DANTE ALIGHIERI

  • IL LINGUAGGIO DI DANTE
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    Autore: Gianvincenzo Gravina Tratto da: Della ragion poetica, in Prose

     
         

    Nell'origin sua la poesia é la scienza delle umane e divine cose, convertita in immagine fantastica ed armoniosa.
    La quale immagine noi, sopra ogn'altro poema italiano ravvisiamo vivamente nella Divina Commedia di Dante, il quale s'innalzò al sommo nell'esprimere, ed alla maggior vivezza pervenne, perché più largamente e più profondamente d'ogn'altro nella nostra lingua concepiva: essendo la locuzione immagine dell'intelligenza, da cui il favellare trae la forza e il calore. E giunse egli a sì alto segno d'intendere e profferire, perché dedusse la sua scienza dalla cognizione delle cose divine, in cui le naturali, e le umane e civili, come in terso cristallo, riflettono...

    Considerata la lingua del poeta, e quel che ha comune con gli altri nel fraseggiare, degna è di special riflessione la foggia del fraseggiar particolare, dalla comune degl'italiani poeti distinta. Questa egli trasse non solo dall'imitazione de' Greci, e de' Latini ai Greci più simiglianti, ma spezialmente dagli Ebrei e da' profeti; a cui, siccome simile nella materia e nella fantasia, così volle ancor nella favella andar vicino. Lungo sarebbe rincontrare i luoghi tutti alla poetica frase corrispondenti, de' quali è il suo poema non solo sparso, ma strettamente tessuto: come tela che si dilata e si spande dentro una fantasia commossa, se non da sopranaturale, pur da straordinario furore e quasi divino; il quale fervendo ne' sublimi poeti, acquistava loro appo i Gentili l'opinione di profezia, dalla quale traevano il nome. Oltre questa selva di locuzioni dal proprio fondo prodotte, vengono incontro molte, le quali egli ha voluto a bello studio nella nostra lingua trasportare, come, per tacer d'innumerabili, può in esempio addursi quella di Geremia: Ne taceat pupilla oculi tui; dal poeta imitata e trasferita nella descrizione di un luogo oscuro, dicendo:
     

    Mi ripingeva là, dove il Sol tace;


    ed altrove

     

    Venimmo in luogo d'ogni luce muto ».


    E siccome il parlar figurato e sublime de' profeti non tolse loro la libertà di usare il proprio, o d'esprimere con esso tanto le grandi quanto le umili e minute cose, quando il bisogno di loro veniva; così Dante volle le parole alle cose sottoporre, e queste, quantunque minime, si studiò co' proprii lor vocaboli d'esprimere, quando la ragione e la necessità ed il fine suo il richiedea; donde il suo poema divenne; per tutte le grandi, mediocri e picciole idee, di locuzioni, tanto figurate quanto proprie, abbondante e fecondo. E perché ambì egli per suoi ascoltanti solo gli studiosi, e non il volgo, al quale Omero volle anche farsi comune col sentimento esteriore, benché l'interiore a' soli saggi dirizzasse; quindi avviene che Dante, simile ad Omero con la vivezza della rappresentazione si è reso però dissimile collo stile suo contorto, acuto e penetrante; quando l'Omerico è aperto, ondeggiante e spazioso, qual convenne a chi dietro di sé tirar dovea l'applauso e gli onori di tutte le città di Grecia, dove la plebe, per la parte che avea nel governo civile, non era meno arbitra degli onori che gli ottimati. Per qual parte Dante rimane, se non d'altro, di felicità e di concorso, inferiore ad Omero: benché non si possa di oscurità riprendere chi non è oscuro se non a coloro co' quali non ha voluto favellare. Perciò non si è astenuto da' vocaboli proprii delle scienze, e di locuzioni astratte, come colui che ha voluto fabbricar poema più da scuola che da teatro.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis