La polemica che occupa il centro dello spirito alfieriano è
empiricamente duplice, sostanzialmente una e colpisce
contemporaneamente il dogmatismo cattolico e l'assolutismo
monarchico.
Occorre distinguere nel pensiero alfieriano la critica al
cattolicismo dalla critica alla religione: posta questa
legittima e necessaria distinzione, la polemica alfieriana è
tutta coerente e chiara; le poche contraddizioni che non si
aboliscono per questa via si giustificano come frammentarie
digressioni suggerite da motivi artistici: il famoso sonetto
«Alto, devoto, mistico, ingegnoso» che muove da alcuni veri e
propri concetti religiosi dell'Alfieri, degni di speciale
discussione, rappresenta poi nei suoi accenti più
cattolicamente ortodossi il risultato di un episodio di
seduzione esercitata da un misticismo estetizzante del culto.
E non è problema che qui importi discutere, ossia non rientra
in sede di teoria della religione l'atteggiamento pratico
attenuato e conciliante che egli assunse durante la
Rivoluzione francese verso persone e cose del culto: che per
reazione all'ottusa antireligioneria gallica egli sia stato
tratto a considerare i Papi, e insieme i Re, quali parapeggio:
questo è problema di empirismo storico che si deve discutere
solo quando si voglia tessere la cronaca o la biografia
esterna dell'Alfieri.
Il documento più importante del pensiero alfieriano sul
cattolicismo è il capitolo VIII del libro I Della Tírannide
che nel suo significato centrale racchiude la negazione della
vecchia ontologia.
Critica il monoteismo con criteri politici esclusivistici e
limitati, ma contemporaneamente affaccia la distinzione tra
cattolicismo e cristianesimo, distinzione profondamente
romantica e filosoficamente notevole per la sua immediata
fecondità ideale; è quasi l'implicito riconoscimento del
valore etico dell'atto che dà vita alla creazione religiosa e
nell'Alfieri, contemporaneo agli enciclopedisti e ai
catechisti laici, dimostra una singolare inquietudine
spirituale e una profonda coscienza dei massimi problemi...
I paladini francesi dell'incredulità avevano volte le loro
critiche e i loro sarcasmi all'ingenuità superstiziosa delle
credenze popolari: con ciò avevano creduto di stroncare
religione e cattolicismo. L'Alfieri aveva accolto nella
giovinezza, respirandoli col sensismo ch'era nell'aria, alcuni
di siffatti motivi, ma rimase così lontano dallo spirito degli
enciclopedisti (ritenuti sue fonti dal pregiudizio corrente)
che invece dei germi dell'astratta critica intellettualistica
e delle sottigliezze razionaliste ha svolto dalle sue premesse
una concezione integrale e unitaria della realtà.
La sua critica al cattolicismo significa perciò critica al
dogmatismo sterile, che si è sostituito alla esperienza
religiosa, condanna della fede divenuta convenzionalità, della
morale irrigidita nella precettistica, dello spirito
falsificato nello schema.
Nel suo ardore libertario la lotta contro il dogmatismo
cattolico è lotta contro il Medio Evo, ossia contro una
tradizione esausta che è presente solo per soggiogare le menti
con un esempio diseducatore di passività.
La sua negazione si rivolge contro la Chiesa, non contro lo
spirito religioso e muove sostanzialmente da un'intima
religiosità, superiore al principio criticato.
Nella storia delle affermazioni teoriche dell'irreducibile
contrasto tra la Chiesa e lo Stato nazionale, dal Machiavelli
al Vaticano e lo Stato di G.M. Bertini, l'Alfieri si inserisce
con piena coscienza attingendo ai motivi di speculazione più
concreti.
Il Papa, l'inquisizione, il purgatorio, la confessione, il
celibato: ecco le basi antiumane che costituiscono il
cattolicismo e che bisogna demolire. Esaminiamo partitamente
la dimostrazione alfieriana dell'inaccettabilità di questi
concetti e di questi istituti...
Nella negazione del Papa è implicita la negazione del dominio
temporale, come risulta da questo epigramma:
Sia pace ai frati,
Purché sfratati; E pace ai preti,
Ma pochi e queti, Cardinalume
Non tolga lume,
Il maggior prete
Torni alla rete.
Il papa è papa e re
Dessi aborrir per tre. |
I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere
esservi un uomo «che rappresenti immediatamente Dio; un uomo
che non possa errar mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della
libertà e il timore, non potendo essere ispirato dalle
scomuniche, attesta chiaramente che dove è il pensiero del
Pontefice, là è il tiranno, dove vi è dommatismo religioso, là
vi sono spade a sostenerlo». Mentre le credenze meramente
astratte e prive di pratica influenza (come la Trinità) sono
da ritenersi poco nocive anche se irrazionali, «l'autorità
illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro
ammanto della religione importa molte e notabili conseguenze;
tali insomma che ogni popolo, che crede o ammette una tale
autorità si rende schiavo per sempre». E per mettere bene in
luce l'immoralità della credenza l'Alfieri disegna minutamente
il processo antieducativo attraverso cui essa si sviluppa
nella sua piena logica. Un popolo sano e libero che accetti la
credenza nella infallibile e illimitata autorità del Papa «è
già interamente disposto a credere in un Tiranno, che con
maggiori forze affettive, e avvalorate dal suffragio e
scomuniche di quel Papa stesso, lo persuaderà o sforzerà ad
obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce
al solo Papa nelle religiose».
Il cattolicismo comincia con una rinuncia alla dignità umana e
contraddice ogni giusta preparazione all'autonomia dello
spirito: ché, se anche la fede venga meno nell'individuo, egli
è per questo «tormentato, perseguitato, sforzato da una forza
superiore effettiva». Così, «quella prima generazione d'uomini
crederà nel Papa per timore». Ogni sforzo operoso si spegne
per ineluttabile logica sotto la costrizione dell'abitudine,
ogni spiritualità si irrigidisce. I figli crederanno nel
Pontefice per «abitudine»; i nipoti per «stupidità». La
conclusione del ragionamento appare, attraverso la commozione,
impassibile e tragica: fredda verità ineluttabile, angosciosa
condanna che stronca ogni velleità. «Ecco in qual guisa un
popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del
Papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo
e stupidissimo». Ma oggi i più in Europa ammettono tale
autorità senza crederla, e di qui l'Alfieri trae argomento a
sperare che non possa essere ormai gran fatto durevole poiché
la forza intrinseca di tali vecchi principi è ormai tramontata
e si sostengono al presente solo per opera del Tiranno.
«Dove ci è il cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni
istante l'inquisizione» .
«La inquisizione, quel tribunale sì iniquo di cui basta il
nome per far raccapricciare» .
«Autorità dei preti e dei frati, vale a dire della classe più
crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più
codarda a un tempo».
Senza pregiudizi di cattolico liberale in anticipo (benché il
cattolicismo liberale fosse ormai nell'aria) l'Alfieri afferra
la rigida connessione logica e pratica che fa coesistere
nell'unità del sistema generale tutti i termini e gli elementi
della teoria e della praxis cattolica. La sua critica
presuppone la rigorosa coerenza del principio contro cui si
esercita. La complicità di inquisizione e tirannide diventa
nell'inesorabile polemica alfieriana il nuovo aspetto e
l'evidente chiarimento della premessa ideale che aveva
rivelato la sostanza dogmatica e tirannica del principio
cattolico. La conclusione si esprime ancora una volta nel
ritornello «non vi può dunque essere a un tempo stesso un
popolo cattolico veramente e un popolo libero». |