CINQUECENTO MINORE

  • L'ARETINO SCRITTORE
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    Autore: Pietro Pancrazi Tratto da: Nel giardino di Candido


         

    C'è tanto dell'Aretino per queste terre d'Arezzo. È vero ch'egli, figlio d'un Luca calzolaio e d'una Tita, se n'era partito di qui ancora ragazzotto; e fu prima a Perugia a studiare per pittore, poi a Roma a imparar la malizia, e infine si fermò a Venezia a mettere in pratica l'imparato e a fare e scrivere tutte le birbanterie che scrisse e fece. Ma quanto d'Arezzo e della natura e delle terre intorno, gli restò negli occhi o nel cuore! Tanto che, a ricordar lui, posso ora prendere un libro dallo scaffale, oppure dalla finestra guardare per la costa i campetti leggieri sui muriccioli, e più su i cipressi e più su la croce...

    La casetta, appunto, e l'orto del romito. « Antonia: Coin'era fatto l'ermo? Nanna: Egli si stava suso uno monticello rilevato, e gli aveva posto nome il Calvario; in mezzo del quale era un crocione con tre chiodacci di legname che impaurivano le donnicciuole, e detta croce tenea al collo la corona di spine, e ne le braccia due sferze pendenti, di corda annodate, e nel piede una testa di morto e da un lato fitta in terra la spugna sopra la canna, e dall'altro un ferro di chiaverina rugginosa in cima di un'asta di partigiana vecchia. Dove il monte si sedeva era un orticello al quale i rosai facevano muricciuolo, che aveva la porticella di verghe di salci intrecciate, con la sua chiave di legno, ed in tutto un dì non so se si saria nel suo seno trovato un sassolino, sì bene lo tenea mondo il romito. I quadretti dello orto divisi da alcune belle viette erano pieni di varie erbe, qua lattuche crespe e sode, là pimpinelle fresche e tenere; alcuni erano di aglietti, che il compasso non ne potria né levare né porre; altri de' più bei cavoli del mondo. La nepitella, la menta, lo aneto, la magiorana e 'l prezzemolo aveano anche loro il luogo suo nel giardinetto, in mezzo del quale faceva ombra un mandorlo di quelle grandi senza pelo. E per alcuni viottoli correva acqua chiara... E tutto il tempo che il romito rubava alle orazioni, spendea in nutrire l'orticello. Poco lungi da esso sta la chiesetta, col suo campanile di due campanelline, e la capanna attaccata al muro della chiesa, dove riposava. In questo paradisetto venia la Dottora... ».

    Che cosa accadesse poi lì alla moglie del Dottore, non starò a dire... Ma quell'eremo, quell'orto, non è genericamente Toscana, e non è neppure Arezzo qua e là; (per chi conosce) quello, alle porte d'Arezzo,, è proprio il Casentino. E se ne può dedurre qualcosa o molto sull'Aretino: quell'appetitoso vedere, quelle parole esatte e fresche sulle cose come una buccia, e l'attardarsi minuto e ghiotto nel disegno che non ne scappi nulla, e una certa come allegrezza su tutto, è l'Aretino migliore.

    Volto pagina, oppure esco d'Arezzo per un'altra porta verso Cortona: « Una volpe delle volpi avendo voglia di mangiare una scorpacciata di pesce se ne andò al lago di Perugia con la maggior ladroncelleria, che si immaginasse mai ladro, e stata così un pezzo a pensare sopra uri greppo con la coda in pace, con quel suo muso aguzzo in fuori e con le orecchie tese, vede venire di pian passo una frotta di mulattieri i quali chiaccheravano mentre i muli infilzati tutti ad una fune rodevano una manciata di paglia postagli in quella baia che portano intorno alla bocca... ». L'Aretino non vi fa a freddo la favola, sulla solita furbizia della volpe, non vi parla della volpe in genere come sogliono i favolisti, ma vi descrive e vi dice proprio di una sua volpe, - d'una volpe, voglio dire, che lui ha visto e che, mentre scrive, seguita a vedere, e che è una volpe e non la volpe... E quando poi, fatto il colpo, la volpe scappa a pancia piena gabbando i mulattieri, sembra che l'Aretino corra via con lei, e si volti tratto tratto, contento, a deridere i canzonati.

    Questa naturalità, quando poi trapassa dall'immagine nel discorso logico, diventa il modo franco, il tagliar corto, insomma il piglio dell'Aretino: scrittore estemporaneo, incolto, egli trova in quella vibrazione la disciplina artistica (il ritmo e il limite), che fuori di lì non ha. Fuori di certi toni, l'Aretino è scrittore quasi insopportabile. Ed è vero che i suoi toni sani stanno al servigio d'una maldicenza quasi mostruosa (« dire male è dire bene » fu il suo motto), o d'una oscenità anche abnorme. È vero, ma non sempre vero.
    Talvolta, quel più naturale Aretino viene e resta in lui in primo piano. Con un po' d'industria, da tutta l'opera sua, ma specie dalle Lettere, si potrebbe cavare un trattatello del vivere sereno. Quella a Sebastiano del Piombo, dove gli dice la gioia d'aver avuto una figliolina (« in quel punto sentii tutte le dolcezze del sangue »), è la più nota; ma altre ce n'è che ritrattano un Aretino savio, e fedele, anche nel fasto, ad una sua rusticità. Meglio il verno che l'estate: « Il verno mi pare uno abbate, che galleggia a sommo nel commodo degli agi..., la state è simile a una meretrice ricca e nobile che svogliata si gitta là... E altro cicalamento si fa intorno ad un buon fuoco, che a l'ombra d'un bel faggio: Perché mille cortigianerie appetisce l'ombra: ella vole il canto degli uccelli, il mormorio dell'acque, il respirar del vento, la freschezza de l'erbe e simili ciancette: ma quattro legne secche hanno tutte le circunstanze che bisognano nel chiaccherare di quattro o cinque ore con le castagne sul tondo e il vin tra le gambe. Sì che amiamo il verno, primavera degli ingegni ». Che bello scrivere!
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis