CRITICA: GIACOMO LEOPARDI

 L'ULTIMO LEOPARDI

 AUTORE: Walter Binni         TRATTO DA: La poesia eroica di Giacomo Leopardi

 

Sulla base della nuova coscienza del proprio valore personale e del valore del proprio pensiero, e del loro dovere e diritto di deciso intervento nella storia del proprio tempo, la posizione anti-idillica si svolge in un atteggiamento sempre più attivo e combattivo, a suo modo singolarmente «apostolico» salendo dai margini più esterni della satira e della polemica (Palinodia, Nuovi credenti e più al centro Paralipomeni, così nuovi e inquietanti e ricchi anche di moti poetici) ad una centrale identificazione che vale come un nuovo modo di radicale unità lirica di poesia e di pensiero.
E mentre il poeta tenta (ed attua almeno nella Ginestra) un romanticissimo impiego della poesia come viva fondatrice di civiltà e di verità e dà al suo stesso pensiero una tanto più chiara funzione attiva e sentimentale (tanto più dunque traducibile poeticamente), lo stesso pensiero subisce effettive modificazioni, si adegua al nuovo generate bisogno di impegno del poeta, passa - sulla base antispiritualistica e antiottimistica ancor più consolidata - da una posizione più critico-analitica ad una posizione più affermativa e combattiva, e, anche attraverso una distinzione importantissima fra progresso umano ammesso come progresso di consapevolezza della situazione umana e di coerenti conclusioni pratiche sul piano di una costruzione di civiltà disillusa e solidale, e la negata perfettibilità spiritualistica delle magnifiche sorti progressive - supera il pessimismo più statico delle Operette, fa della ragione un'arma solida con cui gli uomini possono e devono liberarsi da miti e consolazioni superbe e frivole e con cui il Leopardi prende sempre più deciso partito nella storia del suo tempo, in tutte le sue dimensioni ideologiche spirituali e politiche, per lui inseparabilmente congiunte.

E così decisamente avversa insieme la filosofia spiritualistica come filosofia della Restaurazione e i sistemi politici reazionari del De Maistre a del De Bonald, condanna duramente i Dialoghetti di Monaldo e a questi che gli scriveva amareggiato per le sue sfortune di sostenitore del trono e dell'altare non gradito dal governo pontificio, risponde in una lettera del '36, affettuosa e decisa, delineando con chiarissime parole il suo inequivoco giudizio sui regimi assoluti e «legittimisti della Restaurazione»: «i legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano che la loro causa si difenda con le parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che ponga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per ora non hanno che rispondere». Mentre insieme condanna le posizioni dei liberalmoderati a causa delle loro premesse ideologiche che gli appaiono retoriche e fragili. Sicché nell'aspra satira dei Paralipomeni il suo scetticismo sulle possibilità dei liberali italiani, mentre non esclude affatto la sua intima partecipazione ideale alle sorti della libertà e dell'Italia, va spiegato proprio nel dissenso fra le posizioni che egli considera vere e a lor modo progressive nella storia del pensiero umano, e le ideologie spiritualistiche, cattoliche o idealistiche, che egli sentiva sostanzialmente reazionarie e legate a concezioni filosofiche frivole e retoriche. A questa retorica (né sarà qui il caso di discutere i margini di incomprensione e di parzialità del giudizio leopardiano di cui preme comunque di rilevare l'estrema forza consequenziaria e la coerenza con il suo pensiero e con le sue convinzioni vissute) egli oppone ora con maggior fermezza la sua persuasione, la persuasione che gli uomini, mediante la loro ragione e la loro esperienza totalmente liberata dai miti, hanno scoperto la miseria della loro situazione esistenziale, la crudeltà della natura e del «brutto poter che, ascoso, a comun danno impera», ma insieme la dignità e le possibilità costruttive della loro consapevolezza: e che su questo fondamento di dolorosa, ma virile certezza, essi debbono non lasciarsi distrarre da inutili e fuorvianti miti e consolazioni o da inutili e sciocche lotte fratricide, debbono costruire la loro difficile civiltà nella solidarietà fraterna contro la natura che li opprime tirannicamente.
Posizioni ideali che in quest'ultimo Leopardi, così ribelle e anticonformistico da volersi chiamare nei Paralipomeni il «Malpensante», vivono non come pure conclusioni speculative, ma come temi profondi dell'animo, tutt'altro che freddo e isterilito, scettico e compiaciuto delle sue negazioni.

Ché forse mai l'animo leopardiano fu così vibrante e appassionato, mai questo materialista, più profondamente spirituale e a suo modo più religioso di tanti suoi contemporanei professionalmente religiosi e spiritualisti, sentì con tanta appassionatezza il fascino delle cose alte, dei sentimenti superiori, la bellezza di ogni atto puro, disinteressato, eroico. Fosse pure il sacrificio inutile del topo Rubatocchi, che nel poemetto dei Paralipomeni cade solo in battaglia abbandonato da tutto il suo esercito in fuga non degnato di uno sguardo da un cielo indifferente e chiuso (ma il suo cader non vide il cielo).


Bella virtù, qualor di te s'avvede
come per lieto avvenimento esulta
lo spirto mio: né da sprezzar ti crede
se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
o nota o chiara, o ti ritrovi occulta,
sempre si prostra; e non pur vera e salda,
ma imaginata ancor, di te si scalda,
Ahi! ma dove sei tu? sognata o finta
sempre? vera nessun giammai ti vide



Da quest'animo così caldo e teso, da questa persuasione lirica della miseria e dell'altezza degli uomini tanto più degni quanto più consapevoli della loro situazione eppur non perciò rinunciatari e cinici ed egoisti, ma anzi solidali e appassionati per quei valori che illuminano come rari bagliori la loro vita che tanto più perciò ne sollecitano la tensione più profonda, sorge l'ultima grande prova della poesia eroica leopardiana, la Ginestra.
Dico ultima grande prova ché il Tramonto della luna può apparire piuttosto un più pallido ritorno a toni idillici ormai riassorbiti in altri toni diversamente orientati, mentre d'altra parte si dovrebbe forse di più sottolineare in quel canto l'estrema forza di lucidità energica della diagnosi della vecchiaia e dei mali degli uomini come più genuinamente pertinente all'interesse e alla poetica che in questo periodo dominava schiettamente l'attività leopardiana.
Nella Ginestra si svolgono più apertamente i motivi eroici del suo animo, le punte estreme della poetica leopardiana nata con il Pensiero dominante e si attua l'estremo tentativo del Leopardi di portare in poesia tutta la sua più decisa esperienza e persuasione filosofica, morale, estetica, di fondere l'impegno poetico e l'annuncio di una buona e disillusa novella (al cui valore di decisivo annuncio il poeta volle rimandare con l'iniziale epigrafe evangelica: e gli uomini preferirono le tenebre alla luce) attraverso un'espressione lirica, in una rappresentazione poetica della propria personalità persuasa e annunciatrice e nel mito-parabola della «ginestra».

Non più eroi della storia illustre classica: Bruto minore o Saffo, ma un'entità naturale delicata e modesta, risoluta e antiretorica, che oppone alla violenza della natura il suo esistere senza superbia e senza servilismo come l'uomo ideale con cui il poeta si identifica in un autoritratto formidabile che non poteva più contenersi nell'iconografia sonettistica di Alfieri e Foscolo. L'uomo cosciente della situazione umana, del deserto flagellato dalla natura, né vanamente orgoglioso né vilmente implorante e invece pronto alla compassione e alla solidarietà nel suo mondo tutto umano, illuminato da virtù umane cui è base essenziale l'estrema lucidità e la sincerità e la responsabilità non inquinata da nessuna forma di retorica e di autoinganno.
Il poeta si identifica con tutto l'uomo e con tutti i suoi impegni e perciò rifiuta ancor più nettamente le forme più tradizionalmente poetiche e le forme idilliche in cui si era espresso così altamente, ma secondo una prospettiva che non era quella più urgente e complessa che adesso lo sollecita e chiede tanto più chiaramente modi nuovi e se si vuole sconcertanti per chi abbia negli orecchi la musica idillica e dietro ad essa tanta altra musica della tradizione poetica petrarchesca - tassesca - metastasiana a cui il Leopardi idillico era stato più aperto ed attento.
Eppure anche questa scura e cupa della Ginestra è musica autentica potente ed audacissima, slanciata in lunghi e articolati impeti sinfonici che nascono al di là della melodia e del canto, e si strutturano in strofe sostenute da uno scatto malinconico e virile che riesce a legar intimamente mosse energiche polemiche e sdegnose, rappresentazioni dello sfondo desolato e grandioso della campagna vesuviana, delle rovine di Pompei, di un cielo immenso e pauroso, ed esortazioni e il messaggio della eroica e disillusa solidarietà umana, proprio in quanto esso è radicalmente un motivo lirico, il passo lirico della personalità persuasa, e non un astratto legame di motivi diversi e frammentari.

Unitario il tema e lo spirito, unitario e coerente il ritmo ed il tono di questa musica potente e severa, e lo stesso scatto perentorio ed energico tende la strofe, le singole immagini, le parole sempre più nude e insofferenti di velature di sogno, le cose che si presentano nel colore livido e vero di oggetti scabri ed essenziali: «l'arida schiena del formidabile monte sterminator Vesevo, lo qual null'altro allegra arbor né fiore», la «mesta landa», «il frutto indurato», «i campi cosparsi»


di ceneri infeconde e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al pellegrin risuona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio.



Come si presentano nude ed energiche (con lo stesso tono: ed è notoriamente, il tono che fa la musica) le mosse eroiche della personalità sdegnata contro il secol superbo e sciocco, bisognosa di un'assoluta separazione di responsabilità dalle illusioni ottimistiche delle magnifiche sorti. La stessa forza con cui prima aveva affermato la presenza e la superiorità assoluta del pensiero d'amore, poi l'invocazione della morte, poi l'incompatibilità fra l'immagine interna e la realtà di Aspasia:


Non io
con tal vergogna scenderò sotterra,
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto.



Personalità identificata con l'uomo spiritualmente nobile ed eroico. Fondamentale unità e condizione lirica romantica che corrisponde ad un unico tono di rappresentazione-affermazione in cui i due termini sono inseparabili come meglio si può intendere con l'intera lettura di quel singolare capolavoro o almeno con quella delle sue strofe (la quarta) in cui il poeta dalla contemplazione del firmamento affascinata e paurosa passa alla costatazione della piccolezza dell'uomo e della sua vana superbia.

Ma non si tratta, come si potrebbe astrattamente pensare e a volte si è detto per pigra adesione alle formule più consuete, di un passaggio da un momento poetico contemplativo ad uno polemico e prosastico, ché i due momenti vivono dello stesso slancio e si sviluppano con lo stesso ritmo, lo stesso accento, lo stesso linguaggio e la contemplazione severa e paurosa dell'infinità dei cieli non avrebbe senso poetico in quel suo approfondirsi e scandirsi ossessivo se non vivesse liricamente come parte di una unica affermazione poetica, di un unico sentimento della sperduta esistenza e piccolezza della terra e dell'uomo in un infinito la cui contemplazione non può più risolversi in estasi idillica, ma in conclusione disperata ed eroica. Ché se nella prima parte si può pensare come ad un singolare ritorno di temi da Infinito e da Canto notturno qui in realtà c'è tutt'altro tono: la sicurezza di una persuasione, che non sfugge l'arido vero e non lo armonizza ed attenua nelle domande incantevoli del Canto notturno, ma lo affronta, se ne fa apostolo, ne rappresenta liricamente tutti gli aspetti e le conclusioni di messaggio del poeta, uomo fra gli uomini.
Un riso cattivo di escluso, di incapace a vivere, di negatore di provvidenziali cure superiori perché malato e deforme? Come, ahimè lo spiritualista e «cristiano» Tommaseo rappresentava le petit comte che si dondolava sulla riva del mare canterellando: «il n'y a pas des dieux parce que je suis bossu; je suis bossu car il n'y a pas des dieux».

Lo scherno e lo sdegno che anche in questo ultimo capolavoro si esprimono con una singolare forza di sintesi di pensiero, si cambiano nelle parti positive della Ginestra, nella simpatia e nella vicinanza profonda con cui il Leopardi al termine della sua lunga e sofferta esperienza vitale, rinsaldava più fortemente i suoi vincoli di uomo con un'umanità sobria, eroica, antiretorica, quale egli la raffigurava nel suo ultimo messaggio poetico.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis