CRITICA: GIACOMO LEOPARDI

 STORIA DELLA PAROLA LEOPARDIANA

 AUTORE: Francesco Flora         TRATTO DA: Storia della letteratura italiana

 

Chi non si faccia deviare dai titoli, o talora dai tratti polemici della poesia leopardiana, troverà che spesso anche in un canto funebre la materia che meglio lo ispira è per sé stessa gioiosa: e prorompe nei particolari, sia la primavera del Passero solitario che brilla nell'aria e per li campi esulta o la notte dolce e chiara, e l'ermo colle e il dolce naufragar dell'Infinito, o la giovinezza di Nerina e l'adolescenza di Silvia, o il pastore che guarda greggi fontane ed erbe: o tutta infine la gioia e bellezza del mondo naturale, in quella parte che gli offre sostanza di ricordo o desiderio. E troverà che il più delle volte quella materia fu essenzialmente una brama di gioventù e di primavera, perfino una brama di memorie, e si espresse come privazione che ebbe nome positivo di affanno e dolore e noia, ma era assenza di gioventù. Se il dolore fosse insuperabile nessun poeta avrebbe potuto esprimerlo.
Certo se egli canta l'affanno o la gioia, ciò che conta è la particolare tenerezza e il suo accorato accento, non per loro terrestre immediatezza, ma in quanto son poeticamente rappresentati e fatti universali e la loro deità non è più, a dir vero, una storia di dolori o di gioie, quanto una storia della parola leopardiana.
In tutte le negazioni una fede assoluta e che non ha bisogno di altra dimostrazione resiste: ed è la fede nella poesia o nella sua minor sorella che è l'arte della parola. La contraddizione di usar ragione contro la ragione non può mai giungere all'uso della parola poetica contro la poesia. E allora il dolore diventa soltanto la serena rappresentazione del dolore umano e cosmico e la noia una profonda immagine dello spazio che «riempie tutti i vuoti».

Così il poeta crede nella poesia, e in questa si salva. E anche la gloria gli vale soltanto come una presente compagnia dell'arte, nell'animo che, uscito appena dalla sua opera, si sente a contatto con l'universo, in una società assai più vasta di quella medesima degli uomini; e gli anni e le stagioni aduna in un suo attimo.
Così la più profonda storia di un'anima è quella della parola leopardiana. Chi, infatti, volesse isolarne la materia dolente per definire l'originalità del poeta, dovrebbe accorgersi come sempre avviene, che la materia dei Canti è comune, non soltanto nella tradizione remota, ma anche in quella settecentesca più vicina: e che dunque soltanto l'accento nuovo del poeta crea una materia originale: e l'accento è quella storia, appunto, della parola.
La materia dolente dei suoi Canti correva le vie d'Europa in quel tempo, e sempre...

Ma appunto l'originalità della poesia è nel particolare tono col quale la materia, vorrei dire con un linguaggio caro ai pittori, si distrugge. E questa originalità il Leopardi ebbe a tal segno da ridare un senso di novità sorgiva anche alle comuni frasi con le quali un tempo, nella tradizione dei poeti, e nel corrente linguaggio, quella materia fu espressa.
Fate che una sola di queste frasi fantoniane o una sola di quelle parole metastasiane citate più innanzi sia pronunziata dal Leopardi, e diverrà grave di una sovrumana malinconia, e tuttavia librata in quel cielo in cui gli umani affanni son mutati nel canto aereo della Memoria e delle giovani Muse.
I tratti esterni del linguaggio leopardiano son triti anch'essi, quasi un catechismo poetico in cui ad ogni domanda la risposta è immutabilmente la stessa.
In questa lingua poetica il fato è acerbo o duro; la vita è il viver anzi il viver mio; il tempo è l'età, l'etade, la stagion; il giorno è il dì; i mali della vita son danno o affanni; le illusioni sono errori, inganni, larve, fantasmi e, finalmente, fole; la Speranza è Speme o Spene (e si congiunge con le parole tanta e cotanta); il desiderio è desio o desire; i ricordi sono ricordanze; gli svaghi e i giochi son trastulli e sollazzi; la fama è grido; ogni spada o pugnale sono un acciaro, un ferro, un brando.
In questa lingua che pare fissata una volta per sempre da Francesco Petrarca, e ripresa da Pietro Metastasio, l'anima è l'alma; il core è quasi sempre il cor; la giovinezza è l'età verde o l'età novella o il fior degli anni miei; la faccia è il sembiante, gli occhi diventano spesso luci, lumi, rai, ciglio (anzi, il ciglio mio o tuo); la bellezza è beltà e la beltà è celeste, angelica, raggio divino; la giovinetta è donzella, e il giovane è garzone o garzoncello.

Placida e quieta è la notte; candida o tacita è la luna come tacita è la selva; le vie del cielo son calli e magari sempiterni calli; gli uccelli sono augelli e gli animali son fere. La casa è un ostello, magari patrio o paterno, ed è albergo o perfino stanza; e i letti si chiaman piume; e di chi sia affaticato si dice che ha infermo o egro il fianco; e se qualcosa ti manca si dice che tu ne sei orbo o digiuno, o magari mendico, o, finalmente, nudo; e se una cosa non t'importa, si dice che non ti cale, anzi, magari, non ti cal. Che meraviglia se in questa lingua poetica si esclami ancora: Oh Numi?
Ebbene, proprio con queste parole nei lor giri più letterariamente tradizionali, e che a prenderli staccati paion consunti e perfin ridicoli; proprio con queste voci sollevate in una musica che le fa risuonare sotto un nuovo arco, ove par che sian dette per la prima volta, Giacomo Leopardi ha creato i suoi più originali incanti.
Storia della parola vuol dire tono, quella particolare tenerezza leopardiana di cui si è detto (il contenuto affettivo) assunta nella modulazione e forma sua particolare, nel suo universal canto. E qui l'originalità è in una proporzione sintattica e melodica e visiva che adopera parole e gruppi di parole tradizionali in un nuovo equilibrio.
La poesia leopardiana sembra assorbire con assoluta purezza tutta la cosiddetta lingua poetica della tradizione italiana, e pone così un delicato problema ad ogni interprete, invitando a ragionare, volta per voltale parentele delle espressioni leopardiane col lessico e i costrutti dell'antica lingua poetica.
Esse sono il frasario elementare di Giacomo Leopardi, e, come avviene nei più grandi poeti, sono un lessico primo, il quale è fatto non tanto di parole deserte quanto di frasi e associazioni che l'educazione letteraria rese spontanea alla capacità creativa di un artista, diventate nella memoria un modo della sua intuizione del mondo.
Ma quel frasario, perfin vieto, il poeta rinnova con un semplice tocco, e da letterario lo trasforma in poetico. Tutta l'Arcadia si riscatta in poesia...

Questa nostra insistenza sul linguaggio tradizionale del Leopardi non vuol già portare l'accento sul richiamo letterario; anzi sulla trasfigurazione poetica la reminiscenza si effuse, e, direi, si obliò. Questo non vuol essere un inerte richiamo della cosiddetta fonte, o una comparazione d'antica maniera: troppo si abusò di tali riferimenti inutili, perché ci possa accadere di esserne teneri.
L'intensità di quelle parole è appunto nel rapporto tra la loro storia illustre e la lor nuova vita nella poesia leopardiana. Ecco che qui il problema di una fonte non è sterile, ma è necessario a cogliere più in profondo la lirica leopardiana, a percepire quel senso, quel tono nuovo che nel filtro di un tal poeta, nella virtù di così vasto sentimento, assumono le voci della grande tradizione greca e latina e italiana. Ed è anche un modo di approfondire la teoria stessa generale dell'arte, giungendo all'intima sostanza della poesia.
Un poeta ridarà alle parole, alle frasi, ai costrutti un significato sorgivo e un suono e un diverso peso: ne attenuerà la metafora o la farà più densa, chiudendo in essa la tradizione di alcuni secoli o risalendo alla primissima età, quando la voce era ancora mimetica, grumosa della materia su cui nacque...

La ricerca del linguaggio, presso il Leopardi, è intesa a mostrare dunque come nel nuovo tono del poeta l'antica frase si rinnovi; non già a limitare od offuscare l'originalità del Leopardi, che viene anzi ribadita proprio in ragione di quella potenza che trasfigurò le fonti a una così diversa poesia.

 

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