CRITICA: ALESSANDRO MANZONI

 L'ADELCHI

 AUTORE: Benedetto Croce         TRATTO DA: Alessandro Manzoni

 

Il motivo ispiratore del Manzoni sembra essere il motto: Dilexi institiam, odivi iniquitatem.
Questo carattere del sentimento che domina nei Promessi Sposi risalta in piena luce, non solo se si pongano loro accanto le opere di contemporanei poeti stranieri e italiani (per esempio, del Goethe, del Foscolo, del Leopardi), ma anche se li si paragoni alle opere anteriori dello stesso Manzoni. Le quali gioverà cominciare a considerare non, come si è fatto di solito e troppo esclusivamente, quasi abbozzi e parti del futuro capolavoro, ma per sé, come tali che offrono motivi e forme, che non si ritrovano più nel romanzo. In esse risuonano note che il Manzoni non ardì ritentare; e, se la parola «poesia» si prende, come si usa comunemente, con riferenza a certi particolari toni di passione, sarebbe da dire che quelle rappresentano veramente la poesia del Manzoni, laddove nei Promessi Sposi, già s'inizia il lungo periodo della riflessione e dalla prosa.

Penso in primo luogo all'Adelchi, che è opera geniale, nonostante anzi in ragione stessa delle contraddizioni che vi scorsero i critici o l'autore come critico. So bene che il sistema teologico-morale del Manzoni era a quel tempo già bello e formato, e altresì la sua considerazione antistorica della storia, come comprovano vari luoghi del discorso critico che accompagna la tragedia. Ma quello che era risoluto e stabilito nella mente non era tale nell'animo; onde nella realtà poetica della tragedia cozzano disperatamente i più diversi e opposti sentimenti, vi tumultua la vita. Nella concezione teorica del Manzoni la politica non ha luogo, ma solo la morale; e nell'Adelchi invece la politica si afferma nella sua originalità e si fa valere, e si fa, quel che è più, voglia o non voglia l'autore, ammirare, come ogni gagliarda forza, che è sempre ammirevole. Il vecchio re Desiderio segue lo stesso impulso politico dei suoi predecessori contro i Franchi e contro i papi da essi protetti, vietanti alla gente longobarda la via di Roma; ed è animato contro Carlo dall'onta arrecata a lui e dallo strazio inflitto alla sua figliuola, sposa ingiustamente, ripudiata. Chi gli può dar torto? Neppure il poeta, nonostante che, nel suo discorso storico, abbia stimato di doverlo, in nome dell'astratta giustizia, biasimare. Carlo difende la causa dei papi contro gli oppressori longobardi; serba, dunque, lui, l'eroe della Chiesa, le mani e l'animo puri, come vuole l'astratta giustizia e morale? La politica non glielo consente, l'«alta ragion di regno», come egli la chiama, la politica che lo induce a scacciare Ermengarda e a prendere altra donna, incurante se calpesta alcun innocente nel percorrere la sua via fatale, attraversato, piuttosto che da rimorso, da un momentaneo superstizioso timore per l'iniquità commessa, dalla quale par gli venga sfortuna; la politica, che gli fa accettare il tradimento, stringere le mani dei traditori, lodarli, premiarli, pur disprezzandoli in cuor suo. E questi traditori di re Desiderio? sono essi semplicemente malvagi, egoisti e codardi? Anche in essi la politica regna, il bisogno d'indipendenza e di libertà, la tendenza all'individualismo e al feudalismo insita nelle condizioni sociali del tempo, la coscienza che la causa dei re longobardi è già una causa condannata. Perché aiutare re Desiderio alla vittoria? Per essere da lui più sicuramente tenuti al freno e tiranneggiati? Perché andar contro la volontà della chiesa di Dio? Contro questa necessità di difendere la propria autonomia e, nella rovina dello Stato, la propria salvezza, debole riparo è il legame di fedeltà, debole sempre, in tutti i rivolgimenti storici. Il soldato Svarto, che vuole con ogni mezzo emergere dall'oscurità e raggiungere non la ricchezza ma il potere, e non risparmia a questo fine accortezza e ardimento, è della pianta dei dominatori, e, come il giovane Bonaparte, «indocile serve, pensando al regno». Certo, risentendo e rendendo tutte queste varie passioni, il poeta sente più tormentosa bruciare la piaga che ha nel petto; onde più angosciosamente si domanda: - Perché? Perché la società è così conformata, che si debba far torto o patirlo? Perché una forza feroce, che prende nome di diritto, possiede il mondo? Perché siamo condannati all'ingiustizia che la mano insanguinata degli avi seminò e che è ora l'unica mèsse offerta dalla terra? - Si domanda, ma poeticamente ignora la risposta perché colui stesso che si tortura con quella domanda è tuttavia costretto a combattere, e a tendere tutte le proprie forze per ottenere la vittoria, ad abbassare, conculcare, distruggere l'avversario. Contraddizione insoluta e, così com'è posta, insolubile, la quale genera la figura di Adelchi, dall'autore poi giudicata «infelicemente intrusa» tra gli altri caratteri e dai critici «anacronistica» , e che è invece personaggio sommamente poetico. In esso s'impersona il il gemito del poeta, gettato in mezzo a un mondo al quale contrasta con tutta la sua anima, e che pure gli s'impone e lo soverchia. Adelchi muore, non può se non morire: ma gli è vietato persino cercare o desiderare la morte: muore, ma mentre combatte per procurarsi scampo e serbarsi a riscossa e vendetta, secondo che non il suo cuore, ma la necessità storica gli comanda. Altra contraddizione: il popolo latino è stato vinto e ridotto a condizione di servitù dai longobardi. Il giudizio morale del Manzoni riprova conquiste e oppressioni, e perciò respinge l'apologia che si fa dei longobardi come di forte gente, atta a creare una nuova e rinvigorita Italia; per lui, essi rimangono nient'altro che «la rea progenie», cui fu prodezza il numero e ragione l'offesa. Ma egli ha indagato la storia del primo medio evo, ha meditato sulle pagine della Scienza nuova, ed ecco una diversa ispirazione gli scuote l'anima, una diversa visione gli sorge nella fantasia e gli detta lo stupendo coro Dagli atri muscosi, dai fori cadenti, il cui sentimento è invece il biasimo agli uomini e ai popoli inerti e passivi, innocenti che siano, e l'esaltazione dei barbari, dei prodi che fanno la storia, e la fanno col fare il proprio vantaggio, e quel loro vantaggio è giustizia, «premio serbato ai forti». Tutta l'epopea delle conquiste barbariche si leva luminosa e sublime in quel canto: i feroci conquistatori sono uomini e chiudono anch'essi nel fondo del cuore affetti gentili, qualcosa di sacro da proteggere, qualcosa di dolce da sacrificare:

 

A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,
ma i dolci castelli pensando nel cor:
per valli petrose, per balzi dirotti,
vegliaron nell'arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d'amor...


E c'è, nell'Adelchi, la figura, cinta dell'aureola di una sacra missione, del diacono Martino, che rappresenta l'aprirsi della via, l'improvviso e agevole superamento degli ostacoli che parevano insormontabili, nelle imprese che Dio vuole, che la storia comanda. Pare che la natura stessa, quelle montagne che gli si oppongono e lo invitano, quella solitudine che egli solo vivente attraversa, accompagnino il suo ardimento con un rito religioso. E poi anche c'è l'amore, c'è Ermengarda, l'unica creatura amorosa del Manzoni, ma tale che, nei suoi pochi tratti essenziali, vale la schiera di quelle di altri meno casti poeti. Ermengarda è la ripudiata che torna alla casa paterna col segno del disprezzo in fronte per sé e per i suoi; torna così vituperata donde era partita inebriata di omaggi e di onori, riboccante di speranza e di gioia. Ma Ermengarda non si rinfranca al pensiero che conforta e riscalda i suoi, i quali già la rivedono, non invano figlia e sorella di re, levare, sopra la folla ammirante, la fronte, «bella di gloria e di vendetta». E nemmeno ha fatto rinunzia, rifugiandosi e tutta riposando nel Dio a cui crede, nel Dio che accoglie e soccorre i miseri e premia gli ingiustamente perseguitati. Ella ama colui che l'ha scacciata e la fa soffrire: ama femminilmente tutto il passato di quell'amore, di donna che fu amata, e di regina: i baci e le carezze e le feste e le pompe e l'ammirazione del popolo e l'invidia delle altre donne. II poeta sente la passione che scuote sin nelle più intime fibre, che giunge alle radici dell'essere: vede «Vénus toute entiére à sa proie attachée»: la dedizione, la stretta tenace dell'uomo adorato: «Amor tremendo è il mio, Tu nol conosci ancora: oh! tutto ancora Non tel mostrai; tu eri mio: secura Nel mio gaudio io tacca: né tutta mai Questo labbro pudico osato avria Dirti l'ebrezza del mio cor segreto». Nel suo delirio di fremente passione e di gelosia, ella parla disperatamente a colui che un tempo l'amò, che ebbe di lei alcuna dolcezza, che non è per lei diventato ancora un estraneo: indirizza, con struggimento di tenerezza, con non sa quale speranza, il pensiero alla soave, alla pia Bertrada, che volle quelle nozze che certo le vuole ancora, alla madre di lui, che ha potere sul figlio, e tra le cui braccia sente «una vita, Un gaudio amaro che all'amor somiglia». Alfine si distacca, si rivolge a Dio, si dispone alla morte, muore; e il secondo bellissimo coro della tragedia canta questo rivolgimento, questo riposo in Dio. La religione non ha infranto e distrutto l'amore terreno; sopravviene consolatrice, quasi nuovo amore meno acre e più puro, a riempire il vuoto lasciato da quello.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis