CRITICA: GIACOMO LEOPARDI

 DALLE OPERETTE AI NUOVI CANTI

 AUTORE: Giuseppe De Robertis         TRATTO DA: Saggio sul Leopardi

 

Il terzo e il quarto volume dell'epistolario leopardiano pubblicati dal Le.Monnier a cura del Moroncini ci riportano agli anni '25, '26 e '27, che furono anni di sosta o di attesa, e certo i meno drammatici della vita del poeta. Il 13 dicembre del '24 ha finito di scrivere anche le note al libro delle Operette morali; l'aprile del '28 scrive nuovamente dei versi, « ma versi veramente all'antica, e con quel suo cuore d'una volta » (ché versi all'antica non eran quelli dell'epistola, Al conte Carlo Pepoli, composti nel marzo del '26, e recitati la sera del lunedì di Pasqua all'Accademia dei Felsinei; di assai grave fattura, e forse i più prosastici che siano mai usciti dalla sua penna). Dalle Operette dunque ai nuovi Canti: intervallo grande fra i tempi massimi dell'arte leopardiana.
Noi sappiamo in questi anni a che cosa lavorò il Leopardi, e vedremo che significò quel lavoro. Cerchiamone intanto notizia nella lettera. E cercheremo poi altra notizia, più difficile, più segreta, da scoprire direi nel moto interno delle parole, in un'annotazione, in un grido; avviso di quel che sarà. Saranno, specialmente, le lettere degli ultimi del '27 e dei primi del '28; e quelle altre, funeste, dei primi del '25, stando ancora a Recanati, e sempre di quando vi tornò. Lettere tutte toccate dal dolore e, come spesso gli accadeva, da una sorta di felicità creativa, o da un fermento nuovo. Alle quali bisognerà accompagnare le sempre più rare pagine dello Zibaldone, dove forse meglio il Leopardi amò parlare a sé, con sé, e confessarsi.

Finite le Operette, per un anno almeno, neppure il più piccolo cenno, scrivendo ad altri; ma solo il ragguaglio dei suoi viaggi e dei suoi nuovi lavori. Viaggi per cercar lavoro, lavoro per comprarsi la libertà (da Bologna, il 3 luglio del '26: «Io vivo qui una vita bastantemente comoda, e libera come l'aria; che è tutto quel che io desidero dalla fortuna»). A Recanati, dato termine alle note che dovevano seguire alle Operette, passeranno due giorni appena, e il 15 dicembre prenderà a tradurre Isocrate. Il tradurre fu sempre per il Leopardi una conquista o una riconquista. Così negli anni primi, e che furono, anche quelli, tre anni, tra il '15 e il '17; così in questi. Allora Mosco, Omero, Virgilio, Esiodo; ora Isocrate, Epitteto, Teofrasto. A rinforzo di quel tradurre, qualcosa di assai vicino al tradurre, una prosa placida, una contenta quieta scrittura, come fu quella del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, e poi prefazioni studiosamente lavorate, con un cotal cenno di riso intellettivo; a rinforzo di questo tradurre, l'interpretazione al Petrarca, e la Crestomazia italiana de' prosatori, e l'Annuncio alle Canzoni, tutto scattante, e le prefazioni, e il fedele specchio dello Zibaldone.
Solo il lavoro al Petrarca gli dispiacque: «lavorettaccio noioso», «tanto lungo e difficile quanto noioso», «certo il più noioso» che avesse provato in vita sua, e che gli costò «somma difficoltà, lunghezza e noia »...

Ma tra il '25 e il '27 il Leopardi scrisse altro ancora in prosa, che ci aiuta a capire di che si nutrisse la sua nuova poesia, e ci dice che cos'altro bisogna cercare in una seconda e più segreta lettura delle lettere. E lasciamo il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, difficile e disamena e ghiacciata conclusione di quello che aveva artisticamente immaginato e espresso nelle Operette. Stando a queste sole pagine, non si penserebbe per nessun segno a un moto di rinascita. Ma proprio nel '27 scrisse il Dialogo di Plotino e di Porfirio, con quelle ultime disperate e consolanti parole, nelle quali Porfirio, tentato di morire, sente una voce nuova, ma umanissima voce ammonirlo: «Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». E scrisse il Copernico, dove un guizzo di ritornante fantasia rallegra il miserabile concetto della umana vita...
Già tutti questi tre anni portarono questo privilegio grande, che riscopersero al Leopardi un nuovo Leopardi. Annoterà il 23 luglio del '2-7 nello Zibaldone le prime righe di quelle Memorie della mia vita dove ricercherà le impressioni del tempo lontano, dell'antica vita; ma prima, viaggiando, riscoprirà Recanati, sognerà di Recanati; e questo lo strazierà e consolerà. A Bologna, da poco che ha lasciato la casa, il 23 novembre del '25 confessa: «in certe passeggiate solitarie che vo facendo per queste campagne bellissime, non cerco altro che rimembranze di Recanati» . E poi, più tardi, a Pisa, il 25 febbraio del '28, poco prima di scrivere quei «versi all'antica»: «ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Ricordanze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d'immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico». Si duole, sì, delle stagioni e dei mali suoi, ma loda e aspetta la primavera, e sente il ristoro di certi momenti di salute tollerabile. Sogno, rimembranze, strade segrete, tempo antico. Queste parole toccanti egli le assapora con una commozione nuova, o esse gli toccano l'animo. L'ultimo fermento, come un inebbriamento di dolore, gli verrà dalla disperazione, e proprio la disperazione provata nel soggiorno fiorentino. Quel mal d'occhi, e non poter leggere, non poter fissare la mente a una idea, e passare i giorni a sedere con le braccia in croce («Un morto passa la sua giornata meglio di me». «Sono stanco della vita!»). Da un riprofondamento in se stesso come questo erano nati i primi idilli, da quella stessa, disperazione per vivere ore e giorni e mesi nel buio, sempre per il suo mal d'occhi («La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove, privato dell'uso della vista...»). Quando arriverà a Pisa, l'oro dei Lungarni lo attrarrà come un miraggio, uscito da quella lunga notte. E poi quell'assalto di sogni e, «per le circostanze mutate», il risorgere della speranza. Canterà il suo risorgimento nei due canti pisani, e nei pensieri dello Zibaldone ne farà il commento segretissimo, e com'essi nacquero e che cosa se ne aspettava (che riscaldassero la sua vecchiezza «col calore della sua gioventù», col fargli «provar qualche reliquia de' suoi sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito»). I luoghi, i ricordi, i pensieri che annota, tutto aiuta questa commozione; ma anche aiutano, quei pensieri, a sfogarla prima un poco, per preservare il canto da quel troppo che avrebbe, forse, potuto turbarlo. È proprio l'«untuosità come d'olio soavissimo» ch'egli diceva di trovare nel Petrarca, derivante dall'influsso che ha il cuore nella sua poesia; e gli ultimi anni gli avevano dato, con «una certa allegria interna» nata dalla malinconia, una coscienza stilistica che non ha l'eguale nei poeti del suo secolo. Aveva servito anche quella attesa di tempo protratta, e quel sognare di Recanati e ritrovare, dietro quell'invito, gli anni persi, l'età favolosa.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis