ORIGINI E DUECENTO

  • IL LINGUAGGIO MISTICO DI JACOPONE
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    Autore: Luigi Russo Tratto da: Ritratti e disegni storici

     
         

    Jacopone non è Dante che parte da una esperienza religiosa e arriva alla poesia di quella religione, sotto il regno del buon Apollo e delle nove Muse che gli dimostran l'Orse: il nostro mistico non asseta la fronda peneia, ché a lui parrebbe troppo caduco e profano alloro, ma egli, per umiltà religiosa, raccomanda la sua fama «al somier che va ragliando e sulla coda dell'asino elegge il suo seggio : « e quel te sia per guidardone ».Il laudario jacoponico va dunque letto nella sua versatile espressione letteraria, come la manifestazione di un energico ed estroso temperamento. E allora avremo il pedagogo, che scrive laude di ammonimenti e di esortazioni e suggerisce regole di vita; avremo il confessore dell'anima, che si impenna per mistica voluttà a quelle sue stesse confessioni (Viver io e non io - e l'essere mio non esser mio, - Questo é un tale traversio, - che non so diffinitate!) avremo il politico della religione, che satireggia e flagella la pompa dei prelati, « grossura potente », e piange e dolora sulla sua ecclesia perché « sente fortura di pessimo stato », e accisma papa Bonifazio, per il troppo malvagio giunco che egli ha conservato nel mondo.

    In un uomo di rapinosa religione mistica come Jacopone si avvicendano irrequietamente questi vari atteggiamenti, ed egli ci viene innanzi anche come filosofo e come teologo, pontefice di una sua fede intima e solitaria. Jacopone è un mistico, e come tutti i mistici, nell'atto del suo misticismo, è fuori della Chiesa; il mistico fa chiesa da sé, e solo da sé.
    Il papa, che è sempre infallibile, anche se uomo di affetti carnali come Bonifazio, non ebbe torto dal punto di vista della teologia della sua chiesa, di scomunicare questo petulante emulo che parlava dal monte Penestrina.
    U misticismo di Jacopone è una filosofia che gli otri vecchi ha dissipato.
    Ogni mistico, ciascuno a suo modo inconfondibile con gli altri, crea sempre una sua teologia. In questo senso il mistico Jacopone ha una sua filosofia, una filosofia che non è il riecheggiamento fantastico della filosofia di Bonaventura o dei Vittorini (e in tal senso va corretta la tesi del Gentile e del Casella), ma è la sua filosofia, generata dal suo stesso sentimento e dalla sua passione, mitologia del suo soffrire e gioire. Un progresso negli studi jacoponici si può compiere, individuando sempre più l'accento inconfondibile della filosofia dell'autore. Vittorio Alfieri, nei suoi trattati politici, non riecheggia Diderot, Voltaire, Helvétius, Rousseau, Montesquieu; allo stesso modo, Jacopone non è un seguace scolastico di Bonaventura o dei Vittorini, perché egli è troppo caldo seguace della sua anima. La sua filosofia (è qui la differenza dei suoi maestri ex cathedra) non è sentita come sua, come un discorso della mente, ma immediata vita circolare di Dio stesso, come discorso di Dio : Vivere amor senza affetto - e saper senza entelletto !

    Cioè, nell'unità dell'uomo con Dio si ama senza che ci sia un oggetto d'amore distinto dal soggetto, e si conosce senza avere una intelligenza di una qualche cosa: Omne luce è tenebria - ed orane tenebre c'é dia. E questo è il sentire immediato, più che il riflettere scolasticamente, di Jacopone.
    La vita della mente in Dio è tutta tenebra perché è tutta luce: quelle tenebre sono giorno, un giorno che per non conoscere altra cosa diversa da se stesso può dirsi « una luce ottenebrata ». Da ciò la forma sincopata della sintassi jacoponica: si tratta di forme esclamative, come di chi non conosce relazioni fra le varie parti del discorso, poiché esso discorso viene sentito non come sillogismo ma come amore, tripudio, giubilo, pensiero nella sua fase esclamativa dunque, più che nella sua fase sintattica e sistematica: O iubilo del core - che fai cantar d'amore!- Quando iubilo se scalda - si fa l'uomo cantare; - e la lengua barbaglio - e non sa que parlare, - dentro non po' celare, - tanto é grande el dolzore. La più vera parola di questa poesia mistica è il silenzio: la scuola di Dio giudica i nostri pensieri tacendo, e dimostra i nostri sillogismi soltanto per il suo immediato essere. La sua onnipresenza è la sola filosofia. Ecco qui frate Ranaldo che muore, dopo essersi laureato, « conventato », a Parigi con molto onore e grandi spese. Frate Ranaldo, dove se' andato? - de quolíbet si hai disputato? Davanti a Dio non giova far sofismi, a petto a quei suoi forti, smediati sillogismi; non c'è bisogno di risme di carta, perché la verità sia manifesta, perché « lo vero sia appaiato »:

     

    Or sei Tonto a la scola - ove la verità sola
    iudica orane parola - e demostra orane pensato.


    Bellissimo; dirà con noi il lettore; ma questa rapita professione di fede mistica non va confusa con la poesia dell'ineffabile di un Dante o di un Leopardi. La poesia dell'inesprimibile, è noto, è una contraddizione in termini. « Se mo sonasser tutte quelle lingue - che Polinnía con le suore féro - del latte lor dolcissimo più pingue » e il «Lingua mortai non dice Quel che io sentivo in seno » non arrivano, come umilmente sospetta il poeta, al millesimo del vero, ma dicono tutta la verità, sono la poesia più espressiva dell'inesprimibile. Il caso di Jacopone è diverso: egli non è il poeta di quell'ineffabile, ma la sua è una perpetua professione di fede filosofica sulla inintelligibilità di Dio, o un sentire immediato Dio nell'attualità del suo mistero. La suggestione mistica di Jacopone è l'estatico silenzio, senza movimento e senza ombre; la suggestione poetica di Dante o di Leopardi è invece il dolce e mai sazio fantasticare. Il poeta solleva e agita la commozione della vita in quel suo negare la vita; il mistico ci fa mutoli e si fa mutolo nell'eterno, e il suo parlare è soltanto un balbettio poetico, come di mutolo a cui si stia per sbrogliarsi la lingua. Però bisogna distinguere tra rapimento poetico e rapimento religioso. Quando il Manzoni celebra i campi eterni « ov'è silenzio e tenebre - la gloria che passò », egli sente e afferma la presenza del suo genio, e su quei campi eterni si estende ancora il dominio della sua poesia e del suo io; ma quando il mistico Jacopone parla « smesurato - de que sente calore », o il suo dolce gaudio riman dentro, « non se sente de fuore », o poiché « lo cor d'amore è preso - che noi po' comportare » - « stridendo el fa gridare »; egli non è poeta nel senso umanistico ed eterno del termine, ma mistico.
    La poesia è ordine e musica: il misticismo è grido, cioè passione. Da ciò il tono realistico della lingua di Jacopone. La passione genera l'ardore del linguaggio espressivo, che non ha nulla di astratto, ma è sempre corpulento, figurativo, si direbbe talvolta anche plebeo. È l'attualità del sentire che ci rapisce in Jacopone, non già il dominio poetico di quel sentire. Il suo ineffabilismo non è solo di contenuto ma di forma.

    A questa attualità del suo sentire Jacopone porta la forza e il rincalzo anche dell'argomentare e del sillogizzare: egli che disprezza i sillogismi umani per amore del sillogismo eterno, si batte perpetuamente sillogizzando. Tanto che renda almeno un'eco di quello unico, muto, ottenebrato sillogismo che è Dio! Le sue laude più propriamente mistiche sono una vicenda assidua di gridi, d'esclamazioni e di ragionamenti, ragionamenti che non hanno nulla di compassato e di scolastico, perché riescono come l'animazione discorsiva di quel suo gioire in Dio. Senza dire poi che l'estatica sua teologia postula necessariamente una prassi apostolica; e però ogni mistico è teologo ed anche apostolo. Le famose satire di Jacopone non sono un episodio sporadico della sua vita, ma sono l'esplosione necessaria di tutto il suo misticismo; e dove si fa clemente il satirico, espone e si batte il catechista. Il mistico sentire, la satira politica-religiosa, il caldo catechizzare sono le vicende assidue del laudario jacoponico; di rado personalità ci si è offerta più potentemente unitaria di quella del nostro scrittore.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis