CRITICA: GIOVANNI PASCOLI

 LA POESIA DELLE MYRICAE

 AUTORE: Emilio Cecchi         TRATTO DA: La poesia di Giovanni Pascoli

 

È un'arte tutta cose; le sue asperità son come le asperità della campagna, dolci di grazia augusta; forti, saporose come il pan casalingo. Ed è appunto quel ramo di poesia pascoliana che il Carducci aveva capito e prediligeva:


Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cuor, come a noi grami;
ché d'arguti galletti ha piena l'aia.



La sua profondità è come la profondità d'un silenzio rurale. La mente inquieta non riesce dapprima a distendersi in quel silenzio; ma quando un momento può accordarsi a lui, esso le si riempie di una vita complessa e prodigiosa. Così in queste poesie. Esse fanno dapprima l'effetto di esser frammenti bruti di cose:


Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare;
un'ala di gabbiano...
Cantava al buio d'aia in aia il gallo
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi tra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.



La visione succede alla visione, come fuor di ogni continuità organica, e l'effetto generale è prodotto dall'intensità delle rappresentazioni particolari che si riassociano e risuonano come casualmente nella coscienza, più assai di quel che il poeta le abbia coordinate in una vera rappresentazione. Perciò quest'arte ha potuto esser ravvicinata all'impressionismo. Ma non si sciupino bellezze così pure e di così robusta asciuttezza, associandole a nomi esosi. La poesia di Giovanni Pascoli è impressionista come la poesia di Saffo e di Leopardi. Nei suoi momenti più felici è gettata completamente e senza residuo negli aspetti delle cose, mentre gli impressionisti, della ricerca e della affermazione empirica delle cose, si fanno un preteso sostituto alla povertà creatrice del loro temperamento.

Lo sforzo immediato di quest'arte è certo il conseguimento della maggiore intensità e verità possibile in ogni visione particolare, e nella volontà di raggiungere questa verità, ad ogni costo, è la causa di quel non so che di saltante e di sconnesso, che è tanto differente, nella sua sobrietà, dalla abitudine di amplificazione verbale del Pascoli della maniera più tarda. Ma i motivi che entrano ad uno ad uno nella coscienza, come impressioni spogliate di ogni velleità lirica, vi creano, è la vera parola, la loro lirica, perché sono consanguinei, e possono l'un l'altro riflettere nelle proprie sfaccettature la loro luce: si ha, così, una lirica fatta di lampeggiamenti e di sottintesi, di risonanze e di echi, di analogie profonde che risaltano per virtù di rime che lontanamente si intrecciano, più che per virtù di visioni espresse; lirica della quale una strofa è come l'aspetto di una campagna sotto il fiato opaco di una nube, e l'altra strofa come l'aspetto di questa stessa campagna quando il sole ha lacerato la cortina, sicché, mentre tutto è rimasto uguale, tutto è indicibilmente cambiato; e si sentono le stesse rime squillare ora come bronzo cupo ora come argento tinnulo: una poesia imprevedibile, come appunto un silenzio rurale che si può scavare, percorrendolo per tutti i meandri, seguendolo per tutte le sue voci più opache e segrete: il ronzo delle cavallette, la gualchiera lontanissima, lo stormire delle foglie, il rumore d'un'ala che batte; ma non si può comporre, non si può organare, non si può circoscrivere, perché risulta di mille accordi, è un po' tutti e non è nessuna. Da ciò l'incorporeità complessiva di questa poesia, mentre verso per verso le sue immagini son le più evidenti che mai poeta abbia ideato. Da ciò l'impossibilità, che è stata notata, di leggerla a voce alta; come si può leggere e declamare un sonetto di Foscolo o una strofa dannunziana; e il bisogno, a non voler violentarla, di lasciarla quasi inconfessata nell'anima, sospesa e tutta vibrante come quelle alghe che tremolano volubili nell'acqua iridata dei fiumi. Voler pronunziarla, voler darle quella sorta di vita esteriore che è concessa ai canti di poeti anche assai minori, ma d'altra tempera, è ucciderla, e lo dimostrano i recitatori i quali sogliono inevitabilmente cadere sui canti più dozzinali del Pascoli, su quelli ai quali si può meglio simulare uno scheletro verbale, come La cavallina storna, certi componimenti in terzine, ed altri. Quando essa sale sulle labbra, si raffredda, si intorpidisce, sembra rattrappirsi e svanire, appunto come l'alga che, verde e palpitante nella umida profondità, diventa non più che un piccolo grumo di sostanza viscida e lugubre se la succidi e la vuoi recare all'aria e al sole.

Comunque sia, nei momenti, diremo così, di predominante oggettività, il Pascoli è straordinariamente luminoso e felice, tanto che, perfino, si permette, e gli riesce, quel comico al quale, come il D'Annunzio per un'altra ragione, egli, generalmente, sembra negato. È, il suo, un comico di una specie deliziosa e tutta particolare, impregnato di lirismo, e non ha forse riscontro se non in qualche lirico greco, o in certe soste fra malinconiche e gentili del gran riso di Aristofane. Qui, invece che soste di riso, più spesso sono soste di dolore, ma l'attimo di fluida giocondità è simile. Si ripensi per es. a quella delicata rappresentazione che il Pascoli ha fatto nella Domenica dell'olivo d'una psicologia festiva, per mezzo di una descrizione zoologica, deliziosa per grazia intatta di serenità tenuissima e insieme di commozione e di comicità.
Ma questa ispirazione non è, del resto, quella che predomina, né quella nella quale il Pascoli è il gran poeta che tutti sanno. È necessario che la voce del suo dolore entri nel canto, ad approfondirlo e a dargli risonanza. È necessario che lo spettacolo delle cose si franga, davanti ai suoi occhi, e che l'ala molle e agghiacciante del mistero, dell'ignoto, sfiori il suo cuore. Allora ci troviamo veramente davanti ai suoi capolavori. Si leggano le serie: Dall'alba al tramonto e L'ultima passeggiata. Ivi l'impressione di una malinconia che sboccia in vista di uno spettacolo naturale, pur senza riuscire a impregnarlo tutto o a distaccare l'anima da esso e a farla ripiegare su sé medesima, è colta nella sua fuggevole sospensione, senza code di auto-commenti e senza sistemazioni di cattivo gusto, come quelle cui il Pascoli più tardi ci ha abituati. Non si ode, in verità, distintamente la voce del poeta a confidarci questa malinconia. Ma pare che essa salga su e vapori da quelle voci sperdute nel paese; e allora assume un sapore di ignoto che le si confà meravigliosamente, come in quel piccolo gioiello

LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese...


dove il canto delle donne ai lavatoi si mescola alla malinconia della campagna come un segreto diffuso e non pronunciato, che si dissimula e sottintende sé medesimo in ogni aspetto delle cose; e mentre da ogni aspetto sembra voler fiorire, in ognuno nuovamente si nasconde. A volte questa significazione misteriosa, e diremo così tragica, è fusa compattamente in una figurazione brutale e indifferente, ed è inseparabile da essa; e per questa inseparabilità è ancora più urgente e più efficace. Così per es. in Quel giorno


Or, nel silenzio del meriggio, urtare
là dentro odo una seggiola, una gonna
frusciar d'un tratto: alla finestra appare
curioso un gentil viso di donna.



Il rumore brutale della seggiola smossa, che rompe il silenzio meridiano, l'apparire del volto, son come l'urto di mille possibilità gioconde che balenano ad un tratto alla coscienza, nella domesticità di quel suono, nell'apparire di quel viso, e si sprofondano dolorosamente e si sperdono appena quel suono ha taciuto e quel viso è scomparso.
In generale, i capolavori delle Myricae, e del Pascoli in genere, vivono nella primitività di questi contatti, di questi incroci; son brevi poesie nelle quali l'ispirazione non si svolge drammaticamente, ma insiste su sé medesima concentricamente, brilla in alcuni riflessi, come gli increspamenti circolari di un'acqua nella quale sia caduta una pietra.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis