CRITICA: GABRIELE D'ANNUNZIO

 LO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA DANNUNZIANA

 AUTORE: Attilio Momigliano         TRATTO DA: Ultimi studi

 

L'opera di D'Annunzio si può studiare sotto i tre aspetti: il fondo programmatico, i legami con le correnti letterarie europee, il motivo vitale. L'ultimo si presenta isolato soltanto nelle liriche migliori, in una parte della Figlia di Jorio e, s'intende, nelle pagine antologiche dei romanzi e delle memorie. Credo che il rivolgere contemporaneamente l'attenzione ai tre aspetti abbia impedito di vedere limpidamente la vera ispirazione della lirica di D'Annunzio.
Si è parlato spesso delle sue pretese magiche e mistiche, e si sono messe accanto alle scorie niciane. Ma proprio da quelle pretese si deve partire per trovar l'anima della sua lirica e per vedere come essa si sia lentamente illuminata, dal Canto novo all'Alcione.
D'Annunzio ha meditato spesso sulla sua tecnica e sul suo gusto di poeta, ed è fra gli scrittori italiani uno dei pochissimi che abbiano attentamente studiato la psicologia dell'ispirazione. Il segreto della sua poetica e della sua arte è nelle sue magiche designazioni della poesia e nella descrizione dei momenti dell'ispirazione; e sopra tutto in alcune note sparse di Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto. Il primo capitolo ritrae con una febbrile leggerezza il poeta curvo nella notte sopra la sua pagina, e si suggella con le parole «in quest'ora il mio genio è la mia solitaria fosforescenza». Le note che seguono qua e là attraverso il libro, insistono a precisare questa intuizione dell'estro come fascinazione e come sforzo per rimanere e sprofondarsi nel cerchio della fascinazione. La poesia è per D'Annunzio una «potenza rivelatrice» che «trasfigura» lo spirito «per innumerevoli contatti con gli altri spiriti e col mistero circostante», una forma di magia consapevole, una sublime tensione per immergersi nell'arcano e trarlo alla riva con l'aiuto della parola: «la scrittura continua l'opera di creazione e dà forma al mistero estraendolo dalla tenebra per esporlo alla luce piena». E altrove più esplicitamente: «A Eleusi in un meriggio d'estate appresi da una pietra che secondo una essenzial legge dello Spirito, l'arte stessa può divenire esotèrica». Di qui la sua concezione ermetica del ritmo: «Il ritmo - nel senso di moto creatore, ch'io gli dò - nasce di là dall'intelletto, sorge da quella nostra profondità segreta che noi non possiamo né determinare né signoreggiare»; e il valore che hanno per lui le pause nella poesia:

«Le più arcane comunanze dell'anima con le cose non possono essere colte, fino a oggi, se non nelle pause; che sono le parole del silenzio».

D'Annunzio ebbe una chiara consapevolezza della sua vera arte «Pur nella più tenue e nella più potente ode di Alcyone, non è tanto mistero quanto nei numeri della mia prosa recente; ove (si badi bene a questa affermazione) ove io aduno gli arcani della Magìa e quelli della Poesia non dissimili». La mèta ultima a cui egli tendeva nelle pagine di vera poesia, era un estremo assottigliamento della parola, alleggerita fino quasi ad essere inafferrabile come l'aria e come l'arcano che giace sotto le apparenze delle cose. « Talvolta », dice ancora in quel libro, «la poesia è trasmessa da una specie di sostanza senza sostanza, di materia spogliata di ogni qualità e servigio».
Per capire D'Annunzio poeta non dobbiamo ascoltarlo quando leva oratoriamente la voce, ma quando la spegne e quasi l'ascolta dentro se stesso. Scrive ancora in quel libro: «Nell'aprire i vetri per dar respiro e frescura alla malinconia giacente, scorgo la luna logora che sfiora la nuca della collina solinga. M'indugio su l'omero della poesia». «M'indugio su l'omero della poesia»: è proprio questo l'atteggiamento dei più bei momenti di Alcyone, quello che si viene via via delineando dal primo all'ultimo volume di poesia di D'Annunzio.
Io parlo della lirica, e dovrei parlare di tutta l'opera di D'Annunzio, perché la sua linea di svolgimento è una, e anche le pagine di prosa belle sono regolate da un ritmo manifesto, é tutte tendono, più o meno risolutamente, all'indefinito e al magico. Tutte, sia che descrivano gli idolatri che vendicano l'insulto al loro santo, o lo strazio crescente e ossessionante di Gialluca, o le fiamme che investono - splendide, avvolgenti e terribili - il palazzo del duca d'Ofena, o la fiumana di malati e di deformi che sale ebbra di superstizione e di fede verso il santuario di Casalbordino, o la fontana muta che riacquista la sua molteplice voce, o l'usignuolo dell'Innocente, o Roma incantata sotto la neve e sotto la luna, o le ville abbandonate del Brenta - con le quali non meno che con il citatissimo Poema paradisiaco il poeta ha precorso i crepuscolari -, o gli aspetti malinconici o cadenti di Venezia, o lo smarrimento nel labirinto, o il cielo, le allodole e le alghe di San Francesco del deserto, o il vespro fra l'Anguillara e il fiume morto, sorridente come l'Elisio e malinconico come l'Ade, o i Mani i corsieri il cavaliere che nella figurazione sepolcrale etrusca sembrano fermi chi sa da quando sul limitare della morte, o gli oscuri e musicali fermenti dell'adolescenza, o le donne e i fanciulli che cantano - scorporati e rapiti -, o le donne dal fascino leonardesco e medusèo, tutte tolgono alle persone e alle cose i loro cortorni concreti. In certe prose e particolarmente in certe tragedie, il magismo è voluto, ostentato, scenografico - non in Aligi stregato che ha nella voce e nel volto l'ombra e l'eco della lontananza -: ma dovunque nella prosa bella di D'Annunzio c'è un alone magico, quello che più chiaramente, nel cerchio più ristretto della lirica, si può vedere nascere e diffondersi dal Canto novo ad Alcione.
La poesia di D'Annunzio è una depurazione del magismo e misticismo perverso del decadentismo europeo. Al di là della cupa e greve vegetazione mistica-sadica che è in parte. uno degli aspetti della sua ostentazione erudita, c'è una zona di limpido incanto. Dal romanzo di Andrea Sperelli all'Alcione la concezione dannunziana del piacere si viene sollevando verso una sfera più spirituale; il poeta delle terze laudi è un Andrea Sperelli redento, che non cerca più l'assoluto nella sensualità ma nella contemplazione e nell'ascoltazione.

D'Annunzio cominciò con un verismo già sfumato di musica; e sempre quando vi ritornò, il suo verismo parve quello di un antiverista. La sua natura lo spingeva ad evadere dalla realtà, a vivere in una stira d'incanto. Dalla zona del Verga egli tendeva a quella opposta di Fogazzaro, Grazia Deledda, Pascoli, Cecchi: artisti diversissinii da lui, ma tutti, in vario snodo e misura, attratti da quello che si nasconde sotto le apparenze della vita. Pascoli ha il senso problematico del mistero, Fogazzaro fantastica sull'animazione occulta della natura, la Deledda migliore si aggira in un'atmosfera isolante e pensosa che accomuna il paesaggio alle correnti profonde della vita della coscienza: tre scrittori in cui l'aura irreale esprime la preoccupazione spirituale, Cecchi è diverso, è più vicino a D'Annunzio: libero da problemi morali, egli si fissa sulle cose fino a dar loro una nitidezza intagliata e ferma che sa di sortilegio. Deve scrivere in uno stato d'animo simile a quello di D'Annunzio: ma con un risultato diverso: egli lascia insieme un'impressione di evidenza e di lontananza, di incisione e di musica; D'Annunzio fissa le cose per assorbirle, per farle svaporare in musica e in rapimento.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis