DANTE ALIGHIERI

  • POESIA E FILOSOFIA NEL PARADISO
  •  
    Autore: Umberto Cosmo Tratto da: L'ultima ascesa

     
         

    Solo la filosofia poteva porgere a quella varietà e vastità di materia irrompente da tutte le parti il concetto sotto il quale raccogliersi e organarsi. Era un concetto che Dante aveva intraveduto fin dai primi anni dell'esilio tra l'infuriar della tempesta che lo aveva travolto. Gli uomini volgari rimangono sotto l'impressione del fatto solitario e maledicono e disperano: il sapiente si eleva dal fatto contingente all'universalità da cui i fatti dipendono e nella quale si ordinano. E in cotesto elevarsi ritrova la forza e la tranquillità dello spirito. Allora, meditando sui grandi fatti della storia, egli aveva compreso come la sua sventura non fosse se non una forma del generale disordine; e nel desiderio angoscioso della liberazione, nell'anelito struggente di un bene che fosse a tutti conforto dalle miserie in che tutti erano immersi, aveva sollevato il suo spirito alla contemplazione dei vasti problemi della creazione e della conservazione del mondo. Dionigi e Agostino lo avevano avvalorato a intendere Tommaso, e la scienza del filosofo si era organata nel suo cervello in una sintesi potente di poesia. La fantasia animava l'intelletto, e in quella poetica teologia egli aveva visto, dalla forma più eccelsa e più vicina a Dio fino alla potenza più umile e più prossima al nulla, dal serafino alla materia, aveva visto un irradiarsi di tutto il creato dall'infinito verso il finito, per ritornare da questo all'infinito. Quell'esodo, quel ritorno, la natura e la storia erano divenute una teofania, anzi la manifestazione più eccelsa e più mirabile della divinità. E l'ordine gli si era rivelato come la legge suprema, anzi la forma essenziale del creato.
    Nell'universalità di quel concetto, così astratto per un filosofo, così concreto e così plastico per lui, la sua fantasia si era accesa alle visioni che lo avevano sollevato alla creazione della Commedia. Rappresentare quell'ordine nella perfezione della sua attuazione era ora la necessità imprescindibile della sua arte; sorprendere quella forma in atto nella mente stessa di Dio era il sospiro della sua anima e la forza avvaloratrice del suo volo. La forma che si alzava a cercare in Dio non era soltanto la forma dell'universo, ove trovava unità la moltiplicità infinita dei creato, era il concetto stesso nel quale tendevano a organarsi gli elementi più svariati della materia costituitrice del suo poema. Ed egli sentiva quegli elementi fluire ora e raccogliersi di per se stessi in quel concetto come rivoli in un lago.
    Le prime parole del poema dicevano appunto la tendenza ormai irresistibile di quegli elementi a convergere verso quel concetto:

     

    La gloria di colui che tutto muove
    per l'universo penetra, e risplende
    in una parte più e meno altrove (I, 1-3)


    Pure risplende in tutte, perché ogni cosa, in quanto ha forma ed essere, partecipa in qualche modo di Dio, causa fontale di tutte le forme e di tutto l'essere. Rifulge nei cieli, che nella pienezza del loro atto, e pur nella sete inesausta di Dio, rotano eterni intorno a lui, mentre irraggiano sugli uomini le influenze che la Provvidenza divina ha determinato agli eterni suoi fini. Ed essi appunto i cieli il poeta faceva ora teatro della propria azione; e l'incontro che egli farebbe in essi con le anime scendenti a lui dall'empireo sarebbe la manifestazione visibile di quella legge universale. La gerarchia di merito e di felicità in che le anime si ordinano nell'empireo è in rapporto armonico con la serie gerarchica in cui esse si disposero amarono operarono lungo la via terrena. Secondo il vario grado di carità che le accese in questa, e per quella forza e con quella forza che le fece salire, le anime scenderanno dunque per la scala celeste a incontrare il pellegrino nel cielo che più le improntò della sua influenza. Filosofo, egli sapeva l'indefinibile varietà di atti che. nel mutar delle contingenze storiche, dei temperamenti umani e degli influssi celesti, possono essere accesi dalla medesima fiamma di carità; poeta profittava di codesta varietà per immaginar d'incontrare soltanto quei gruppi di beati, rappresentare quei modi di vivere, creare quei personaggi che meglio convenivano alla sua arte. Teologia e astrologia si fondevano nel crogiolo di quella fantasia a costruire l'ordinamento che doveva regolare la vita dell'empireo; Tommaso e Albumasar porgevano gli elementi di una costruzione che non era in alcun libro. Creazione originale di un poeta, che, pressato da una somma di necessità scientifiche morali artistiche, con la prepotenza del genio tutto fondeva nella pienezza della propria rappresentazione.
    Forte della sua teologia il pensatore credeva di riprodurre con la sua costruzione una realtà obiettiva; negli effetti mai come in quel momento l'uomo era la misura e la norma dell'universo. Ma appunto perciò quella costruzione portava in sé una forza lirica inesausta. Il pensiero di Dio che si manifesta nell'opera degli uomini intesa all'attuazione dei fini ab aeterno da lui formulati; il pensiero degli uomini che si alza dal contingente all'assoluto, e trova come prima verità e come ultimo fine Dio, storia e filosofia, si fondevano in quel concetto di ordine. Tutte le forme e tutto l'essere rientravano in esso; e la rappresentazione, per pallida gli riuscisse, accenderebbe nel cuore degli uomini il desiderio di attuare in sé le meraviglie di quell'ordine e il proposito di ridare alla storia la divinità del suo ritmo.
    Ma il poeta aveva troppa sicura coscienza dell'incrollabile fermezza di quel concetto a sorreggere il suo mondo, troppo sentiva l'ardore che da codesta certezza gli veniva a fondere i metalli più duri e più diversi in un'unica colata, perché potesse anche solo un momento pensare a inaridire l'inesauribilità di esso nelle secche di un trattato. Nessuna discussione sistematica adunque, ma a volta a volta presentarsi quel particolare aspetto del problema che serve a illuminare la situazione del momento; e più propriamente: servirsi degli elementi filosofici a dar la ragione dell'ordine, degli storici a mostrare ciò che nel passato aveva favorito o nel presente turbava l'attuazione di esso. Ma quale sia la discussione, risalire sempre dall'aspetto particolare alla suprema causa generatrice. E così avere sempre dinanzi Dio, meta ultima del viaggio, trascendenza infinita, ma attivo sempre nello spirito a esaltare l'uomo, sublimarlo sempre più. Ascesi di sapiente verso la fonte di ogni sapienza e di ogni verità, ma nel tempo stesso rappresentazione di poeta, dinanzi al quale le specie intelligibili rifulgono e si colorano come fantasmi, gli fanno vibrare tutte le corde dello spirito, lo trascinano alla celebrazione di ciò che ha scoperto e ora contempla rapito.
    Uno stato lirico per eccellenza, il quale non si poteva effondere che nel canto. E la parola si farà essa stessa canto, musica, a raccogliere come in un'immensa sinfonia, lì appunto sulla soglia del poema, tutti gli spunti di tutte le melodie che dovranno orchestrare, per dir così, l'infinito dell'opera; e lo spirito del poeta acquisterà nel progredire di quella prima celebrazione una vibrazione sempre più intensa per la coscienza sempre più piena del dominio suo assoluto su tutta quanta la propria materia...

    Attuare in se stesso la propria somiglianza con Dio non era per Dante soltanto il fine supremo dell'anima come cristiano, era l'imperiosa necessità per sollevare la propria espressione sino alla sublimità di quel mondo. Il suo spiritualizzarsi, il suo trascendere poteva parere al volgo una violazione della natura; in effetto non era se non un osservare nella sua pienezza la legge universa:


     

    Non dei più ammirar, se bene estimo,
    lo tuo salir, se non come d'un rivo
    se d'alto monte scende giuso ad imo.
    Maraviglia sarebbe in te, se privo
    d'impedimento, giù ti fossi assiso,
    come a terra quieto foco vivo (I, 136-42).


    Saliva egli insieme con la sua donna, attraverso gli spazi infiniti in una luce di sole sopraffiammante,

     

    . . . come quei che puote
    avesse il ciel d'un altro sole adorno (v. 63-64)


    La luce si dilatava dinanzi al suo occhio come acqua di lago, e attraverso alle correnti di luce egli volare, e volando parlare e ascoltar dalla sua guida risolti i problemi più ardui dello spirito. E intanto la ruota dei cieli risonare intorno con l'armonia che Dio stesso tempera e discerne; e « la novità del suono e il grande lume » (v. 82) accendere in lui il desiderio acutissimo del rendersi ragione del fatto, e Beatrice da ciò appunto pigliar le mosse al suo discorso, anzi al suo canto.
    Nessun poeta aveva per (innanzi preparato alla celebrazione della gloria di Dio tale ampiezza di sfondo, nessuno osato di piegare fino a tal punto il linguaggio della scienza a diventare canto. Ma solo in quel linguaggio la donna del suo intelletto poteva parlare di tali cose, perché filosofia, religione, poesia si fondevano nella potenza di quell'espressione.
     

     
         
    HOME PAGE
         
    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis