CRITICA: GIOVANNI PASCOLI

 I VERSI PASCOLIANI

 AUTORE: Renato Serra         TRATTO DA: Scritti

 

Ma questo già non vuol dire che i versi del Pascoli manchino di carattere proprio; anzi l'uno se ne discernerebbe in mezzo a mille, a una certa sua risonanza, che qual sia non si sa sempre dire bene, ma che non si può confondere con altra.
Certo è che le parole più comuni in un verso di lui rendono un suono nuovo; pare che la sua voce nel profferire le faccia vibrare lungamente e tragga dai loro seni riposti echi non conosciuti.
Provate a leggerne qualcuno a caso:


O stolti, quelle trombe erano terra
concava donde il vento occidentale
traeva ansando strepiti di guerra



oppure

Salpava l'eternale àncora e mosse


o ancora


i fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora al vento
e negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie dimenticate.



Son versi che possono contentare qual più qual meno; alcuno è veramente stupendo; ma tutti hanno qualche cosa di comune e di particolare, il suono, l'indefinibile aura pascoliana.
Pare che il loro effetto maggiore nasca dalla intensità del ritmo che li fa spaziosi e vibranti, tutta la loro consistenza è negli accenti che spiccano una battuta dall'altra, che creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga con vasta eco sonora. Rileggete quello che ho sottolineato, e vedrete se è vero.
In termini tecnici, la loro ragione è meramente quantitativa; il verso è sentito come un accordo di tesi profondamente calcate e di arsi vibranti, come musica pura.
Ma intendiamoci bene; musicali, si dice, non melodiosi; poiché a considerare le sillabe e i suoni in se stessi, quanti ce n'è invece duri aspri spezzati difficili!
E vorrei dire che la loro melodia non nasce semplicemente e materialmente dai suoni: nasce da ciò che egli, facendoli, li ha cantati; se li è cantati. Ma non è già la voce intonata caldamente a piena gola sulla lira, modulata e variata nella ricchezza della melodia; è una voce bianca che lascia cadere il verso come cosa venuta di lontano, da un invisibile mondo; voce piana, uguale, un poco stanca d'uomo a cui le parole non importano, poiché la sua anima è assorta: e gli basta che in quell'abbandono monotono di cantilena duri la muta eco dei sogni.
In quanto a fattura e struttura il verso del Pascoli è cosa molto semplice, le parole per solito seguono l'una l'altra secondo la legge dell'uso più comune. Non c'è discorso, non c'è disegno, non c'è composizione; e la frase è la frase usuale, che si trova su tutte le bocche. Voi potete scriverne di seguito quanti volete, senza che nessuno s'accorga mai, almeno alla disposizione e alla composizione delle parole, di avere innanzi dei versi. Da questo punto di vista non sono altro che prosa, la più povera delle prose («O madre il cielo si riversa in pianto, oscuramente, sopra il camposanto. È mezzanotte, nevica. A la pieve suonano a doppio, suonano l'entrata. Ti splende su l'umile testa la sera d'autunno, Maria. Uomini nella truce ora dei lupi pensate all'ombra del destino ignoto che ne circonda»).
Insomma, son versi senza forma; ma - perdonatemi l'orribile bisticcio - in quella mancanza di forma è la loro forma propria. In quell'indefinibile contrasto fra la intensità del ritmo e la povertà del suono, fra la profondità delle intenzioni e il languore dell'espressione, in quella musica vaga di risonanze e di echi, di suggestioni e di accentuazioni il poeta ha sentito se stesso; ha creato la qualità ultima della sua poesia.
Io non saprei descriverla meglio che con le parole di lui; ché veramente i suoi versi, secondo egli disse,


cantano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
rumore.



Cantano forte e non fanno rumore: proprio così.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis