CRITICA: GIACOMO LEOPARDI

 GLI IDILLI LEOPARDIANI E L'INFINITO

 AUTORE: Francesco De Sanctis         TRATTO DA: La letteratura italiana del secolo XIX

 

L'idillio leopardiano non ha niente di comune col significato che si dà generalmente a questa maniera di poesia. Non è descrizione della vita campestre, con dialoghi tra pastori, o pescatori, opera spesso di civiltà avanzata e stanca che, mancato ogni degno scopo della vita cerca nuovi stimoli negli ozii campestri. Forse per questo Leopardi più tardi cancellò quel nome d'idilli e diede a tutte le sue poesie un nome comune, Versi o Canti.
Fatto è che dapprima comparvero con quel nome, rivelando nel giovane autore una concezione sua propria dell'idillio. Esso è il motivo musicale e poetico, nella sua semplicità, di quello che più tardi sviluppandosi fu rappresentazione della vita pastorale, spesso in forma drammatica. E quel motivo è l'impressione immediata e nuova prodotta dalla contemplazione della natura su anime solitarie e malinconiche. Tale è il motivo dei popoli primitivi, dalle cui ingenue immaginazioni uscirono quei primi scherzi della fantasia che furono chiamate religioni.
Quel motivo, sperdutosi nel rumore della vita, ritorna nella solitudine dei campi, e rimane come la Musa occulta dell'idillio o della egloga nel suo sviluppo drammatico, com'è negl'idilli greci.
Notabile è l'idillio quinto di Mosco, tradotto da Leopardi giovanissimo, dov'è un primo indizio della sua poetica natura, e da cui uscì probabilmente l'esempio e la concezione di questi idilli.
Qui veramente si scorge una prima orma del suo genio. Perché Leopardi, come lo conosciamo già, è un personaggio punto epico e punto drammatico, è un personaggio idillico. Non è un uomo d'azione, non partecipa alla vita esteriore; non è atto a cantarla; essa non è altro che la tavolozza dei suoi colori. Anche nei momenti di maggiore entusiasmo trae di colà la semplice stoffa del suo spirito, nel quale unicamente vive. Quella è il mezzo, non è il fine. Tolto all'azione e alla vita esteriore, in quell'ambiente odioso di Recanati, si sviluppa ancora più in lui la concentrazione naturale del suo spirito in sé stesso.
Così vien fuori una natura contemplativa, solitaria, a cui quegli studi, quel vivere, quel sentimento della sua infelicità porgono sempre un nuovo nutrimento. Anime così fatte sono affettuose, perché uomo senza società si sente vedovo, e cerca sollievo nella contemplazione della natura, e la guarda con occhio di amante. Da queste disposizioni nasce l'idillio nel suo più alto significato.
Una prima contemplazione è l'Infinito tutta in versi endecasillabi, senza rima, com'è l'idillio quinto di Mosco, e gli altri che tradusse o compose. Si vede anche nel metro la filiazione.
La scena di questa contemplazione è il monte Tabor, dov'egli soleva passeggiare, fermandosi in uno dei siti più solitari, all'ombra di una siepe che nascondeva alla vista gran parte dell'ultimo orizzonte. Siede e mira. La contemplazione ha la sua sede, non nella vista materiale circoscritta dalla siepe, ma nel suo spirito pensoso e concentrato. Vede un pezzo del cielo, ode lo stormire del vento, e non ci si acqueta e non ci si addormenta, come fa il pastore di Mosco sotto il platano chiomato, natura anche lui. Qui la vita naturale ed esteriore è un semplice stimolo che sveglia il pensiero e dà le ali all'immaginazione. Perciò non è qui un vedere, ma un'immaginazione, un fingere: «io nel pensier mi fingo». La solitudine, la malinconia, la vista e l'impressione della natura suscitano una disposizione religiosa, la quale altro non è se non un alzarsi dello spirito di là del limite naturale verso l'infinito. E questa è davvero una contemplazione religiosa. Nello spirito non c'è un'idea preconcetta dell'infinito, alla quale l'immaginazione adatti le forme, come si vede nei poeti moderni, in cui fiuti sempre la presenza di un'idea astratta nel maggior lusso delle forme. Qui non c'è niente di filosofico, come sarà in poesie posteriori. È una vera contemplazione, opera dell'immaginazione, con la sua ripercussione nel sentimento, com'è lo spirito religioso.

In verità questo puro alito religioso, proprio dei contemplanti solitari, a cominciare dai romiti e padri del deserto, in quel tempo di scetticismo e d'ipocrisia, tu non lo trovi quasi che in solo questo giovane di ventun anno. Innanzi a lui non ci sono idee, ma ombre delle idee, non c'è il concetto dell'infinito e dell'eterno, ma ce n'è il sentimento. Appunto perché la contemplazione è opera combinata dell'immaginazione e del sentimento, e non giunge fino al concetto, e non dà alcuna spiegazione, vi alita per entro un certo spirito misterioso proprio delle visioni religiose. Il mistero aggiunge all'effetto.
Ti sta davanti non so che di formidabile, che ti spaura, un di là dall'idea e dalla forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i primi solitari scopersero l'Iddio!
Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo che li produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente piovano nello spirito. Nessun vestigio di elaborazione, niente di successivo e di sovrapposto a quelle ombre nella loro formidabile nudità; portano seco il loro colore e la loro musica. Appunto perché il pensiero rimane inattivo, mentre il cuore si spaura, l'effetto è grandissimo. E questo spiega l'impressione profonda della chiusa così originale, in cui il pensiero riacquista la coscienza solo per sentirsi dolcemente annegato:


. . . . . . . . . . . . . tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.



L'annegamento del pensiero nell'infinito non è un concetto nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all'inconoscibile desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi, l'impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose, ma dal ritmo delle cose. «Interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete». Ciò che è nuovo in questo naufragio del pensiero è il sentimento di dolcezza. Il contemplante solitario si sente sperduto in quella immensità, e ci si piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla, ma dal contemplare, da quello stare in fantasia e obbliarsi e perdersi senza volontà e senza coscienza. È la voluttà del Bramino, poeta anche lui, dello sparire individuale nella vita universale.
Questa contemplazione è la prima grande rivelazione del suo genio, semplice insieme e profondo. È un ritorno alla rappresentazione delle poesie primitive e popolari, dove disegno colore e ritmo è una parola, e vista e impressione è sempre immediata. Certo, l'arte dei nessi, il vigor logico e la correzione della forma lo certificano poeta di un'età avanzata. Ma chi consideri a quanta raffinatezza era giunta la poesia italiana anche nei sommi, e anche a quel tempo che molti gridavano semplicità e popolarità e nessuno ne dava esempio, può misurare il valore di questo schizzo, e giudicarlo come l'apertura musicale di una nuova era. Dico apertura musicale, perché qui non è ancora chiaramente espresso un nuovo contenuto, né una nuova forma, ma ce n'è come l'aria e il presentimento. Ci si scorge ancora una parentela con studi e modelli antichi. Manca a questa forma la bonomia e l'ingenuità, e la morbidezza, una compiuta chiarezza, come si vede nel secondo periodo, dove quell'atto intellettivo del comparare e quel cumulo di oggetti aridi ti lascia freddo e perplesso, quasi abbi innanzi una forma logica, e non una visione chiara e immediata.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis