesi Panatto non intatta, come avrebbero dovuto, ma rasa al suolo, Alcibiade approfittò della rabbia dei suoi concittadini, li esasperò ulteriormente, suscitò tumulti contro Nicia, gli mosse accuse calunniose ma verosimili. 5 Ricordava che Nicia, nelle sue vesti di generale, si era rifiutato di catturare i nemici bloccati nell'isola di Sfacteria: aveva rilasciato e restituito agli Spartani, per ingraziarseli, soldati che altri avevano fatto prigionieri. E poi, da amico qual era degli Spartani, li aveva dissuasi dal far lega con i Beoti e con i Corinzi, mentre impediva ai Greci che lo volevano di essere amici e alleati degli Ateniesi, se gli Spartani erano di avviso contrario.
6 Mentre Nicia si trovava ridotto a mal partito in seguito alle mene di Alcibiade, per un caso fortunato giunsero da Sparta degli ambasciatori con proposte immediate favorevoli e con i pieni poteri - così dichiaravano - per qualsiasi accordo conciliante e giusto. La Bulé li accolse con favore: per l'indomani era fissata l'assemblea popolare. Alcibiade, che ne temeva le conseguenze, riuscì a fissare un colloquio privato con gli ambasciatori. 7 Quando si incontrarono, egli esordì così: «Cosa vi succede, Spartiati? Non vi siete accorti che la Bulé si mostra sempre equilibrata e cortese con chi tratta con lei, mentre il popolo è orgoglioso e nutre grandi aspirazioni? Se dite di essere giunti qui con pieni poteri, subirete ingiustizia, poiché il popolo si imporrà con la forza. Non siate tanto ingenui! Se volete trovare gli Ateniesi ragionevoli, e non essere costretti a scelte contrarie a quanto pensate, discutete una soluzione equa, ma come se non spettasse a voi l'ultima decisione. Insieme, faremo una cosa grata agli Spartani». 8 Accompagnò il suo discorsetto con un giuramento, e staccò così gli ambasciatori da Nicia. Essi riposero in Alcibiade la più totale fiducia e insieme erano stupiti della sua acutezza e intelligenza, decisamente fuori dal comune. Il giorno seguente, il popolo si riunì in assemblea e vennero introdotti gli ambasciatori. Alcibiade, con tono gentile, chiese loro con quali poteri fossero giunti in Atene; essi risposero che l'autorità di cui godevano era limitata. 9 Egli, allora, subito li ricoprì di insulti e di grida, come se il torto fosse lui a subirlo (e non a farlo): li definì sleali e volubili, dichiarò che erano venuti col proposito di non fare né dire una sola cosa onesta. La Bulé reagì con sdegno, il popolo si infuriò e Nicia, che ignorava l'inganno e il raggiro, rimase sbalordito e abbattuto per l'improvviso voltafaccia.
XV 1 Dopo il fallimento della missione spartana, Alcibiade fu eletto stratego e subito alleò al popolo ateniese gli Argivi, i Mantinei e gli abitanti di Elea. Questo tipo di azione politica non piacque a nessuno, ma Alcibiade aveva fatto una mossa importante: essa divise e turbò quasi l'intero Peloponneso. A Mantinea, in un solo giorno, egli schierò contro gli Spartani un esercito di vastissime proporzioni, allontanando così il più possibile da Atene il conflitto e tutti i suoi pericoli: la vittoria, che fu degli Spartani, non garantì loro alcun grosso vantaggio, mentre se fossero stati sconfitti, era in gioco la sopravvivenza stessa di Sparta.
2 Ad Argo, subito dopo la battaglia, i cosiddetti Mille tentarono di sopraffare i popolari e di assoggettare la città: i Lacedemoni intervennero e rovesciarono il governo democratico. Quando poi, qualche tempo dopo, le forze popolari impugnarono le armi ed ebbero la meglio, Alcibiade sopravvenne e consolidò la vittoria. Riuscì anche a convincerli a estendere le Lunghe Mura e unendo la città al mare, a collegarla a pieno con le forze navali ateniesi. 3 Fece venire da Atene fabbri e scalpellini, e si impegnò in ogni modo per Argo acquistando gratitudine e potere sia per se stesso che per la sua città. In modo analogo persuase anche gli abitanti di Patrasso a collegare il loro centro al mare tramite le Lunghe Mura. «Gli Ateniesi vi inghiottiranno», disse qualcuno alla gente di Patrasso. «Forse», ribatté Alcibiade, «ma poco alla volta e cominciando dai piedi, gli Spartani cominciando dalla testa e in un solo boccone».
4 Comunque, il suo consiglio agli Ateniesi fu di assicurarsi anche domini in terraferma e di rispettare in pratica il giuramento prestato, come di consueto, dagli efebi nel santuario di Agraulo: promettono, infatti, di considerare confini dell'Attica grano, orzo, viti, fichi e ulivi; così gli si insegna a ritenere come ateniese ogni terreno coltivato e fruttifero.
XVI 1 Ma questa sua condotta politica, capacità oratoria, notevole abilità e intelligenza era accompagnata da una vita alquanto dissoluta. Alcibiade era smodato nel bere e negli amori, si abbigliava con effeminatezza (camminando per l'agorà, strascicava la veste rosso porpora), sfoggiava un lusso arrogante. Sulle sue triremi, per dormire più comodamente, aveva fatto tagliare parte del ponte e il suo letto non posava sul pavimento ma era appeso con cinghie. Il suo scudo, tramato d'oro, non aveva impresso lo stemma di famiglia, 2 bensì Eros con in mano il fulmine. Di fronte a tali eccessi, la gente rispettabile era sdegnata e disgustata, ma soprattutto paventava l'insolenza e la prevaricazione di Alcibiade di fronte alle leggi. Ai loro occhi era un comportamento mostruoso e da tiranno. Interpretando non male i sentimenti del popolo verso Alcibiade, Aristofane scrisse: «Lo ama, lo detesta, e vuole averlo»; ed è ancora più pungente quando si serve di un linguaggio figurato: «Non si deve assolutamente nutrire in città un leone; ma se lo fai, bisogna adattarsi alle sue abitudini».
3 Le donazioni, le coregie, le elargizioni alla città, fatte con munificenza straordinaria, la fama degli antenati, il potere dell'eloquenza, la bellezza e la robustezza del fisico, a cui si aggiungevano esperienza e gagliardia in guerra, rendevano gli Ateniesi accomodanti e indulgenti di fronte al resto. Alle sue colpe davano sempre i nomi più benevoli, definendole puerilità, desiderio di distinguersi.
4 Una volta, ad esempio, chiuse in casa sua il pittore Agatarco e lo rilasciò, con un bel donativo, solo dopo che l'aveva affrescata. In un'altra occasione, poi, bastonò Taurea, suo concorrente in una coregia, perché voleva vincere a tutti i costi; ancora, si portò via una donna tra le prigioniere di Melo, convisse con lei e allevò il figlio nato da loro due. 5 Un gesto, questo, considerato di grande umanità, anche se proprio Alcibiade fu il maggior responsabile per il massacro di tutti i Melii nel fiore dell'età: si era, infatti, pronunziato per il decreto di sterminio. Quando, poi, Aristofonte raffigurò Nemea con Alcibiade disteso tra le sue braccia, la gente accorse per vedere il dipinto e unanime fu il consenso. Ma gli anziani si indignarono anche di una cosa del genere: secondo loro tradiva un'indole nemica delle leggi e tirannica. Non sembrava nemmeno fuori luogo il giudizio espresso da Archestrato, che, cioè, la Grecia non avrebbe potuto sopportare due Alcibiadi.
6 Timone il misantropo un giorno incontrò Alcibiade che, con aria soddisfatta, se ne tornava, accompagnato da un codazzo di persone, dall'assemblea dove aveva ottenuto un vero trionfo. Timone non tirò diritto, né lo scansò, come faceva di solito con gli altri: al contrario, gli andò incontro, lo salutò e gli disse: «Fai bene, ragazzo, a crescere così! Accrescerai pesantemente i guai di tutti questi individui». Ci fu chi rise, chi insultò Timone e chi prestò molta attenzione alla battuta. Di Alcibiade, infatti, non si aveva un'opinione ben precisa: era troppo incoerente di carattere.
XVII 1 Già vivo Pericle, gli Ateniesi ambivano alla Sicilia, ma solo alla sua morte posero mano all'impresa. Ogni volta che qualche città subiva un torto da parte dei Siracusani, inviavano i cosiddetti aiuti e concludevano alleanze, creando così i presupposti per una vera e propria spedizione militare. 2 Chi accendeva con ogni mezzo questo loro desiderio e li esortava a non agire per gradi, un passo dopo l'altro, ma a mettere in mare una potente flotta con cui attaccare e saccheggiare l'isola, era proprio Alcibiade. Egli incoraggiò il popolo a nutrire grandi speranze, ma in realtà era lui ad avere ancora più alte aspirazioni. Nei suoi pensieri, la Sicilia rappresentava il punto di partenza per le sue mire, e non lo scopo ultimo della spedizione, come credevano gli altri. 3 Conscio di quanto fosse difficile la conquista di Siracusa, Nicia tentò di dissuadere il popolo dal progetto; Alcibiade, intanto, inseguiva il sogno di far sue anche Cartagine e la Libia per poi mettere le mani, conclusa l'impresa, sull'Italia e il Peloponneso - e quasi quasi considerava la Sicilia la via e il mezzo per una vera e propria guerra -. I giovani si lasciarono subito esaltare dalle speranze, ascoltavano dai vecchi cose mirabili sulla spedizione in corso, al punto che erano in molti, seduti nelle palestre e negli anfiteatri, a tracciare sul terreno la forma dell'isola e la posizione della Libia e di Cartagine.
4 Ma sia il filosofo Socrate sia Metone l'astrologo - si dice - non si attendevano per la città vantaggi da quell'impresa di guerra. A Socrate, almeno sembra, lo avrebbe preannunziato il demone che gli era abituale compagno; Metone, invece, timoroso del futuro o sulla base di un calcolo astrale o in virtù di una sua tecnica divinatoria, decise di fingersi pazzo, impugnò una fiaccola accesa e appiccò fuoco alla propria casa. 5 Alcuni, invece, sostengono che Metone non finse per nulla la follia, ma che effettivamente incendiò di notte la sua abitazione. Il mattino dopo si recò di buon'ora dai magistrati, e chiese come risarcimento per un danno di tali proporzioni che suo figlio venisse esentato dal prendere parte alla spedizione. E così Metone, ingannando i suoi concittadini, riuscì a ottenere ciò che voleva.
XVIII 1 Nel frattempo, contro la sua volontà, fu eletto stratego Nicia, che rifuggiva dal comando soprattutto perché doveva condividerlo con Alcibiade. Gli Ateniesi, difatti, ritenevano utile per le sorti della guerra non lasciare Alcibiade padrone assoluto della situazione, ma associare alla sua audacia la prudenza di Nicia. Perché anche Lamaco, il terzo stratego, pur essendo più anziano, non sembrava meno focoso o temerario di Alcibiade sul campo di battaglia. 2 Quando ci si consultò per decidere il numero dei soldati e le modalità dei preparativi, di nuovo Nicia tentò di opporsi e di fermare la guerra. Alcibiade controbatté i suoi argomenti e ebbe la meglio: e l'oratore Demostrato propose una legge e sostenne che era necessario conferire agli strateghi pieni poteri sia per l'allestimento della spedizione sia per la condotta dell'intera guerra. Il popolo approvò il decreto e tutto era stato ormai preparato per la partenza. Ma si ebbero segni infausti, specialmente durante le sacre cerimonie che si stavano celebrando. 3 In quei giorni ricorrevano le Adonie. Le donne avevano esposto in molti luoghi simulacri di morti e, battendosi il petto, mimavano le esequie e intonavano lamenti funebri. A ciò si aggiunse la mutilazione delle Erme: in una sola notte quasi tutte le statue vennero decapitate e sfregiate: un accadimento che turbò molti anche fra coloro che di solito non danno peso a episodi del genere. Furono indicati come responsabili i Corinzi - Siracusa era una loro colonia -: un evento così malaugurato avrebbe potuto arrestare la guerra o indurre a un ripensamento. 4 Questa voce, tuttavia, non persuase la massa. E neanche l'ipotesi di chi non credeva a segnali nefasti, ma riteneva la mutilazione delle Erme opera di giovani intemperanti che nei fumi del vino, come capita, avevano trasformato uno scherzo in folle violenza. L'accaduto destò sdegno e timore nella Bulé e nel popolo. Convinti che si trattasse di un'audace cospirazione in vista di un ribaltamento politico, indagarono con scrupolo su ogni minimo indizio: per questo la Bulé era costantemente in riunione, e anche il popolo si radunò più volte in pochi giorni. |[continua]|
|[VITA DI ALCIBIADE, 2]|
XIX 1 Nel frattempo, il demagogo Androcle fece testimoniare alcuni schiavi e meteci, che accusarono Alcibiade e i suoi amici di avere deturpato anche altre sacre statue e di avere parodiato, in stato di ebbrezza, i riti misterici. Precisavano, inoltre, che un certo Teodoro avrebbe rivestito il ruolo dell'araldo, Pulizione quello del portatore di fiaccole, Alcibiade avrebbe impersonato il ierofante, mentre gli altri compagni presenti partecipavano al rito in veste di «iniziati». 2 Questi particolari sono contenuti nella denuncia scritta da Tessalo, figlio di Cimone: egli dichiarò che Alcibiade si era macchiato di empietà nei confronti di Demetra e di Kore. Il popolo era esasperato e amaramente irritato contro Alcibiade e Androcle, uno dei peggiori nemici di Alcibiade, ne fomentava le ire. In un primo momento, Alcibiade rimase sconvolto. 3 Ma poi si rese conto che i marinai, pronti a salpare per la Sicilia, e l'esercito erano dalla sua parte, gli venne all'orecchio che i mille opliti di Argo e Mantinea dichiaravano apertamente di essere disposti per Alcibiade a combattere oltremare e per lungo tempo e altrettanto disposti a ritirarsi subito, se lo si fosse trattato ingiustamente. Si rincuorò e chiese che gli si desse l'opportunità di difendersi dalle accuse. Toccò ora ai suoi avversari perdersi d'animo: temevano che il popolo, avendo bisogno di lui, si dimostrasse troppo clemente nel giudicarlo.
4 Per evitare questo rischio, ricorsero a un espediente: presentarono in tribunale oratori che non erano noti come avversari di Alcibiade, ma che in realtà lo odiavano non meno dei suoi nemici dichiarati. Questi oratori si alzarono a parlare in assemblea, e dissero come fosse assurdo privare della sua grande occasione uno stratego con pieni poteri, messo a capo di una potente armata, quando si erano già riunite le sue truppe e gli alleati, solo per estrarre a sorte i giudici e misurare l'acqua nelle clessidre. «Parta, dunque, subito, e che la fortuna lo accompagni! Una volta conclusa la guerra, venga pure in tribunale a rispondere delle accuse. Le leggi saranno sempre le stesse». 5 La malizia del rinvio non sfuggì ad Alcibiade. Si presentò in assemblea e disse che era tremendo venir inviato lontano, a capo di un tale spiegamento di forze, lasciandosi però dietro in sospeso accuse calunniose. Conveniva che lo mandassero a morte, se non era in grado di confutarle. E se invece fosse riuscito a confutarle e a provare la propria innocenza, avrebbe potuto volgersi contro i nemici senza più temere i sicofanti.
XX 1 Il popolo, tuttavia, non si convinse e lo obbligò a partire. Alcibiade e i suoi colleghi salparono con poco meno di centoquaranta triremi, cinquemilacento opliti, circa milletrecento tra arcieri, frombolieri, armati alla leggera e un allestimento bellico altrettanto notevole. 2 Sbarcato in Italia e conquistata Reggio, propose un piano sulla conduzione della guerra; Nicia si oppose a tale piano, ma Lamaco lo approvò; Alcibiade allora partì per la Sicilia e alleò a sé Catania. Non poté, tuttavia, fare altro, perché gli Ateniesi lo convocarono con urgenza per il processo. In un primo tempo, lo si è detto, avevano pesato su Alcibiade deboli sospetti e denigrazioni di schiavi e meteci. 3 In seguito, però, durante la sua assenza, gli avversari lo attaccarono con più violenza, collegarono i riti misterici con la profanazione delle Erme, come se fossero entrambi il prodotto di una congiura tesa a sovvertire l'assetto politico del paese e imprigionarono, senza processo, tutti quelli che venivano in qualche modo incolpati. Il popolo si pentì di non aver a suo tempo tradotto Alcibiade in tribunale, di non averlo processato per imputazioni tanto gravi. 4 Incapparono nel furore del popolo familiari, amici e parenti di Alcibiade, che vennero trattati con estrema durezza. Tucidide omette l'identità degli accusatori, altre fonti, invece, fanno i nomi di Diocleide e Teucro, citati anche dal commediografo Frinico nel passo seguente: «O carissimo Ermes, attento a non cascare, per non spezzarti e offrire l'occasione a un secondo Diocleide mascalzone di poter accusare. e: Vigilerò, non intendo davvero dare il compenso delle spie a Teucro, un furfante straniero».
5 Le prove addotte dai delatori non risultarono, tuttavia, né sicure né convincenti. Quando fu chiesto a uno di loro come avesse potuto riconoscere i volti di chi stava mutilando le Erme, egli rispose: «Ma c'era la luna». Ma così crollò la sua testimonianza, in quanto la notte del misfatto c'era il novilunio. La faccenda sconcertò le persone di senno, ma non per questo il popolo venne a più miti consigli nei confronti delle false accuse: anzi proseguì come aveva iniziato, ossia non smise di arrestare e gettare in cella chiunque fosse oggetto di denunzia.
XXI 1 Tra i detenuti in carcere in attesa di giudizio, c'era anche l'oratore Andocide, che lo storico Ellanico annovera fra i discendenti di Odisseo. Andocide aveva fama di nemico del popolo e di fautore dell'oligarchia; tuttavia, a renderlo non poco sospetto di complicità nella mutilazione delle Erme fu il grande Ermes, innalzato come dono votivo dalla tribù Egeide proprio vicino a casa sua. 2 Tra le poche statue di una qualche importanza, questa fu pressoché l'unica a rimanere intatta: motivo per cui ancora oggi viene chiamata l'erma di Andocide, e tutti la conoscono con tale nome, anche se le parole incise su di essa attestano altro. Tra i compagni di cella di Andocide incriminati per lo stesso misfatto, ce ne fu uno di cui divenne particolarmente amico: si chiamava Timeo e non era famoso come lui, ma possedeva un'intelligenza e un'audacia fuori del comune. 3 Timeo tentò di convincere Andocide ad accusare se stesso e pochi altri: un decreto popolare, infatti, accordava al reo confesso l'impunità, mentre l'esito di un processo è incerto per chiunque e temibile soprattutto per i personaggi di spicco. Quindi, era meglio salvarsi con una falsa confessione piuttosto che morire in modo infamante per una accusa altrettanto falsa. Se poi si guardava all'interesse collettivo, conveniva abbandonare al loro destino pochi individui equivoci e sottrarre al furore del popolo molti bravi cittadini. 4 Andocide si lasciò persuadere dalle parole e dai ragionamenti di Timeo: accusò se stesso insieme ad altri, e ottenne l'impunità in base al decreto del popolo. Ma le persone da lui denunciate, tranne chi riuscì a fuggire, furono giustiziate tutte. Per sembrare ancora più attendibile, Andocide incluse nella lista i nomi di alcuni schiavi di sua proprietà.
5 Tuttavia il popolo non depose l'ira. Una volta eliminati gli ermocopidi, come se non avesse altre passioni in cuore, rovesciò la propria rabbia contro Alcibiade, e alla fine inviò la nave di stato Salaminia a prelevarlo. Venne dato ordine - e fu un'idea astuta - di non usare violenza, di non toccare la sua persona: i messi dovevano invitarlo con parole cortesi a seguirli ad Atene per presentarsi al processo e convincere il popolo. 6 Si temeva, infatti, che l'esercito, in terra straniera, esplodesse in tumulti e in una rivolta, che Alcibiade, se avesse voluto, poteva facilmente scatenare. In effetti, dopo la sua protesta, i soldati si persero d'animo, convinti che la guerra sotto il comando di Nicia avrebbe comportato molti indugi e lunga inattività, perché veniva a mancare chi li spronasse a combattere. Restava Lamaco, è vero, pratico di guerra e valoroso, ma era povero e per questo non godeva di credito e di autorità.
XXII 1 Appena salpato, Alcibiade riuscì a sottrarre Messina agli Ateniesi. C'era un gruppo di cittadini pronto a consegnare la città, Alcibiade li conosceva benissimo e ne fece i nomi ai filosiracusani, facendo così naufragare l'iniziativa. Giunto a Turii e sbarcato dalla trireme, si nascose e riuscì a sfuggire a chi gli stava dando la caccia. 2 Quando un tizio, che lo aveva riconosciuto, gli domandò: «Alcibiade, non ti fidi della tua patria?», egli rispose: «Per qualunque altra cosa, sì; ma se si tratta della mia vita, non mi fido neanche di mia madre: non vorrei mai che per errore deponesse nell'urna il sasso nero anziché quello bianco!». Qualche tempo dopo, avendo sentito dire che la cit-tà lo aveva condannato a morte, commentò: «Glielo farò vedere io, a questa gente, che sono vivo!».
3 Ecco il testo dell'accusa registrata contro di lui: «Tessalo, figlio di Cimone, del demo di Laciade, denuncia Alcibiade, figlio di Clinia, del demo di Scambonide, per avere oltraggiato le due dee, parodiando e svelando i sacri misteri agli amici all'interno della propria casa. Indossando la veste che porta il ierofante quando svela il sacro rito, ha designato ierofante se stesso, portatore di fiaccole Pulizione, araldo Teodoro del demo di Fegea, mentre ad altri compagni si rivolgeva chiamandoli iniziati e spettatori, contro le leggi e i decreti sanciti dagli Eumolpidi, dagli Araldi e dai sacerdoti di Eleusi». 4 Alcibiade fu condannato in contumacia e i suoi beni vennero confiscati; si stabilì inoltre che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse lanciassero maledizioni contro di lui. Soltanto Teano - raccontano -, figlia di Menone, del demo di Agrile, si rifiutò di obbedire all'ingiunzione, sostenendo di essere sacerdotessa per benedire e non per maledire.
XXIII 1 Quando contro Alcibiade fu emesso questo grave giudizio e condanna, egli si trovava ad Argo. In un primo tempo, infatti, fuggito da Turii, si era trasferito nel Peloponneso, ma poi, temendo i suoi nemici e disperando della patria, mandò a chiedere a Sparta impunità e garanzie, promettendo aiuti e vantaggi nettamente superiori ai danni in precedenza inferti agli Spartani come nemico. 2 Gli Spartani accondiscesero e lo accolsero. Alcibiade, appena arrivato, fece una prima mossa importante: convinse gli Spartiati, esitanti e temporeggiatori, a inviare aiuti ai Siracusani. A capo di quelle truppe - insisteva - dovevano mandare Gilippo per annientare le forze ateniesi stanziate in Sicilia; in un secondo momento, dovevano trasferire la guerra dall'isola ad Atene. Il terzo consiglio che egli diede, rivelatosi poi fondamentale, fu di fortificare Decelea, operazione, questa, che contribuì in maniera decisiva a segnare distruzione e rovina per Atene.
3 A Sparta, Alcibiade si guadagnò la stima pubblica e l'ammirazione dei singoli, si conquistò il favore della massa, e la stregò adottando il regime di vita spartano. Si era rasato a zero, si lavava con l'acqua fredda, divideva con gli altri il pane d'orzo, beveva il brodo nero; sicché era molto difficile credere che quest'uomo avesse mai avuto un cuoco, un tempo, a casa sua, o posato gli occhi su un profumiere o sperimentato il tocco di una leggera sopravveste milesia. 4 Ma tra le sue tante doti - come dicono - spiccava la capacità di attirarsi le simpatie della gente, assimilando e adattandosi agli usi e ai comportamenti di chi gli stava attorno, con una serie di mutamenti più rapidi di quelli di un camaleonte. Ma, a quanto si racconta, questo animale è in grado di mimetizzarsi con tutti i colori, tranne il bianco; Alcibiade, invece, poteva passare tranquillamente dal bene al male e viceversa; non vi era nulla che non sapesse imitare o praticare. 5 A Sparta eccelleva nell'attività ginnica, viveva con frugalità, aveva l'aspetto serio. In Ionia era devoto ai piaceri, alla mollezza, all'indolenza. In Tracia era sempre ubriaco, in Tessaglia andava a cavallo; alla corte del satrapo Tissaferne, superò in fasto e sontuosità persino la magnificenza persiana. Non che gli fosse così facile passare da un modo di vita a un altro e neanche subiva ogni volta una reale modificazione del carattere; ma appena avvertiva che la sua vera natura avrebbe infastidito le persone con cui aveva a che fare, correva ai ripari, adottando di volta in volta modi e atteggiamenti consoni ai loro. 6 Ecco perché a Sparta, giudicando in base alle apparenze, si sarebbe potuto affermare: «Non è figlio di Achille, ma Achille in persona, un perfetto discepolo di Licurgo»; ma sulla scorta dei suoi veri sentimenti e azioni si sarebbe esclamato: «È la stessa donna di un tempo».
7 Infatti, mentre il re Agide si trovava lontano da casa, impegnato a combattere, Alcibiade ne sedusse la moglie Timea e la rese incinta. E lei non lo rinnegò e partorì un maschio. Gli fu imposto il nome ufficiale di Leotichide, ma in casa, alla presenza di amiche e ancelle, la madre sottovoce lo chiamava Alcibiade,tanto amava quell'uomo. Ma lui beffardamente diceva di aver agito così non per protervia o perché schiavo della passione: semplicemente, voleva che in futuro, sul trono di Sparta, regnasse la sua discendenza. 8 Molti riferirono ad Agide ciò che era accaduto ed egli lo ritenne vero. Soprattutto in base al computo del tempo. Infatti c'era stato un terremoto e il re, spaventato, era corso fuori dalla camera della moglie, poi non aveva più trascorso una notte con lei per dieci mesi. Ma Leotichide era nato dopo quel periodo: Agide rifiutò di riconoscerlo come suo. Per questo motivo, Leotichide in seguito fu privato della successione al trono.
XXIV 1 Dopo la disfatta ateniese in Sicilia, furono inviati a Sparta contemporaneamente ambasciatori da Chio, da Lesbo e da Cizico per discutere su una loro rivolta contro Atene. I Lesbii erano appoggiati dai Beoti, i Ciziceni da Farnabazo, ma gli Spartani, convinti da Alcibiade, decisero di aiutare prima di ogni altro gli abitanti di Chio. Salpato lui stesso, portò alla defezione quasi tutta la Ionia e inflisse agli Ateniesi gravi danni collaborando con i generali spartani. 2 Agide, tuttavia, gli era nemico: aveva sofferto per il tradimento della moglie ed era irritato per la fama che Alcibiade si stava conquistando: correva voce, infatti, che fosse lui l'artefice di tutti i maggiori successi. E tra gli altri Spartiati, i più potenti e ambiziosi, pieni d'invidia, mal lo sopportavano. Premettero molto sui magistrati in patria, e ci riuscirono, perché si trasmettesse in Ionia l'ordine di ucciderlo.
3 Alcibiade ne fu segretamente informato e si allarmò: e pur continuando a collaborare con gli Spartani in ogni impresa, evitò con attenzione di cadere nelle loro mani. Per ragioni di sicurezza, riparò da Tissaferne, satrapo del re di Persia, e divenne subito il primo e più eminente personaggio della sua corte. 4 Il barbaro, infatti, un essere tutt'altro che candido, di natura perversa e amico dei malvagi, era affascinato dalla versatilità e dalla straordinaria bravura di Alcibiade. D'altra parte, non esisteva un carattere tanto duro o un'indole così difficile da conquistare che non provasse piacere a trascorrere le giornate e a conversare con Alcibiade; persino chi lo temeva o lo invidiava provava un certo piacere e soddisfazione in sua compagnia e in sua presenza. 5 Tissaferne, ad esempio, pur essendo tra tutti i Persiani il più nutrito di odio contro i Greci, cedette alle lusinghe di Alcibiade tanto da superarlo nelle reciproche adulazioni. Addirittura, diede il nome di Alcibiade a uno dei suoi parchi, il più bello per acque e prati salubri, ricco di angoli dove trascorrere il tempo e di anfratti adornati regalmente e sfarzosamente: e la gente, anche in seguito, continuò a chiamarlo così.
XXV 1 Abbandonata la causa degli Spartani, perché infidi, e temendo Agide, Alcibiade iniziò a danneggiarli e a metterli in cattiva luce agli occhi di Tissaferne e impedì al satrapo di impegnarsi a fondo per aiutarli e di annientare le forze ateniesi, lo consigliò invece di centellinare gli aiuti per consumarli e logorarli lentamente, e così sottometterli al re dopo che si erano spossati a vicenda. 2 Tissaferne si lasciò persuadere facilmente, ed era chiaro che prediligeva e ammirava Alcibiade. Sicché gli occhi dei Greci, da una parte e dall'altra, si appuntarono tutti su di lui. Gli Ateniesi si pentirono di avergli inflitto una pena tanto grave, vista la moneta con cui li aveva ripagati, ma anche Alcibiade era in angustie: temeva, se Atene veniva distrutta, di cadere nelle mani degli Spartani, che tanto lo odiavano.
3 A quel tempo quasi tutte le forze di Atene erano concentrate in Samo: partendo dall'isola con la flotta cercavano di riconquistare le città ribelli, e di tenere le altre sotto controllo, in quanto, per mare, erano ancora in qualche modo capaci di far fronte ai nemici. Ma temevano Tissaferne e le centocinquanta triremi fenicie di cui si vociferava l'arrivo: una volta che fossero giunte, alla città non rimaneva speranza di salvezza. 4 Alcibiade, venuto a conoscenza della situazione, mandò di nascosto un messaggio agli Ateniesi che più contavano in Samo, e destò in essi la speranza di ottenere per suo tramite l'amicizia di Tissaferne. Non intendeva ingraziarsi il popolo e neanche se ne fidava. Agiva così per favorire gli aristocratici, purché avessero il coraggio di mostrarsi uomini, di mettere fine alla prepotenza delle masse e di salvare così la loro causa e la città.
5 La proposta di Alcibiade venne accolta con unanime consenso; la sola voce contraria fu quella dello stratego Frinico, del demo di Deirade: egli sospettava - non a torto - che oligarchia o democrazia, per Alcibiade era tutto lo stesso; in realtà Alcibiade cercava un modo per rientrare: infangava il popolo solo per corteggiare gli aristocratici e guadagnarsene il favore. L'interpretazione di Frinico non fu accolta ed egli ormai era venuto allo scoperto come nemico di Alcibiade; inviò allora ad Astioco, ammiraglio della flotta nemica, un messaggio segreto, invitandolo a guardarsi da Alcibiade e ad arrestarlo perché stava facendo il doppio gioco. 6 Ma non si era reso conto che lui traditore stava trattando con un altro traditore. Infatti, Astioco nutriva un timore reverenziale per Tissaferne: sapendo quale alta stima avesse di Alcibiade, rivelò ai due le trame di Frinico. Alcibiade, allora, mandò immediatamente a Samo alcuni suoi emissari ad accusare Frinico. L'azione di Frinico suscitò lo sdegno e la reazione di tutti: ed egli, non vedendo altra via d'uscita dalla situazione in cui si era cacciato, pensò bene di rimediare al suo errore con un errore ancora più grave. 7 Scrisse per la seconda volta ad Astioco rimproverandogli la sua delazione, e però dichiarandosi pronto a consegnargli la flotta e l'esercito ateniesi. Il tradimento di Frinico, tuttavia, non arrecò alcun danno agli Ateniesi per il controtradimento di Astioco, il quale rese noto ad Alcibiade il messaggio di Frinico. 8 Ma Frinico aveva intuito la condotta di Astioco e aspettandosi una nuova accusa da parte di Alcibiade, lo prevenne: rivelò agli Ateniesi l'arrivo imminente della flotta nemica e li esortò a tenere gli equipaggi a bordo e a fortificare il campo. Essi seguirono il suo consiglio. 9 E quando giunse un altro messaggio di Alcibiade con l'esplicito invito a guardarsi da Frinico, poiché intendeva consegnare ai nemici la base navale, gli Ateniesi non gli prestarono fede. Erano convinti che Alcibiade, ben conoscendo i preparativi e le intenzioni dei nemici, se ne servisse per muovere false accuse contro Frinico. 10 Qualche tempo dopo, un soldato di ronda di nome Ermone, incontrato Frinico nell'agorà, lo colpì con un pugnale e lo uccise; ne seguì un processo, al termine del quale gli Ateniesi condannarono il morto per tradimento e premiarono con una corona Ermone e i suoi complici.
XXVI 1 Gli amici di Alcibiade, che detenevano allora il potere a Samo, inviarono Pisandro ad Atene con il compito di sovvertire la forma di governo e di incoraggiare i nobili: dovevano prendere in mano la situazione e rovesciare la democrazia: solo così Alcibiade avrebbe garantito l'amicizia e l'alleanza con Tissaferne. Questa fu dunque la scusa, il pretesto con cui venne instaurata l'oligarchia. 2 Una volta che furono ben saldi in sella e strinsero in pugno le redini dello Stato, i cosiddetti Cinquemila - che, in realtà, erano quattrocento - non si curarono minimamente di Alcibiade e gestirono la guerra senza alcun vigore. Intanto, non si fidavano della popolazione, ancora restia di fronte al cambiamento, e poi credevano di trovare più disponibili gli Spartani, da sempre favorevoli all'oligarchia. 3 Nel frattempo, in città i democratici, seppur contro voglia, se ne stavano tranquilli per paura: infatti, erano stati uccisi non pochi tra gli oppositori dichiarati dei Quattrocento. Appreso questo, i soldati ateniesi di stanza a Samo, si sdegnarono e si apprestavano a salpare alla volta del Pireo. Convocato Alcibiade, lo elessero stratego, e gli ordinarono di guidarli nella spedizione per abbattere i tiranni.
4 Un altro individuo, divenuto all'improvviso potente grazie al favore del popolo, sarebbe stato lieto di acconsentire, convinto che bisognasse compiacere in tutto e subito e non contraddire in nulla coloro che, da ramingo e fuggiasco quale era, lo avevano messo a capo, con la carica di stratego, di tante navi, di un esercito e di uno spiegamento di forze così ingente. Invece Alcibiade, come si addice a un grande condottiero, si oppose a chi era accecato dalla rabbia, gli impedì di commettere un imperdonabile errore e in quell'occasione - è evidente - salvò le sorti della città. 5 Se, infatti, gli Ateniesi, levate le ancore, fossero tornati in patria, i nemici avrebbero potuto assoggettare subito tutta la Ionia, l'Ellesponto e le isole senza colpo ferire; gli Ateniesi, invece, avrebbero combattuto contro gli Ateniesi, portando la guerra dentro la città. Alcibiade fu l'unico, in assoluto, a impedire che ciò accadesse: non solo persuadendo e consigliando la massa, ma anche, rivolgendosi ai singoli, pregandone alcuni, forzando altri. 6 Collaborò con lui, standogli a fianco e strepitando, anche Trasibulo, del demo di Stiria, che, a quanto raccontano aveva la voce più potente d'Atene. Questo nobile gesto di Alcibiade fu seguito da un secondo. Gli Spartani aspettavano l'arrivo delle navi fenicie, inviate dal re di Persia; Alcibiade si impegnò o a farle passare dalla parte degli Ateniesi o a impedire che giungessero a destinazione, e salpò rapidamente. 7 Le navi furono avvistate al largo di Aspendo, ma Tissaferne non le condusse oltre, violando, così, la promessa fatta agli Spartani. La responsabilità di questo mutamento di rotta fu addebitata ad Alcibiade da entrambe le parti, ma soprattutto dagli Spartani, convinti che egli avesse suggerito al barbaro di lasciare che i Greci si scannassero da soli, gli uni contro gli altri. Era infatti chiaro che la parte a cui si aggiungeva una flotta così potente avrebbe sottratto all'altra del tutto il dominio sul mare.
XXVII 1 Dopo tali avvenimenti, il governo dei Quattrocento fu rovesciato; con la solerte collaborazione degli amici di Alcibiade schieratisi con i filodemocratici. La città voleva, chiedeva insistentemente il ritorno di Alcibiade. Ma egli ritenne di non dover rientrare a mani vuote e senza aver concluso niente, solo in virtù della misericordia e del favore del popolo: Alcibiade doveva rientrare coperto di gloria. Così, per prima cosa, partito da Samo con un numero esiguo di navi, incrociò nel tratto di mare tra Cnido e Cos; 2 là venne a sapere che lo spartiata Mindaro si dirigeva con la sua squadra navale al completo verso l'Ellesponto e che gli Ateniesi si erano gettati all'inseguimento, e si affrettò a portare aiuto agli strateghi. Caso volle che egli giungesse con le sue diciotto triremi proprio quando i due schieramenti si erano scontrati con tutte le loro navi, stavano combattendo nei pressi di Abido ed erano impegnati in una battaglia di vaste proporzioni che senza vincitori né vinti, si stava protraendo sino a sera. 3 Il suo arrivo suscitò in entrambi gli eserciti una falsa idea: i nemici presero coraggio, gli Ateniesi furono sconvolti. Ma Alcibiade issò sulla nave ammiraglia le insegne ate-niesi e piombò sui Peloponnesiaci che avevano preso il sopravvento e stavano inseguendo gli Ateniesi. Alcibiade mise in rotta i nemici, li sospinse verso terra e incalzandoli da presso, speronò e mandò in pezzi le loro navi: Farnabazo accorse con la fanteria in aiuto agli uomini che avevano cercato scampo a nuoto, e si batté in riva al mare a difesa delle navi. 4 Alla fine, tuttavia, gli Ateniesi catturarono trenta vascelli nemici, salvarono tutti i loro ed innalzarono un trofeo. Dopo un successo così brillante, Alcibiade, ansioso di vantarsene al più presto con Tissaferne, preparò doni e offerte ospitali e, con un seguito degno di un grande comandante, si recò da lui. 5 L'accoglienza non fu, però, quella che si aspettava. Tissaferne, che da tempo era malamente sulle bocche degli Spartani e temeva di venire incolpato dal suo re, ritenne che Alcibiade fosse giunto proprio al momento opportuno: lo arrestò e lo chiuse in carcere a Sardi, sperando che questa azione ingiusta lo scagionasse dalle accuse spartane.
XXVIII 1 Trascorsi trenta giorni, Alcibiade, procuratosi chissà dove un cavallo, eluse la sorveglianza e fuggì a Clazomene. E per di più calunniò Tissaferne, raccontando di essere stato rilasciato grazie a lui, e poi fece vela verso il campo ateniese. Laggiù seppe che Mindaro si trovava con Farnabazo a Cizico, 2 infiammò gli animi dei soldati, spiegando che era necessario combattere per mare e per terra e, per Zeus, assediare i nemici; se non vincevano su tutti i fronti, denaro non ce ne sarebbe stato. Armò, dunque, le navi e approdato a Proconneso, diede l'ordine di bloccare e trattenere tutte le piccole imbarcazioni, sicché i nemici non avessero in nessun modo sentore del suo arrivo.
3 Ora, capitò che all'improvviso si scatenasse un acquazzone, e tuoni e caligine contribuirono ad occultare i preparativi. Non solo i nemici non si accorsero di nulla, ma persino gli Ateniesi avevano ormai rinunciato all'idea di combattere quando Alcibiade comandò loro di imbarcarsi e salpò. Dopo poco l'oscurità si dissolse e si intravidero le navi dei Peloponnesiaci che incrociavano davanti al porto di Cizico. 4 Alcibiade, temendo che i nemici cercassero scampo in terraferma, se vedevano quell'ingente flotta, ordinò agli strateghi di navigare lentamente e di restare indietro; egli, invece, si presentò con quaranta navi e sfidava gli avversari a battaglia. I Peloponnesiaci caddero nel tranello, e disprezzando quella che ritenevano una flotta esigua, mossero subito all'attacco e si gettarono nella mischia. Ma mentre si stava ormai combattendo, sopraggiunsero le altre navi ateniesi e i nemici, in preda al panico, si diedero alla fuga.
5 Alcibiade, dopo aver sfondato le loro linee con venti tra i suoi migliori vascelli, accostò a riva e sbarcò; quindi, incalzando chi tentava di scappare dalle navi, ne fece strage. Ebbe la meglio anche su Mindaro e Farnabazo, che erano accorsi in aiuto, e uccise Mindaro mentre lottava strenuamente, Farnabazo, invece, fuggì. 6 Molti furono i cadaveri e le armi di cui si impadronirono gli Ateniesi: catturarono anche l'intera flotta nemica. Conquistarono Cizico, abbandonata da Farnabazo e sterminarono i soldati del Peloponneso, così non solo si assicurarono il dominio sull'Ellesponto, ma anche cacciarono a forza gli Spartani dal mare. Fu intercettato un messaggio, che in stile laconico annunciava agli efori l'avvenuta sconfitta: «Navi distrutte; Mindaro morto; soldati affamati; ignoriamo che cosa fare».
XXIX 1 I soldati che avevano guerreggiato con Alcibiade si inorgoglirono e divennero così superbi da sdegnare di mescolarsi con gli altri commilitoni, loro, invitti, con gente sconfitta più volte. Non molto tempo prima, infatti, era accaduto che Trasillo venisse battuto nei pressi di Efeso, e gli Efesii avevano innalzato un trofeo di bronzo a umiliazione degli Ateniesi. 2 Gli uomini di Alcibiade rinfacciavano questa vergogna ai soldati di Trasillo: e magnificando se stessi e il proprio capitano, si rifiutavano addirittura di condividere le palestre o di acquartierarsi con loro. Quando, però, Farnabazo, con un gran numero di fanti e cavalieri, piombò sui soldati di Trasillo, penetrati, in un'incursione, nel territorio di Abido, Alcibiade accorse in loro aiuto, mise in rotta Farnabazo, e lo inseguì insieme a Trasillo sino al calar della notte. I due contingenti si mescolarono e rientrarono insieme al campo con reciproca cordialità e gioia.
3 Il giorno seguente, innalzato un trofeo, Alcibiade saccheggiò le terre di Farnabazo, e nessuno ebbe il coraggio di opporre resistenza. I sacerdoti e le sacerdotesse presi prigionieri li lasciò liberi senza esigere riscatto. Gli abitanti di Calcedone, intanto, si erano ribellati ad Atene e avevano accolto una guarnigione e un governatore spartani: Alcibiade si preparò a attaccarli. Ma venne a sapere che avevano raccolto e trasferito fuori dal paese tutto ciò che poteva diventare bottino di guerra e lo avevano consegnato ai Bitinii, loro amici. Guidò allora l'esercito sino ai confini della Bitinia e spedì un araldo con un messaggio di accusa. I Bitinii, spaventati, gli consegnarono i beni in loro custodia e conclusero con Atene un trattato di amicizia.
XXX 1 Mentre si stringeva il blocco intorno a Calcedone da mare a mare, sopraggiunse Farnabazo per mettere fine all'assedio; contemporaneamente, il governatore spartano Ippocrate fece una sortita a capo delle forze di cui disponeva e attaccò gli Ateniesi. Allora Alcibiade dispose i suoi uomini sui due fronti, costrinse Farnabazo a una fuga vergognosa, uccise Ippocrate e con lui molti dei soldati sconfitti.
2 Salpato, poi, alla volta dell'Ellesponto, raccolse tributi e conquistò Selimbria esponendosi oltre i limiti. I cospiratori pronti a consegnargli la città avevano stabilito come segnale di alzare una fiaccola accesa a mezzanotte in punto, ma furono costretti ad anticipare l'operazione, impauriti perché uno di loro aveva improvvisamente cambiato idea. Quando la torcia fu alzata, l'esercito non era ancora pronto: ma Alcibiade prese con sé trenta uomini e si diresse di corsa alle mura, ordinando agli altri di seguirlo in gran fretta. 3 La porta della città gli venne aperta, Alcibiade irruppe dentro con i trenta uomini, a cui si erano intanto aggiunti venti peltasti, e si accorse subito che gli abitanti di Selimbria avanzavano contro di loro, in assetto di guerra. La resistenza non avrebbe offerto via di scampo, la fuga contrastava con il suo amore di vittoria, tanto più che sino a quel giorno nelle sue spedizioni Alcibiade non aveva conosciuto sconfitte. Dette ordine allora al trombettiere di suonare il silenzio e a un altro dei suoi, che gli stava accanto, di intimare ai Selimbriani che non impugnassero le armi contro gli Ateniesi. 4 L'intimazione in parte smorzò in loro il desiderio di combattere, in quanto ritennero che l'intero esercito nemico si trovasse ormai dentro la città, e d'altra parte la speranza di una riconciliazione li rese più arrendevoli. Mentre parlamentavano tra di loro sopraggiunse il grosso dell'esercito di Alcibiade, il quale, ritenendo giustamente che gli abitanti di Selimbria volessero la pace, temette che i Traci depredassero la città. 5 Molti Traci, infatti, militavano con slancio nelle sue truppe, per simpatia e per attaccamento verso la sua persona. Alcibiade li allontanò tutti dalla città, alla quale non inflisse danni, esaudendo le preghiere dei Selimbriani. Prese solo una somma di denaro, stanziò una guarnigione e se ne andò.
XXXI 1 Gli strateghi che stavano assediando Calcedone siglarono la pace con Farnabazo, a condizione che egli consegnasse una certa somma di denaro e i Calcedonii tornassero sotto l'egemonia ateniese; in cambio, gli Ateniesi non avrebbero devastato i territori di Farnabazo. Il satrapo, inoltre, avrebbe fornito una scorta per la sicurezza degli ambasciatori ateniesi diretti alla corte del re di Persia. 2 Quando arrivò Alcibiade, Farnabazo pretese che anche lui giurasse fedeltà all'accordo ed egli rispose che non avrebbe giurato prima che lo facesse lo stesso Farnabazo. Dopo che i due ebbero giurato, Alcibiade si volse contro i Bizantini, che si erano ribellati, e cinse d'assedio la loro città. Anassilao e Licurgo, insieme a pochi altri, decisero di consegnargliela purché non la saccheggiasse: egli allora diffuse la voce che moti rivoluzionari lo costringevano a partire per la Ionia. Salpò con tutta la flotta in pieno giorno, 3 ma tornò indietro durante la notte, sbarcò con i suoi opliti e si stanziò, silenziosamente, sotto le mura di Bisanzio. Le navi, nel frattempo, fecero vela verso il porto, ne forzarono l'entrata con urla, tumulti, frastuono. Così da un lato gettarono nel panico i Bizantini con l'inatteso attacco e d'altro lato offrirono al partito filoateniese la possibilità di accogliere in città con ogni tranquillità Alcibiade, perché tutti si erano precipitati a difendere navi e porto. 4 Ma la resa non fu senza lotta: gli abitanti del Peloponneso, della Beozia e di Megara presenti allora a Bisanzio respinsero l'attacco degli Ateniesi sbarcati e li costrinsero a ritirarsi sulle navi; quando poi si accorsero che altri Ateniesi erano penetrati all'interno delle mura, si schierarono in ordine di battaglia e li affrontarono. Ne seguì un fiero scontro, vinto da Alcibiade, che comandava l'ala destra, e da Teramene, che guidava l'ala sinistra: caddero prigionieri circa trecento dei nemici superstiti.
5 Dopo la battaglia, nessun cittadino di Bisanzio fu ucciso o esiliato, perché così avevano pattuito nel loro accordo gli uomini che avevano consegnato ad Alcibiade la città: per se stessi, invece, non avevano chiesto nulla di speciale. Perciò, quando a Sparta Anassilao fu perseguito per tradimento, dalle sue parole risultò chiaro che non aveva compiuto nessuna azione vergognosa. Egli dichiarò di non essere spartano, ma bizantino e di aver visto in serio pericolo non Sparta, bensì Bisanzio: la città era cinta d'assedio, non esisteva via d'accesso per i soccorsi, 6 i Peloponnesiaci e i Beoti mangiavano il grano che si trovava in Bisanzio, i Bizantini soffrivano la fame con mogli e figli. Non aveva tradito la città, ma allontanato da essa guerra e sciagure, imitando così i più nobili fra gli Spartani, per i quali la cosa più bella e giusta è il vantaggio della patria. Udendo questo discorso, i Lacedemoni provarono rispetto per Anassilao e lo assolsero.
XXXII 1 Alcibiade, ansioso di rivedere finalmente la patria e ancor più desideroso di farsi vedere dai suoi concittadini, ora che aveva vinto tante volte i nemici, salpò per Atene. Le triremi attiche erano adorne lungo le murate di numerosi scudi e spoglie di guerra; a rimorchio, seguivano molti vascelli catturati, e Alcibiade trasportava una quantità ancora maggiore di polene, appartenute a navi da lui vinte e distrutte. Il loro numero complessivo ammontava a non meno di duecento.
2 A questi particolari Duride di Samo, che afferma di discendere da Alcibiade, ne aggiunge altri: Crisogono, vincitore dei giochi Pitici, dava il ritmo ai vogatori suonando il flauto, l'attore tragico Callippide faceva il capovoga: entrambi sfoggiavano il chitone a pieghe dritte, vesti di stoffa fine e altri orpelli da agone teatrale. La nave ammiraglia entrò in porto spiegando vele rosso porpora, quasi che l'equipaggio a bordo fosse uscito a far baldoria dopo una bella bevuta. 3 Ma Teopompo, Eforo, Senofonte non scrivono nulla in proposito; d'altra parte, sarebbe stato poco verosimile che Alcibiade, reduce da un esilio e da gravi vicissitudini sfoggiasse tanta boria davanti agli Ateniesi. Al contrario, entrò in porto non senza timori, e, una volta attraccato non scese dalla trireme finché, stando in piedi sul ponte della nave, non vide suo cugino Eurittolemo fermo sul molo insieme a molti altri amici e familiari che lo aspettavano e lo invitavano a raggiungerli.
4 Alla fine sbarcò: la gente che si era mossa per incontrarlo non sembrava neanche accorgersi degli altri strateghi: ma si accalcava intorno a lui, lo acclamava, gli dava il benvenuto, lo scortava lungo la strada, chi riusciva ad avvicinarsi a lui lo coronava di fiori; chi, invece, non ci riusciva, lo divorava con gli occhi da lontano, e i più vecchi lo indicavano ai giovani. Alla gioia della cittadinanza si mescolarono, tuttavia, anche molte lacrime nel ricordo delle sventure passate, nel paragone con la presente felicità. 5 Non avrebbero fallito in Sicilia - pensavano -, non sarebbe svanita nessun'altra grande speranza se avessero lasciato Alcibiade a capo di quell'impresa e di quel potente esercito. Perché una città che stava quasi per venir privata del dominio sul mare, che in terra era a stento padrona dei propri sobborghi, che era lacerata da lotte interne, Alcibiade l'aveva risollevata da una situazione di miseria e rovina. E non solo le aveva restituito il dominio sul mare, ma la palesava vincente sui nemici dovunque anche in terraferma.
XXXIII 1 Il decreto per il ritorno di Alcibiade era stato già da tempo approvato; lo aveva proposto Crizia, figlio di Callescro, e lo sottolinea lui stesso in una elegia, così ricordando ad Alcibiade il favore che gli aveva reso: «Il decreto del tuo ritorno io lo proposi in pubblico, e lo scrissi: è opera mia. Ecco il sigillo delle mie parole».
2 Appena i cittadini si riunirono in assemblea, Alcibiade, fatto il suo ingresso, deplorò e compianse le proprie sofferenze, ma non mosse accuse gravi o eccessive al popolo, ascrisse invece ogni colpa a un destino crudele o a un demone invidioso. E si soffermò sulle vane speranze dei nemici, invitò gli Ateniesi ad aver coraggio. E venne insignito di corone d'oro e eletto stratego con pieni poteri sia per terra che per mare. 3 Fu decretato che gli fossero restituite tutte le sostanze confiscate e che gli Eumolpidi e gli Araldi ritirassero le maledizioni scagliate contro di lui per ordine del popolo. Così fecero tutti tranne il ierofante Teodoro: «Io, in verità», egli disse, «non avevo invocato nessuna disgrazia contro di lui, a meno che non avesse danneggiato la città».
XXXIV 1 Mentre Alcibiade trascorreva giorni lieti, qualcuno invece era turbato dalla data del suo ritorno. Infatti, il giorno in cui egli era sbarcato si celebravano le feste Plinterie in onore della dea Atena. Il 25 del mese Targelione, le Prassiergidi compiono in segreto sacri riti e nel corso della cerimonia spogliano la statua di Atena dei suoi ornamenti e la ricoprono con un velo. Per questo gli Ateniesi considerano quel giorno uno dei più nefasti per qualunque attività. 2 Si ritenne, quindi, che la dea non accogliesse Alcibiade con benevolenza e animo propizio, ma che si celasse a lui, che lo respingesse lontano da sé. Ciononostante, tutto si svolse secondo i piani di Alcibiade e gli vennero allestite cento triremi con cui stava preparandosi a riprendere il mare. Ma lo colse un'ambizione non spregevole e lo trattenne ad Atene sino all'epoca dei misteri eleusini.
3 Da quando gli Spartani avevano fortificato Decelea e dominavano le vie d'accesso a Eleusi, la processione si svolgeva per mare senza sfarzo alcuno: venivano tralasciati, per necessità, sacrifici, danze e molti riti sacri che si celebravano lungo la strada, durante il trasporto della statua di Iacco. 4 Ad Alcibiade parve, dunque, bello, santo davanti agli dèi e glorioso presso gli uomini restituire ai misteri la forma tradizionale, facendo scortare e proteggere dalla fanteria la processione lungo le linee nemiche. In questo modo avrebbe intaccato e umiliato Agide se non reagiva assolutamente; in caso contrario, avrebbe combattuto, sotto gli occhi della patria, una battaglia sacra gradita agli dèi, in difesa di una delle più sante e grandi festività dell'Attica: e avrebbe avuto tutti i cittadini come testimoni del suo valore.
5 Una volta assunta tale decisione, la comunicò agli Eumolpidi e agli Araldi, stanziò sentinelle sulle alture e, alle prime luci del giorno, spedì in avanscoperta alcuni esploratori. Poi prese con sé sacerdoti, iniziati e maestri dei misteri, li circondò di armati, e guidò quella processione in gran pompa e nel silenzio più assoluto. Fu così maestoso e devoto lo spettacolo offerto dalla sua spedizione che egli venne acclamato da chi non provava invidia ierofante e maestro di riti. 6 Da parte nemica, nessuno osò attaccare i fedeli e così Alcibiade li ricondusse in città sani e salvi. Il che contribuì a esaltare il suo animo e i soldati, che si ritenevano imbattibili e invincibili, sotto il suo comando. Egli si guadagnò anche il favore degli umili e dei poveri, tanto che ardentemente anelavano ad averlo come tiranno. Qualcuno persino glielo propose, e lo esortò a farsi avanti: doveva essere superiore all'invidia, sopprimere le leggi, i decreti, le chiacchiere che distruggevano la città, e prendere le redini politiche, governare lo Stato senza temere i sicofanti.
XXXV 1 Non è chiaro cosa pensasse Alcibiade della tirannide, ma i cittadini più influenti ebbero paura e affrettarono al massimo la sua partenza: oltre a quanto avevano già decretato, gli concessero di scegliersi i colleghi che preferiva. Salpato, dunque, con cento navi e presa d'assalto Andro, sbaragliò i suoi abitanti e gli Spartani presenti sull'isola, ma non conquistò la città - e questa fu la prima delle nuove accuse che gli mossero i suoi avversari.
2 Infatti, a quel che sembra, mai nessuno fu rovinato dalla propria fama quanto Alcibiade. I successi riportati gli avevano procurato grande fama di coraggio e di sagacia. Un suo scacco lo rendeva sospetto: evidentemente non si era impegnato abbastanza, non era credibile che non avesse potuto raggiungere il suo scopo. Non c'era niente di impossibile per lui, se ci metteva la buona volontà. Ci si aspettava la notizia che anche gli abitanti di Chio e il resto della Ionia erano caduti in sue mani. 3 Perciò si infuriarono quando seppero che non aveva portato a compimento tutto subito e immediatamente come desideravano. E non tennero in considerazione la mancanza di denaro che costringeva Alcibiade, obbligato a combattere contro uomini generosamente sovvenzionati dal re di Persia, a lasciare il campo e a levar l'ancora per procurarsi soldi e viveri per i soldati. Fu proprio questo il motivo che costò ad Alcibiade l'ultima accusa.
4 Lisandro, inviato come ammiraglio dagli Spartani, era in grado di pagare i suoi marinai quattro oboli al giorno anziché tre, grazie al denaro datogli da Ciro. Alcibiade, invece, che ormai non riusciva neanche più a garantire i tre oboli, salpò per la Caria, per raccogliere denaro. A comandare la flotta fu lasciato Antioco, bravo come pilota, ma per il resto uomo poco intelligente e rozzo. 5 Alcibiade gli aveva ordinato di non impegnarsi in uno scontro navale neanche se si muovevano per primi i nemici. Ma egli fu così temerario e sussiegoso da equipaggiare la propria trireme e un'altra, e spingersi sino a Efeso. E là passava e ripassava davanti alle prue dei vascelli nemici, con gesti e grida offensivi e volgari. 6 Dapprima Lisandro si spinse al largo con poche navi e lo inseguì; quando, però, gli Ateniesi accorsero in aiuto di Antioco, mobilitò tutta la flotta, vinse la battaglia, uccise lo stesso Antioco, catturò molti vascelli e uomini ed eresse un trofeo. Appena Alcibiade lo seppe, rientrò subito a Samo, si spinse in mare aperto con tutti gli equipaggi e sfidò Lisandro. Ma lo Spartano, soddisfatto per la vittoria, non uscì ad affrontarlo.
XXXVI 1 Nel campo, tra coloro che odiavano Alcibiade, c'era il figlio di Trasone, Trasibulo, un suo nemico: salpò, dunque, per Atene per denunziarlo. E ivi inasprì gli animi dei cittadini, dichiarando al popolo che l'unico responsabile della disfatta e della perdita delle navi era Alcibiade. Beffandosi del suo incarico, aveva affidato il comando della flotta a uomini che avevano ascendente su di lui per le loro doti di beoni e le loro ciance da marinai. 2 E intanto se ne andava tranquillo per i mari a raccogliere denaro, si dava sfrenatamente al bere e se la spassava con prostitute di Abido e della Ionia, mentre i nemici erano ancorati a poca distanza dalla sua flotta. Gli si rimproverava anche di avere costruito una fortezza a Bisante, in Tracia, come rifugio personale nel caso non avesse potuto (o voluto) vivere in patria. 3 Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e elessero altri strateghi, dimostrando così l'ira e la malevolenza che nutrivano contro Alcibiade. Informato della situazione, e cedendo al timore, egli lasciò il campo e con dei mercenari che aveva assoldato mosse guerra ai Traci, gente che non conosceva regole. Dai prigionieri catturati ricavò ingenti somme, e allo stesso tempo protesse dalle incursioni dei barbari i Greci stanziati sui confini.
4 Nel frattempo gli strateghi Tideo, Menandro e Adimanto, dopo aver riunito a Egospotami tutte le navi di cui disponevano allora gli Ateniesi, presero l'abitudine di spingersi al largo ogni mattina all'alba per sfidare Lisandro, ancorato nei pressi di Lampsaco; poi rientravano alla base, trascorrevano il resto della giornata nel disordine e nella negligenza, perché disprezzavano l'avversario. 5 Alcibiade, stanziato nei pressi, non riuscì a sopportare né a disinteressarsi di una simile condotta; si precipitò, a cavallo, dagli strateghi e li mise in guardia. Facevano male a starsene all'ormeggio in un luogo privo di porto e di un centro abitato - il che li costringeva a procurarsi i vettovagliamenti dalla lontana Sesto -; e ancora, sbagliavano permettendo ai marinai, una volta scesi a terra, di andarsene liberamente dove volevano e di disperdersi qua e là: proprio di fronte a loro, infatti, stava alla fonda una potente flotta, abituata a eseguire in silenzio qualunque ordine del suo unico capo.
XXXVII 1 Così consigliò Alcibiade e li invitò anche a trasferire le loro forze a Sesto. Ma gli strateghi non gli prestarono attenzione; Tideo, anzi, con modi insolenti, gli intimò di andarsene, perché erano altri ora a comandare e non lui. Alcibiade se ne ripartì con il sospetto che i tre macchinassero un tradimento, e ai conoscenti che lo scortavano fuori dal campo disse che se gli strateghi non lo avessero insultato in quel modo, nello spazio di pochi giorni avrebbe costretto gli Spartani, volenti o nolenti, ad affrontare lo scontro navale o ad abbandonare le navi. 2 Ad alcuni quel discorso parve una spacconeria, altri, invece, lo ritennero credibile: gli sarebbe bastato attaccare da terra con molti lanciatori di giavellotto e cavalieri traci e gettare così lo scompiglio nell'accampamento spartano. I fatti ben presto dimostrarono che Alcibiade aveva visto sin troppo bene gli errori degli Ateniesi. All'improvviso, quando meno se lo aspettavano, Lisandro piombò su di loro; solo otto triremi riuscirono a fuggire con Conone, mentre le altre - quasi duecento - caddero nelle mani dei nemici e furono portate via. 3 Lisandro catturò vivi tremila uomini e li fece uccidere tutti. Poco tempo dopo, conquistò Atene, diede fuoco all'intera flotta e ordinò di abbattere le Lunghe Mura. In seguito a ciò, Alcibiade, temendo gli Spartani, ormai padroni della terraferma e del mare, passò in Bitinia, portando con sé e mettendo in salvo molte ricchezze, ma lasciandone ancor più nella fortezza dove aveva vissuto. 4 In Bitinia, tuttavia, perse di nuovo non pochi dei suoi beni, derubato dai Traci che si trovavano in quella regione. Decise, allora, di raggiungere, risalendo verso l'interno, la corte di Artaserse. Era convinto di potersi mostrare non inferiore a Temistocle, se il re di Persia lo avesse messo alla prova, e superiore in quanto a motivi per offrire i suoi servizi. Egli, infatti, li offriva e chiedeva il sostegno del potere del Gran Re non per danneggiare i propri concittadini, come aveva fatto Temistocle, ma per il bene della patria contro un comune nemico. Pensando che Farnabazo più di chiunque altro gli avrebbe potuto rendere agevole e sicuro il viaggio, Alcibiade si recò da lui in Frigia e ivi dimorò, rendendogli e ricevendone onore.
XXXVIII 1 Gli Ateniesi mal sopportavano di avere perduto l'egemonia. Ma solo dopo che Lisandro li privò anche della libertà, consegnando la città ai Trenta, capirono il disastro avvenuto, come avrebbero dovuto ragionare quando ancora potevano salvarsi: passavano in rassegna con dolore gli errori e le follie commessi, ritenendo il secondo scoppio d'ira contro Alcibiade la loro peggiore pazzia. 2 Lo avevano cacciato non per una sua specifica colpa, ma perché erano irritati contro un suo subalterno che vergognosamente aveva perso poche navi; e così, ancora più vergognosamente, si erano privati dello stratego ateniese più valoroso e abile in guerra. Tuttavia, anche se la situazione era grave, affiorava una vaga speranza che tutto non fosse ancora completamente perduto per gli Ateniesi finché esisteva Alcibiade: «Già prima, infatti, quando era in esilio, non aveva accettato di viversene in ozio e tranquillo; e ora, se disponeva di mezzi sufficienti, non avrebbe permesso agli Spartani di imperversare, né ai Trenta di infierire contro la città».
3 D'altra parte, non era poi così irragionevole che il popolo si cullasse questi sogni, visto che persino i Trenta erano impensieriti da Alcibiade e si informavano e valutavano attentamente ciò che faceva o progettava. Alla fine, Crizia cercò di spiegare a Lisandro che finché in Atene reggeva la democrazia, gli Spartani non avrebbero potuto dominare la Grecia, 4 e che Alcibiade, anche se gli Ateniesi avessero accettato bellamente e benevolmente il regime oligarchico, non li avrebbe lasciati tranquilli in tale situazione, finché era vivo. Dapprima Lisandro non fu persuaso da simili ragionamenti; poi, però, gli giunse da parte delle autorità spartane una scitala, che gli ordinava di sbarazzarsi di Alcibiade, o perché anch'esse ne temevano l'acutezza e l'intraprendenza, o perché intendevano far cosa gradita ad Agide.
XXXIX 1 Quando Lisandro trasmise a Farnabazo l'ordine di uccidere Alcibiade, questi affidò l'incarico al fratello Mageo e allo zio Susamitre. A quei tempi Alcibiade abitava in un villaggio della Frigia in compagnia dell'etera Timandra. Durante il sonno ebbe la seguente visione: 2 gli parve di indossare le vesti della fanciulla, mentre questa, tenendogli la testa tra le braccia, gli truccava, come a una donna, il viso con belletto e cosmetici. Secondo altri, invece, mentre dormiva, vide Mageo che gli tagliava la testa e dava fuoco al suo corpo. In un caso e nell'altro, si dice che egli ebbe questo sogno poco prima di morire. I sicari mandati per ucciderlo non osarono entrare in casa sua, ma, dopo averla circondata, la incendiarono. 3 Appena Alcibiade se ne accorse, raccolse il maggior numero possibile di abiti e coperte e li gettò sul fuoco; si avvolse intorno alla mano sinistra la clamide e, brandendo il pugnale con la destra, balzò illeso oltre le fiamme prima che i suoi vestiti bruciassero. Quando i barbari lo videro, si sparpagliarono qua e là. Nessuno ebbe il coraggio di attenderlo a piè fermo o di affrontarlo, ma, da lontano, lo bersagliavano con giavellotti e frecce. 4 Alcibiade alla fine cadde a terra morto e i barbari se ne andarono. Allora Timandra portò via il corpo, lo avvolse e lo coprì con le proprie tuniche e, per quanto poteva, gli diede una splendida, magnifica sepoltura. Narrano che figlia di Timandra fosse Laide, detta la Corinzia, ma nata ad Iccara, una piccola città della Sicilia e caduta prigioniera degli Ateniesi. 5 Alcuni storici concordano in tutto il resto con quanto ho scritto sulla morte di Alcibiade: ma non ne attribuiscono la responsabilità a Farnabazo, né a Lisandro o agli Spartani, bensì allo stesso Alcibiade. Egli avrebbe sedotto una giovane di buona famiglia e la teneva con sé: ma i fratelli di lei, incapaci di tollerare una simile violenza, avrebbero appiccato il fuoco di notte alla casa dove Alcibiade viveva, e lo avrebbero abbattuto, come si è detto, mentre si precipitava fuori dalle fiamme.
PARAGONE
I 1 Esposte dunque le azioni da noi ritenute degne di menzione e memoria, si vedrà che le loro carriere militari non fanno inclinare pesantemente il piatto della bilancia a favore dell'uno o dell'altro. Parimenti infatti entrambi diedero molte dimostrazioni di coraggio e ardimento come soldati e di abilità e lungimiranza come comandanti, 2 a meno che uno non voglia riconoscere in Alcibiade uno stratego più completo, perché continuò a riportare successi e vittorie in molti scontri per terra e per mare. È evidente che ognuno dei due quando era in patria al comando diresse bene il suo paese, ma una volta passato al nemico lo danneggiò in maniera ancor più manifesta. 3 Nella vita politica se l'impudenza eccessiva, la macchia della dissolutezza, la ciarlataneria mostrate da Alcibiade nel tentativo di conquistarsi il favore delle masse riuscirono odiose alle persone assennate, i tratti sgarbati di Marcio, la sua superbia e l'atteggiamento oligarchico gli inimicarono il popolo romano. 4 Nessuno dei due contegni è da lodarsi, anche se chi cerca di conquistarsi il favore del popolo è meno biasimevole di chi copre le masse di insulti per non dare l'impressione di cercarne l'approvazione. Perché è una vergogna adulare il popolo per ottenere potere; ma ottenerlo ricorrendo a terrore, violenza e oppressione non è solo una vergogna, è anche un'ingiustizia.
II 1 Inoltre, che Marcio fosse ritenuto una persona semplice e retta, mentre Alcibiade era considerato astuto e mentitore nelle questioni politiche, non è cosa ignota. Viene soprattutto accusato per la perfidia e il raggiro con cui ingannò gli ambasciatori spartani, come racconta Tucidide, ponendo fine alla pace. 2 Ma questa sua politica, anche se gettò nuovamente la città in guerra, la rese forte e temibile, una volta ottenuta l'alleanza di Mantinea e Argo grazie ad Alcibiade. D'altro canto Marcio stesso ricorse all'inganno per coinvolgere i Romani e i Volsci in una guerra, quando sparse false accuse contro gli spettatori venuti ai giochi, come racconta Dionigi; e il motivo della sua azione la rende più meschina. 3 Non era infatti spinto dal desiderio di vittoria, né da una competizione nella battaglia politica, come Alcibiade, ma diede spazio all'ira, da cui, come dice Dione, nessuno ricava soddisfazione, gettò molti territori italici nel caos e sacrificò inutilmente molte città innocenti alla propria collera contro la patria. Certo, anche Alcibiade causò grandi calamità ai suoi concittadini per colpa dell'ira. 4 Ma non appena si accorse che si erano pentiti, mostrò retto sentire, e dopo che venne di nuovo esiliato, non esultò per gli sbagli degli strateghi, né passò sopra ai loro piani ostili e pericolosi, ma tenne la stessa e molto elogiata condotta di Aristide nei confronti di Temistocle: si recò dai capi allora in carica, sebbene non fossero suoi amici, e spiegò loro cosa fosse necessario fare. 5 Marcio, invece, in primo luogo recò danno all'intera città anche se non aveva subito torti dall'intera città, in quanto i più nobili e potenti sentivano proprie le offese e i dolori inflitti a Coriolano. E in seguito non si lasciò commuovere né piegare dalle molte ambascerie e suppliche che cercavano unicamente di guarirlo dalla sua ira e follia, dimostrando così di aver intrapreso una guerra feroce e implacabile per distruggere e rovesciare la patria, e non per recuperarla e rientrarvi. 6 In questo senso si può dire che esista una differenza: Alcibiade ripassò dalla parte degli Ateniesi per paura e odio nei confronti degli Spartani che stavano tramando contro di lui, mentre fu ignobile da parte di Marcio lasciare in difficoltà i Volsci che lo avevano trattato con grande lealtà. Lo avevano infatti nominato loro comandante, 7 e godeva di grande fiducia e autorità, non come Alcibia-de, che, usato più che utilizzato dagli Spartani, vagabondava per la città e veniva sballottato avanti e indietro per l'accampamento, finché si gettò nelle braccia di Tissaferne, a meno che, per Zeus, non l'avesse corteggiato per tutto il tempo per evitare che Atene, dove agognava di tornare, venisse distrutta.
III 1 Inoltre, per quanto riguarda i denari si racconta di regalie che Alcibiade spesso accettò poco onorevolmente e dissipò in dissolutezze ed eccessi. Marcio invece non si lasciò convincere nemmeno ad accettare ciò che gli offrivano in segno di onore i suoi comandanti. E per questa ragione fu inviso alle masse nello scontro col popolo sui debiti, perché secondo loro angariava i poveri non a fini di lucro, ma per insolenza e disprezzo.
2 Antipatro, in una lettera scritta sulla morte di Aristotele il filosofo, dice: «Tra le altre qualità, aveva anche quella della persuasione»; l'assenza di questa dote in Marcio rese le sue azioni e virtù odiose proprio a coloro che ne traevano beneficio, perché non riuscivano a sopportare la boria e la caparbietà che è, per dirla con Platone, «compagna della solitudine». Al contrario Alcibiade sapeva come trattare cordialmente coloro che lo incontravano, e non c'è da stupirsi che nei momenti di successo la sua fama fiorisse lieta tra cordialità e onori, dato che persino negli errori da lui commessi a volte vi era una certa grazia ed eleganza. 3 Ecco perché nonostante avesse non poco e non di rado arrecato danno alla città, venne lo stesso nominato più volte comandante e stratego, mentre Marcio, quando si presentò candidato per una carica che gli spettava per le sue molte imprese e atti di valore, fu sconfitto. Così i cittadini non riuscivano a odiare l'uno quando faceva loro del male, e non arrivavano ad amare l'altro nonostante lo ammirassero.
IV 1 Marcio infatti come stratego non ottenne grandi successi per la sua patria, ma per i nemici contro la sua patria, mentre gli Ateniesi trassero spesso vantaggio da Alcibiade sia come soldato che come stratego. Quando era a Atene dominava gli avversari come voleva; solo durante la sua assenza prevalsero le calunnie. 2 Marcio invece era con i Romani quando lo condannarono e con i Volsci quando lo uccisero. Furono azioni né legali né pie, ma il suo comportamento ne offrì la giustificazione, poiché non accettò i termini di pace offertigli pubblicamente e, implorato in sede privata dalle donne, non pose fine alle ostilità, ma lasciò che la guerra continuasse, e perse e gettò via la sua grande occasione. 3 Avrebbe dovuto persuadere coloro che avevano riposto in lui fiducia, prima di ritirarsi, se avesse tenuto in alto conto la giustizia nei loro confronti. Se invece non gliene importava niente dei Volsci, ma aveva mosso guerra solo per soddisfare la propria ira, e poi l'aveva bruscamente interrotta, si sarebbe comportato correttamente non a risparmiare la patria per salvare la madre, ma a salvare la madre insieme alla patria: dato che la madre e la moglie erano una parte della patria che aveva assediato. 4 Ma dopo aver trattato duramente le suppliche pubbliche, le implorazioni degli ambasciatori e le preghiere dei sacerdoti, ritirarsi per compiacere la madre non era tanto un onore per quella madre, quanto un disonore per la patria, salvata grazie alla pietosa intercessione di una sola donna, come se non fosse degna di essere salvata per se stessa. Certamente quella grazia fu odiosa e crudele e antipatica nonché scorretta per ambe le parti: Marcio, infatti, si ritirò senza venir persuaso dai nemici e senza persuadere i compagni d'armi.
5 Causa di tutto ciò era il suo carattere antisociale, la grande arroganza e caparbietà, che di per sé è odiosa ai più, e quando si combina con l'ambizione diventa più che mai feroce e inesorabile. Tali uomini non cercano di farsi amica la massa, come se non volessero gli onori, ma poi soffrono se non ne ricevono. Certo Metello e Aristide e Epaminonda non furono inclini ad adulare o a importunare il popolo, 6 ma grazie al genuino disprezzo di ciò che il popolo è padrone di dare e togliere, ostracizzati, battuti alle elezioni e condannati in tribunale varie volte, non se la presero con i loro compatrioti che si comportavano male, ma tornarono a amarli una volta pentiti e accettarono la riconciliazione quando venne richiesta. Chi meno cerca il favore della massa dovrebbe essere meno vendicativo nei suoi confronti, dato che il grande patimento a non ricevere onori dovrebbe nascere in chi li cerca disperatamente.
V 1 Alcibiade non negava certo di rallegrarsi nel ricevere onori e di soffrire ad essere ignorato, e pertanto cercò di riuscire simpatico e gradito a chi gli stava accanto. Ma la superbia di Marcio gli impediva di cercare i favori di coloro che potevano onorarlo e glorificarlo, mentre la sua ambizione lo riempiva di rabbia e di dolore quando veniva negletto. 2 Ecco gli aspetti da biasimare in quest'uomo: gli altri sono tutti magnifici. Per la sua temperanza e superiorità di fronte al denaro è degno di venir paragonato ai migliori e più onesti dei Greci e non ad Alcibiade, per Zeus, che in questo senso era l'individuo più tracotante e il più sprezzante dei doveri dell'onore.
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