CRITICA: CARLO GOLDONI

 IL "LINGUAGGIO" DEL GOLDONI

 AUTORE: Gianfranco Folena    TRATTO DA: Lettere italiane

 

Non è certo una novità che la formazione linguistica di Goldoni vada vista anzitutto in questa prospettiva, nei confronti cioè di una situazione di linguaggio teatrale che sta lentamente tramontando mentre la situazione linguistica di fondo rimane sostanzialmente la stessa: dentro un clima radicalmente mutato del gusto più elevato e cosciente, che si volgeva verso la vita quotidiana con nuova, pacata attenzione; non solo, ma in un'epoca di revisione pacificamente rivoluzionaria dei rapporti sociali e umani, revisione di cui il Goldoni fu tranquillo testimone ed interprete, e in cui è anche uno dei fondamenti più seri della crisi cosmopolitica o europea della nostra lingua settecentesca. Questo decisivo momento spirituale si inscrive nel passaggio dalla lingua delle maschere alla lingua dei borghesi e dei popolani, nell'itinerario linguistico ed artistico del Goldoni.

Il fondamentale problema linguistico è per Goldoni un problema di comunicazione che per lui, come per chi muova per vocazione dall'interno dell'esperienza teatrale, non è solo un problema pratico ma espressivo: comunicazione diretta e orale con quel suo pubblico che per Goldoni è un termine fisso di riferimento, il protagonista di tutte le sue Prefazioni; che comprende diversi strati sociali, ma che egli non può chiamare ancora genericamente «italiano» e che distingue con empiria settecentesca per «nazioni» e gusti, secondo la geografia «sociale» del suo tempo, con una densità e intensità che decresce da nord a sud e che ha il suo centro focale a Venezia.
Per questo pubblico egli deve provvedere lo strumento linguistico adatto, che la tradizione letteraria non può offrirgli, e che la lingua della conversazione colta, soprattutto dell'Italia settentrionale, può offrirgli solo in aenigmate, in tracce e sparsi elementi, semplicemente perché questa koinè di lingua parlata ancora non esiste: può venir fatto di dimenticare, leggendo l'italiano di Goldoni, che quei nobili, quei cavalieri, quei mercanti, quelle dame e quelle donne di «garbo» e di «maneggio», parlavano effettivamente un dialetto più o meno italianizzato, o magari talora un francese bastardo. La Umgangssprache, la lingua goldoniana d'uso italiano, è sostanzialmente Buhnensprache, lingua teatrale, fantasma scenico che ha spesso la vivezza del parlato ma si alimenta piuttosto all'uso scritto non letterario, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi «lombardi» e francesismi, accanto a modi colloquiali toscani e a stilizzazioni auliche di lingua romanzesca e melodrammatica: è un «come se», una ipotesi spesso così persuasiva di realtà, fondata su un presupposto di intelligibilità comune.

Parallelamente, la sua «patria» veneziana sembra fornirgli, già pronto per l'uso, quello strumento di lingua parlata di cui egli ha bisogno, lingua parlata socialmente unitaria senza stratificazione rigida, lingua usuale anche della classe dirigente e lingua scritta non «grammaticale»: il solo dei dialetti italiani totalmente immune, nell'uso parlato anche colto, da squalifica culturale, «dialetto» nel senso corrente solo per la prospettiva letteraria; capace di servire non soltanto nell'uso amministrativo e giuridico, ma anche per discutere oralmente di filosofia e di scienza.
Qui Goldoni si colloca d'istinto nel punto d'incontro di una secolare tradizione dialettale veneziana con la comune tradizione italiana ed europea: di quella tradizione, rimasta sempre al bivio tra lingua e dialetto, Goldoni è l'erede per molti versi conclusivo. Il fatto è che in lui il veneziano diventa lingua nel grado totale della rappresentazione, proprio quando la sua bivalenza di lingua dialetto sta per cessare di essere: dopo di lui è possibile una letteratura dialettale veneziana solo in senso vernacolare e municipale (e l'Ottocento sentirà spesso Goldoni dialettale in questa chiave minore di naturalismo vernacolare, e fioriranno un po' dovunque, anche nella Firenze delle ciane dello Zannoni le imitazioni dialettali di Goldoni).

Goldoni chiude una pagina, e ne apre una nuova, nella storia delle letterature dialettali e della concezione del dialetto come strumento espressivo: in lui il dialetto acquista per la prima volta piena autonomia di lingua parlata, fuori di caricatura e di polemica. Con Goldoni ha inizio la storia urbana e civile del dialetto (saranno poi, tanto diversamente intonate, ma sempre su un doppio registro antiletterario, insieme locale ed europeo, «i paroll d'ori lenguagg» del Porta). Questo suo sentimento del dialetto come «linguaggio», lingua materna in cui si specchia la vita di tutta una società, sarà espresso tante volte dal Goldoni, ma forse mai meglio che nella nostalgia dei versi veneziani scritti da Parigi «lontan tresento mia»: «El dolce nome de la Patria mia... / ... el linguazo, e i costumi de la zente». Dove c'è tutto il sentimento linguistico di Goldoni, molto meglio che nelle sue professioni di orgoglio veneziano che sanno invece di municipale, come nei brutti versi arcadici dichiaranti «la dolcissima / Facondia veneziana / Con el vigor dei termini / Far fronte alla toscana».

La parola «linguaggio», coi suoi sinonimi, indica sempre in GoIdoni la parlata, il discorrere naturale e vivo, la lingua come spontaneità: una realtà topografica, psicologica e sociale prima che storica, o storico solo in quanto patrimonio vivente, ma sempre fuori della tradizione letteraria.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis