DANTE ALIGHIERI

  • LA POESIA DEL PARADISO: IL CANTO XV
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    Autore: Walter Binni Tratto da: Studi mediolatini e volgari

     
         

    Nel Paradiso i fondamentali temi poetici di Dante raggiungono la foro espressione più alta e profonda, la loro forma superiore ed epica, così come la sua arte, la sua parola poetica, le sue capacità costruttive e sinfoniche vi toccano il vertice delle loro possibilità. In questo regno di una tensione superiore che pur raggiunge la sua espressione compiuta e conclusa (la sua misura, non la smisuranza di Jacopone e il silenzio dei mistici), come i personaggi divengono piuttosto nuclei lirici, voci in cui la forza drammatica-plastica dell'Inferno si tramuta in caratterizzazioni più intime, non bisognose quasi di segni fisici, di rappresentazioni esterne e vivono intensamente nella evocazione delle loro storie esemplari e assolute, così i motivi più validi dell'animo e degli ideali danteschi raggiungono la loro espressione più sintetica, definitiva, purificata dai loro aspetti più contingenti e passionali in una forza di rappresentazione più intima e più serena, di fondamentale tono epico: evocazione e rappresentazione, non vaghe larve in un cielo di evasione mistica e ascetica che abolisca ogni aspetto e ricordo della terra o li riporti solo nelle immagini di paragone secondo la dubbia affermazione desanctisiana e crociana), le quali poi viceversa son sempre intonate a questa dimensione speciale di una realtà superiore in cui quella mondana ritorna sublimata e più pura con i suoi affetti, le sue aspirazioni fondamentali e con la fede spirituale e poetica di chi, come Dante, vuole una renovatio, una riforma del « mondo » e non un suo abbandono sdegnoso o elegiaco.
    Così avviene particolarmente per il tema civile e cittadino, per il tema della concreta patria terrena, Firenze, che, dopo le frequenti e frammentarie apparizioni nelle altre cantiche e specie nell'Inferno, in toni di invettiva, di nostalgia appassionata, in forma a volte di ira partigiana e più strettamente municipale, ritorna nel Paradiso e vi chiarisce definitivamente il suo rapporto con Dante, con la sua missione di poeta-profeta, con il significato del suo esilio, con il suo dolore di esule (su cui tanto giustamente insistè il Momigliano), con la sua fede nella stessa soluzione positiva e trionfale della sua vicenda terrena che egli vede poi nel canto XXV glorificata dalla corona poetica proprio nel « bello ovile » dove egli « dormì agnello » , sul « fonte » del suo « battesimo ». Nel Paradiso questa sua fede si precisa integralmente, il significato della sua vita e della sua opera si completa e si illumina e mentre le parziali, oscure profezie sul suo esilio si spiegano nella parola di Cacciaguida, perdono il loro carattere minaccioso e acquistano una luce di suprema certezza personale storica e divina, pur nel tormento di una vocazione di martirio intenso, ma ormai chiarito anch'esso nella sua superiore necessità, interamente rappresentato e non più solo ansiosamente sofferto come opprimente incubo, così coerentemente le allusioni inquietanti alla sua missione e al valore del suo viaggio ultraterreno, paragonato dal poeta all'inizio dell'Inferno con il viaggio di Enea e Paolo solo per mostrare la propria inadeguatezza alla funzione alta di quelle gloriose e sacre personalità, si cambiano nella nobilitazione e santificazione dei paragoni, espliciti o impliciti (autorizzati dalla voce del beato che vede nella mente di Dio) del poeta con Enea, con Cesare, e persino con Gesù. E ugualmente l'immagine di Firenze, prima tormentosa e passionale, si sdoppia nel contrasto di quella di un presente corrotto, e giudicato più con superiore e severo distacco che con iroso accanimento, e di quella di un passato e di uno sperato futuro di pace, nella cui rappresentazione epica e mitica (e assicurata in una storica realtà dalla testimonianza di uno dei suoi cittadini) le note più segrete dell'animo di Dante, la sua ricca, delicata e virile vita di sentimenti familiari e cittadini, la malinconia dell'esule privo di città e di casa, incerto della sua tomba, vibrano più intimamente e invece di espandersi in forme di struggente elegia o di idillio vagheggiato senza speranza, si traducono in un quadro poetico di straordinaria perfezione classica. E autobiografia si supera in assoluta poesia mercé l'essenziale mediazione della voce di Cacciaguida, voce-personaggio, vero e intero personaggio di Paradiso, tutto costruito su note intime, su coerenti componenti di qualità e di accenti: beato, cittadino della Firenze antica, morto combattendo per la fede, paterno vegliardo, ricco di una tensione di affetto e dotato di una superiore misura, che quella contiene e potenzia fino alla mitizzazione solenne, semplice e commossa della Firenze « sobria e pudica » in cui quella voce fonde più interamente gli elementi epici e sacri, la fermezza testimoniale e la vibrazione appassionata, che si erano venuti sviluppando nella elaborazione lenta e progressiva del personaggio e nella compatta integrale precisazione della scena e del colloquio con Dante.

    Quella rappresentazione della Firenze antica è certo il momento più alto, la meta suprema del canto XV, ma errerebbe chi volesse isolarlo antologicamente come lirica a sé, perché esso vive e si giustifica nella complessa unità dei canti di Cacciaguida e più immediatamente nel suo accordo con tutta la prima parte del canto XV, con il finale epico-storico della vicenda di Cacciaguida e della sua morte in battaglia, e presuppone insieme le particolari condizioni poetiche del Paradiso in cui solamente una simile rappresentazione poteva raggiungere la sua limpida potenza, la sua essenzialità e semplicità. Come d'altra parte tutti e tre i canti, posti non a caso nel centro della terza cantica, in una lunga sosta dell'ascesa paradisiaca (ma quell'ascesa continua nell'intimo, nel perfezionamento di quel grande tema e degli elementi danteschi che esso implica), non costituiscono, come spesso è stato detto, un semplice inserimento parentetico di temi mondani privati nella diversa poesia del Paradiso,. ma una sublimazione e una sintetica chiarificazione di questi nelle condizioni di quel regno e di quella poesia, la quale poi, dopo questo momento, in cui lo stesso significato dell'opera e della vita di Dante è definitivamente chiarito in termini assoluti, potrà riespandersi con nuovo slancio nella rappresentazione più diretta dell'ineffabile, dei misteri della fede, delle visioni paradisiache, senza con ciò perdere il centrale riferimento alla missione di Dante e a questo sviluppo di un tema fondamentale della Commedia, che qui, rivisto nel suo aspetto più alto ed intero, si ricollega chiaramente anche alla sua vita nelle altre cantiche.

    Valore centrale dei tre canti nel Paradiso, valore di potente equilibrio nel suo svolgimento, nell'accordo di uno sviluppo superiore del motivo civile-municipale e di quello della missione di Dante (i canti centrali del Paradiso rispondono ai canti centrali dell'Inferno dedicati a Firenze, il dialogo di Dante con Brunetto e con i fiorentini che « a ben far poser gl'ingegni », nonché ai canti purgatoriali di Guido del Duca e di Marco Lombardo, dell'esaltazione di un passato di valore e cortesia) proprio nel cielo di Marte e nel segno della croce dei combattenti per la fede: quel cielo di Marte di cui Dante nel Convivio (II, XIV) sottolineò il significato simbolico di centralità armonica, perché « annumerando i cieli mobili esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti », mentre accennando al suo significato di annunciatore di rivolgimenti politici e all'apparizione, in figura di una croce, « di una grande quantità di vapori dello cielo di Marte in Fiorenza nel principio della sua distruzione », Dante sembra in quel passo alludere ad una relazione presente anche nella genesi sentimentale e fantastica di questi canti, fra la centralità del cielo di Marte, la figura della croce dei combattenti-per la fede, il contrasto tra la Firenze decaduta e la Firenze ideale del passato e della sua speranza. Il canto XV vive così in questo complesso nodo di rapporti tematici, vive come introduzione agli altri due canti, a cui fornisce la base necessaria di slancio, il completamento della scena, la elaborazione della voce di Cacciaguida e dell'immagine della Firenze antica, ma vive anzitutto in se stesso, nella sua forte unità particolare (anche se intensificata proprio da un tensione che attende ancora ulteriore sviluppo, folta di temi nascenti) e nel rapporto necessario fra la prima parte e il mito poetico altissimo che rie scaturisce al sommo e ne assorbe e trasvalora l'intensa accensione paradisiaca e affettiva, essenziale ad alimentare la superiore purezza in un passaggio di gradi di approfondimento lirico, in uno svolgersi della poesia più alta da un impeto spesso più lirico-eloquente, ma mai privo di congeniali componenti schiettamente poetiche, mai riducibile a puro momento di struttura esternamente narrativa.

    Tutto il canto XV vive in una sua unità dinamica e all'interesse narrativo sempre crescente nel continuo segno di una attesa e di uno svolgimento più alto, allo sviluppo della scena celeste in cui si giustifica il tono altissimo del dialogo, corrisponde integralmente un continuo arricchimento di motivi e di toni sentimentali e poetici sempre più interni e lirici, in una progressione e articolazione di parti tutte ascendenti che conducono sempre più all'interno, ad una visione-evocazione più assoluta, più nitida e mitica: prima fulgore luminoso e immaginoso, poi ardore di affetti, poi intima evocazione, prima grandiosità di spazi infiniti, poi rappresentazione di domestica pace sin nel chiuso delle case fiorentine. E così il linguaggio si approfondisce e si svolge coerentemente dai temi più aperti di solennità sacra dell'inizio a quelli più affettuosi dell'ardore paterno di Cacciaguida, a quelli mitico-storici della evocazione della Firenze « sobria e pudica » e del grande finale, senza mai perdere l'eco sollecitante e la preparazione dei toni e dei motivi prima acquisiti.
    Un'ascesa verso la grande poesia dell'ultima parte, ma in un rapporto di parti inseparabili, nello svolgersi e purificarsi di una generale tensione ispirativa, in cui i più aperti motivi paradisiaci (luce e musica, progresso del sentimento paradisiaco di Dante, intensificarsi del sorriso di Beatrice, comunicazione dei beati nella mente di Dio) concorrono a costituire la base altissima ed intensa su cui si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare gli elementi di nobilitazione e santificazione della voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e storicamente testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio nostalgico da parte di un «laudator temporis acti». Come, ripeto, negli ultimi versi la narrazione della vita di Cacciaguida e della sua morte in battaglia al servizio della fede e dell'Imperatore, e la stessa intonazione sacra e cavalleresca, marziale e civile, in cui essa è scandita, approfondiscono l'incanto di pace della Firenze sobria e pudica, viva di affetti dolcissimi e ricca di intimità fin nei rapporti più semplici e naturali, nella poesia della casa, della culla, delle cose semplici e schiette, ma insieme eroica e santa, capace di combattere fino al sacrificio per i propri sublimi ideali, ben lontana così da un mediocre quieto vivere, impegnata in un esercizio alto di virtù supreme, nella scelta fra valore e disvalore, fra carità e avidità egoistica e corrotta, fra l'« amor che drittamente spira », e la « cupidità »...
    Né si trascuri di osservare come proprio questo fondamentale tema di contrasto che innerva tutto il canto fino alla contrapposizione finale fra il « mondo fallace lo cui amor molte anime deturpa » e la «pace» celeste, venga assicurato ed evidenziato robustamente all'inizio della prima parte, costituendo una linea tematica che raccoglie e sorregge in una direzione unitaria la caritatevole benevolenza dei beati, la intima disposizione affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante nel loro colloquio, e dà allo stesso contrasto tra la Firenze « sobria e pudica », concorde, e la Firenze moderna corrotta e divisa, il suo valore di esemplificazione concreta di una verità universale e centrale nella poesia del Paradiso, e di tutto il poema, conferisce un ulteriore rilievo al mito della Firenze antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto da una situazione sociale, economica, politica (il Comune aristocratico dell'epoca prefedericiana non turbato dall'inurbamento dei villici) quanto e più dall'adesione dei suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali, alla cristiana e civile carità.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis