CRITICA: ALESSANDRO MANZONI

 DALLE TRAGEDIE AI PROMESSI SPOSI

 AUTORE: Mario Sansone         TRATTO DA: L'opera poetica di A. Manzoni

 

A guardare in fondo alle anime degli eroi manzoniani delle tragedie, essi propendono verso una riconquista della vita e non verso la negazione totale di essa. Il cammino della fantasia manzoniana dalle tragedie al romanzo è proprio in ciò: dalla rivelazione subitanea alla comprensione luminosa, dallo smarrimento di fronte all'oscuro del vivere all'accettazione della legge del vivere, dall'impossibilità di consistere nel mondo e dalla necessità del morire alla giocondità e alla pienezza del vivere.
Quando Manzoni compone i Promessi Sposi, sopra l'oscuro del mondo, è piovuto ormai la luce della provvidenza: il poeta oramai guarda alla realtà con occhi nuovi, e intende la necessità delle contraddizioni e la santità stessa dell'assurdo in mezzo al quale noi viviamo.
Voi ricordate quel che hanno scoperto gli eroi delle tragedie: Marco ha scoperto che egli può trovarsi nella condizione di tradire, o partecipare al tradimento di un amico, e perdere d'un tratto tutte le più belle ragioni della sua vita; il Carmagnola ha scoperto che si può esser buoni, leali, generosi, forti e perire nella viltà dell'agguato e del tradimento; Adelchi, ora, prima di morire, scopre il «segreto» della vita dove non resta che far violenza o patirla, ed Ermengarda, travolta come canna al vento, rende, senza piegarsi ad esprimere la legge, più terribile la presenza di quella legge di assurdo dolore, che infrange, a lei, gentilissima ed innocente, tutti i legami della tenera vita e la getta nell'unica consolazione della morte e di Dio promettitore di ineffabili conforti.

La scoperta degli eroi tragici è la scoperta stessa della fantasia manzoniana: ora quella scoperta dovrebbe gettare il poeta nella disperazione. Voglio dire che poteva uscire da siffatta intuizione del mondo una tragedia di tipo shakespeariano, una specie di urto, come di colpi di maglio o di catapulta contro l'assurdo e l'ignoto, contro il dolore che è per tutto, non ancora sale o condimento della vita, ma segno del suo orrore e della sua cecità. Ma noi sappiamo, e l'abbiamo visto nel modo stesso di morire delle creature tragiche manzoniane, dove propendeva la fantasia del poeta. Scoperta la ferrea legge del mondo, essa si interiorizza sempre più come norma e ritmo della realtà: soffrire o far soffrire, ascendere o decadere, peccare o santificarsi, è questa la necessaria legge del mondo. L'oscuro, l'assurdo non certo si purifica o si giustifica moralmente, ma si illumina come mezzo indispensabile del muoversi e dell'attuarsi della vita. È questo quel che si dice lo sguardo riposato, sicuro, cogitabondo, fermo sulla realtà del Manzoni dei Promessi Sposi, ma non ci si avvede che così si caratterizza una fantasia, una ispirazione artistica, non una qualsiasi conquistata saggezza di moralista.
La vita, il bene, l'amore non possono essere senza il nulla, la morte, il male, il dolore e il peccato. Soffrire e peccare sono dunque non il positivo, ma le ragioni stesse dell'eterno positivizzarsi del mondo. Il dolore, la pena che gli altri ci danno e che noi diamo agli altri, la pena che è nel vivere stesso e che dipende, e spesso senza responsabilità specifiche di nessuno, dall'aggrovigliarsi assurdo delle vicende umane, sono i componenti eterni di un ritmo di vita che non avrebbe significato senza di essi. Il Manzoni che guarda tutto questo da poeta e non da filosofo, non scopre di certo il ritmo di dialettica necessità del nostro ascendere morale, ma lo sente vivissimo e lo colloca nella sua intuizione religiosa nel mondo.

La conclusione di Lucia è veramente il sugo della storia e la rivelazione della ispirazione manzoniana; che « i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore » (XXXVIII, 68), è l'espressione in forma religiosamente mitologica e popolare del sentimento stesso manzoniano. Vuol dire che il vivere non può essere senza alternativa di bene e di male, di giocondità e di dolori, di purezza e di peccato e che esso va accolto nella sua legge necessaria e immutabile. Quel che era buio ed orrido, ora si fa lucido e accettato, quel che era assurdo acquista una sua logicità, non perché - come tale - esso finisca di essere assurdo, ma perché quell'assurdo medesimo è sentito come una necessità ineluttabile ed accettato. Dalle tragedie al romanzo non si passa dal pessimismo all'ottimismo, non si giustificano il male e il peccato, in quanto tali, ma si giustificano e si avvertono come momenti, elementi eterni e necessari della vita; si spiegano, si razionalizzano e infine si accolgono. Non finiscono di esser tali, ma finiscono di essere il segno pauroso di un assurdo inesplicabile. Vivere era sinora correre incontro ai propri ideali, con la fede sicura nella loro esclusiva positività: era l'ansia eroica di Carmagnola, l'amicizia fiduciosa di Marco, l'anelito al bene di Adelchi, l'amore e la gentilezza tutta riversata in felici incontri umani di Ermengarda. Poi appare lo schianto e la negazione di quel nostro volere operare il bene e voler mutare la storia del mondo, e la conclusione è che vivere cosi è impossibile, e non c'è altra vita per noi che l'attesa e la speranza della morte.

Ma, infine sull'abisso cade la luce, e tutto il groviglio umano si ordina in una sua armonia dolorosa: tutto quel che si oppone alla nostra virtù, tutto quel che rende faticoso cotesto nostro transito pel mondo, il male che noie gli altri commettiamo e patiamo, e che spesso non basta la condotta più cauta ad evitare, ci appaiono come l'eterna redenzione del nostro doloroso destino, il significato, la ragione stessa del vivere. Il vivere non è più il passare elegiaci e sparenti in mezzo ad un mondo che nega le nostre idealità, ma l'esperimento delle nostre idealità; proprio li in un mondo che le nega, o le accetta o le corrompe: una corruzione di cui spesso siamo partecipi pure noi medesimi, quali che siano i nostri propositi. Vivere non è più aspettare solo di morire, ma accogliere la legge del mondo ed operare dentro di essa per il maggiore bene di tutti: alla radice del nostro agire ci deve essere non la negazione o il tedio del mondo, ma il suo accoglimento. Adelchi ha scoperto la legge tragica del vivere e la feroce forza che lo governa, e guarda remoto quegli altri, - sopra tutti Carlo, che si reputa felice nella vittoria, e, anche, il padre, che ora crede di essere infelice e che invece è privilegiato, perché non ha più possibilità di agire - senza invidia, anzi con un estremo compatimento, e avverte il conforto ineffabile del non-vivere: nel romanzo Adelchi si trasforma in padre Cristoforo, nel Cardinale, nell'Innominato redento, in tutti quelli che esercitano una forza di bene con la coscienza insieme della propria debolezza e delle forze che ad esso si oppongono perpetuamente, cioè dei limiti che esso incontra dentro e fuori di noi, e diventano tanto più alti poeticamente quanto più chiara è la coscienza di codesti limiti. Siano creature innocentissime, come Lucia, che cala cotesto sentimento del mondo entro una fede religiosa pura e abbandonata, siano creature esperte dei vizi umani e del valore, il Cardinale, Cristoforo o il padre Felice, essi muovono tutti da un medesimo sentimento del reale. Non c'è più di qua il positivo, di là il negativo (e non, si intende, come mera valutazione morale), c'è la vita con le sue leggi, c'è Dio che ci ha messi a questa triste e grande fatica, e bisogna essergli grati pel dolore che ha disseminato sulla nostra via, non solo perché cosi si redime quel tanto di dolore che noi procuriamo agli altri, ma perché così noi avvertiamo la sua divina presenza: e Dio qui è il segreto e la ragione della vita stessa.

Che meraviglia che un siffatto sentimento del mondo si dispieghi, nel concretissimo ,spettacolo del romanzo, entro i modi e le forme di una particolare religiosità? Il cattolicesimo manzoniano è avvertito nei Promessi Sposi proprio in codesta necessità e provvidenzialità del soffrire, ed è, in più, la trascrizione mitica del sentimento manzoniano del reale: e la fede nella provvidenza è la fede stessa dell'eterno comporsi dei circoli della vita nelle sue armonie ristoratrici, e la speranza in Dio è il prolungarsi nell'interno di quella fede. Il cattolicesimo, il pietoso, comprensivo, operante, eroico cattolicesimo dei Promessi Sposi è la sublime metafora del sentire manzoniano, ovvero il suo attuarsi nella concreta vita degli uomini, che fondono nei loro miti le ragioni e le spiegazioni di cui abbisognano per vivere.
Noi non tentiamo qui di infirmare, come qualche sbadato o disattento potrebbe credere, il purissimo cattolicesimo manzoniano dei Promessi Sposi, ma semplicemente di cogliere in che modo esso si innalzi e viva nella fantasia del poeta; giacché se la fantasia è vuota senza il suo contenuto, poi quel contenuto è nullo senza l'affiato di quella fantasia, e quando quel contenuto è entrato nei suoi domini, non vi sta più per sé, ma per la forma che vi assume. Perciò pure il purissimo cattolicesimo manzoniano sta qui secondo la legge della fantasia del poeta, vive di quel palpito, è il segno più evidente ed aderente di quel particolare sentimento della realtà che sorregge e domina tutta la favola: che è, come abbiamo già detto, l'avvertimento del reale nella necessità delle sue contraddizioni e nella santità e provvidenzialità del suo muoversi e svolgersi.
In codesta concezione l'ideale non è fuori del mondo e non è una luce solitaria che trascorre nelle vie oscure dell'universo: è nel mondo, anzi è il mondo nel suo farsi, il mondo nel suo significare qualcosa. Questo è quel che è stato detto il divino calato nell'umano o con espressione più suggestiva la misura o il limite dell'ideale, e cioè l'ideale fuori di ogni astrazione, gettato entro lo stampo del mondo e conformato secondo le sue esigenze e necessità.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis