CRITICA: GIACOMO LEOPARDI

 IL PASSERO SOLITARIO E LE RICORDANZE

 AUTORE: Luigi Russo         TRATTO DA: La "carriera poetica" di Giacomo Leopardi

 

In quest'altro canto del Passero solitario, composto dopo il 15 giugno del 1829, c'è il trasfigurato ricordo di tante vicende di vita paesana che sono state annotate dai vari commentatori e che tradiscono la loro presenza nel tono piano e familiare della lirica. Si sente, è vero, che questi versi sono nati da un fatto osservato più volte e sul quale più volte il Leopardi si è fermato a meditare. È un canto di esilio dalla vita, di quella vita che si contempla e non si riesce mai a vivere, che si sogna e si fantastica ma si ha timore di attingere. La similitudine o meglio la comparazione di sé medesimo col solingo augellin, non ha nulla di pedantesco e di sistematico. È una vicinanza spirituale, accennata sempre discretamente, che giova principalmente a dare rilievo di esasperata tristezza a quella constatazione finale della differente sorte del poeta. «Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor fia vòto il mondo e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia Che di quest'anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro». La critica concordemente giudica che la sostanza della lirica è più in questa breve antitesi finale che nella diffusa somiglianza, la quale, se lavorata in ogni corrispondenza di termini, avrebbe potuto avere l'aria di una similitudine letteraria. Il Passero solitario, ma senza che sia detto così freddamente, è il fantasma stesso del poeta, sempre absent dalla vita, che «la solitudine e il silenzio amò quanto niuno altro», come uno di quei santi solitari di cui egli favoleggia in quella graziosa prosa trecentesca che è il Martirio dei Santi padri.

L'ultimo soggiorno del Leopardi a Recanati cade nel 1829 e, tra il 20 agosto e il 12 settembre di quell'anno, egli compose il celebre idillio Le Ricordanze, il titolo e il motivo delle quali paiono preparati e covati da un quindicennio almeno e dall'assidua meditazione e dal caro immaginare. Questa poesia delle ricordanze fu quasi nativa nel Leopardi, ché il suo poetare e direi lo stesso vivere fu sempre un ricordare. Da ciò l'intensità poetica del componimento, ma anche la sua ridondanza in qualche punto. Pure arte miracolosa questa, poiché su un motivo elegiaco sono intrecciate visioni di paese diverse, reminiscenze di stati d'animo dell'età fanciullesca, rievocazione di fantasmi di amore, inni pieni di affanno alle speranze, agli ameni inganni, al caro immaginar del tempo giovanile, accoramento e rammarico acerbo dell'esser vissuto indarno. Se l'idillio, come scrisse il poeta stesso, esprime situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo, questo è pure un grande idillio; che si svolge in gran parte come una sinfonia, un contrappunto doloroso di motivi molteplici, in cui continuamente si inseguono, si sfuggono e si riprendono le visioni tenerissime della dolcezza passata, e la comparazione amara e talvolta sdegnata con l'infelicità presente. Per il ricordo di Nerina, si vorrebbe che le Ricordanze siano il prolungamento della poesia A Silvia, ma il motivo di questa è rettilineo e casto, mentre nelle Ricordanze si allarga tutta la poesia della fanciullezza e della giovinezza vissuta indarno, e un anelito disperato alla vita, intesa ancora come fiducia e ricchezza di ameni inganni, come possente errore.

Si parla discretamente dai critici di un certo sbandamento in questa grande lirica, e si ricorre a Nerina come al fantasma che unificherebbe tutti gli sparsi motivi delle strofe precedenti. Se così fosse, Nerina sarebbe davvero un semplice prolungamento di Silvia (e per giunta una rimembranza quasi privata, e non sempre sollevata alla dignità di simbolo e di mito come proprio è avvenuto della sua maggiore compagna), mentre sentiamo che il fascino arcano delle Ricordanze è altro: è l'epopea malinconica del possente errore, che oggi si svela come un'illusione (Fantasmi, intendo, Son la gloria e l'onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria). Pure c'è ancora un possente appello a quell'errore: quell'imago ancora sospirar mi farà! Cotesto è il centro lirico di tutta la lunga poesia. La dolcezza del dì fatale sarà temperato d'affanno, perché il poeta non è riuscito a tenere in piedi l'illusione di quella sua giovinezza. E se non fa scandalo, aggiungeremo che la lunga stanza dedicata a Nerina è proprio quella in cui si sente una certa fiacchezza di lena. Il che ci piace qui annotare, con crudezza, per combattere la tesi che la stanza di Nerina sia come il centro unificatore di tutta la poesia. Il vero è che questa di Nerina è un'aggiunta volontaria; il poeta certo poeticamente vi si riprende, ma solo dove il fantasma femminile è miticamente confuso col paesaggio, da quella finestra favellarmi agli odorati colli, a quel se torna maggio, ogni giorno seren, ogni fiorita piaggia ecc. Il che ci incoraggia a respingere l'interpretazione romantica che per tutto il secolo XIX si è infanatichita per il personaggio di Nerina. Il vero è che Silvia dagli occhi ridenti e fuggitivi rimane sempre mito insuperabile e compiutamente espresso, e ogni prolungamento di esso ci disturba. Del resto lo sforzo del poeta lo si scorge chiarissimo in quel troppo frequente interrogare, «E di te forse non odo Questi luoghi parlar?» e via seguitando con le altre interrogazioni successive.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis