CRITICA: GIOVANNI PASCOLI

 LA POESIA LATINA DEL PASCOLI

 AUTORE: Giorgio Pasquali         TRATTO DA: Terze pagine stravaganti

 

Nella poesia latina il mondo poetico del Pascoli italiano è trasportato integralmente. Fuori è rimasta qualche onomatopea: qui la tradizione è stata più forte del gusto e della dottrina poetica del poeta moderno, anche della sua audacia. Quel che Valgimigli ha detto a voi di Achille e Odisseo e Alessandro, che nel Pascoli si somigliano e si vede che sono come tanti ritratti di una persona sola, «e questa persona la riconosco subito, con quella sua faccia quadrata e quel suo occhio placido e triste; è il Pascoli», questo vale altrettanto per il Virgilio e per l'Orazio dei Carmina e non meno per il Centurione. Il quale di troppo buona grazia si lascia prendere prigioniero dai bambini e accetta di narrar loro quel che l'interessa con una bonarietà che par si addica piuttosto al secolo dei bambini che al primo avanti Cristo; se anche Orazio si divertì dei vernae procaces e delle loro monellerie. Nel Centurio il Pascoli tenta di mutare in poesia i fraintendimenti degl'interlocutori bambini con procedimento non ignoto alla sua lirica italiana. La madre fraintende, se pure in modo del tutto diverso, il più bambino di tutti, Rufio Crispino. Un bambino e una giovinetta sono il soggetto rispettivamente del Paedagogium e della Phidyle: quello è in tutta la prima parte una trasposizione dei Due Fanciulli. I ragionamenti di Phidyle assomigliano a quelli di Rosa e di Viola. E anche i carmi cristiani più giustamente celebrati, sebbene da molti per ragioni non d'arte ma di contenuto, Thallusa e Pomponia Graecina hanno bambini, vivi e morti, al centro. Poesie antiche che abbiano per soggetto un bambino, non ne conosco.

Tutta la prima parte di quello che dei poemi profani del Pascoli sembra a me il capolavoro, il Fanum Vacunae, è intessuto di sogni. Il sogno nella poesia antica è presagio, vero o ingannevole; non rivela l'uomo a sé stesso. Qui tornano a galla sentimenti che l'Orazio del Pascoli, forse inconsci, ebbe in cuore, l'aspirazione alla mamma non conosciuta e di cui vorrebbe, almeno in sogno, vedere il volto. L'Orazio storico non parla della mamma, ed è alieno da questo così raffinato sentire. Sul sogno dell'Orazio pascoliano agiscono rumori che il dormiente sente e intende senza ridestarsi; questa è osservazione moderna, che solo un poeta così delicato e talvolta così incorporeo poteva sfruttare. Le visioni degli antichi hanno contorni molto più netti.

Le Georgiche ci fanno rivivere innanzi agli occhi gli animali con movenze e aspetti caratteristici, infondono in essi magari vita umana; ma a ogni immagine è concesso un verso o poco più. Non si troverà mai in esse una descrizione così particolareggiata e lenta della sveglia mattutina degli uccelli, come nella settima lirica del Fanum Vacunae. Gli uccelli cacciano fuori il capino nascosto sotto le ali e posano per terra la zampina rimasta a mezz'aria, non appena l'allodola ha dato il segnale con la voce tintinnante. Il paragone militare riempie cinque versi. E si seguita a lungo con particolari squisiti. Si distinguono le parti delle rondini e le parti dei passerotti (al solito un diminutivo, passerculi): gli uccelli notturni, che la tromba antelucana rende nervosi, fanno st! Non è questa la sola armonia imitativa di questi versi, se anche rimane la sola onomatopea: gli altri effetti fonici sono allusivi, non riproduttivi, allitterazioni sapienti, silvas per omnes sibilus sonat levis - st! hinc et illinc mussitant tristes aves, e, più discretamente, serie di parole che finiscono tutte in s: luteis relictis nidulis hirundines. In mezzo a una nota umana, il destarsi della casa:


Pelluntur absque cardinum rittu fores,
patent fenestrae molliter ceu palpebrae.



Queste finestre che si aprono mollemente come palpebre, mi sembrerebbero impossibili in poesia latina antica: il paragone nella soggettiva indeterminatezza è moderno e pascoliano. Ed è già, al confronto, quasi più classico:


Ma non lontana è l'umile casetta
con gli occhi aperti delle sue finestre,
che veglia il dì, che a sera poi l'aspetta...



E nessun poeta antico, inneggiando al sole, avrebbe cominciato con un particolare pittorico del suo sorgere, le nuvole rosee da cui s'inalza; nessuno avrebbe osato dire, e neppure far dire a uccelli, che il sole di oggi è simile a quello d'ieri, più che un loro uovo all'altro. Il proverbio non ha posto nella lirica antica; del Pascoli è invece caratteristico (ed è conforme alla sua poetica) questo mescolare modi familiari, e volgari perforo talvolta, in lirica che vuol essere sublime.

E le cose in questa poesia moderna sono personificate con molto minor ritegno che nell'antica: personificate, ma non allegoricamente, non trasformate in dei, di quella categoria di divinità-concetti astratti che la religione e la teologia romana predilessero, ma umanizzate, sentite come creature umane. Nel Jugurtha, nel breve carme celebre o, secondo altri, infame per gli "spasimanti raffinamenti nel rendere le sensazioni", le tenebre piene di silenzio videro il re chiuso nel Mamertino; il re volse indarno intorno gli occhi aperti:


Tum tenebrae plenae regem videre silenti:
rex oculos circum nequiquam volvit apertos.



È moderno anche che le cieche tenebre vedano. Due righi più sotto il re si tappa gli occhi, vieta a essi, pur avidi, di vedere, per poter credere lui di poter vedere, purché voglia; si preme gli orecchi inconsapevole e li distoglie sordi dalla tacita ombra:


Obstruit ipse oculos, avidos vetat ipse videre,
ut se posse putet, velit modo: comprimit aures
inscius et tacita surdas avertit ab umbra.



È l'analisi raffinata e complicata di un'anima disperata, che ha paura della verità: antica non è né questa psicologia né questa analisi.
Lo stesso si può dire del paesaggio. Anche in una poesia che vuol essere pastorale e idillica, le Bucoliche, non v'è di paesaggio una descrizione filata, per quanto rapide notazioni, sparse qua e là, bastino Perfettamente a creare l'atmosfera. Ma, direi, l'ambiente rimane umano: la natura è, direi, per l'uomo. 1 versi che ho letti nel Rufius Crispinus sono dapprima, come si direbbe in pittura, una marina; una marina senza riferimento all'uomo: il mare vive per sé, ha il proprio sentimento in sé. E importano particolari che quel sentimento suscitano: le lunghe file dei gabbiani, e le vele che vanno per l'alto mare, poi ombre rapide, alate, e la villa di Nerone. Poi lo sciabordare delle onde calme che mordicchiano lievi lievi i sassolini, che tentano il lido con suggere breve.
Si ripensi ai due ultimi versi della prima ecloga virgiliana:


et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.



Qui la breve notazione paesistica serve, guardata dal di fuori, a indicare l'ora, la sera; guardata dal di dentro, a suscitare lo stato d'animo serotino. La vita umana non è perduta di vista neppure per un momento è caratteristica dell'ora il veder di lontano fumare i comignoli delle case rustiche. E le ombre non sono ombre d'ala, non portano nel paesaggio un elemento di mobilità e di irrequietezza; sono ombre di montagne, statiche e maestose.

La forma latina, che pur sembra nata e cresciuta col corpo, riveste nel Pascoli sempre un sentimento non soltanto italiano, anzi europeo o universale, ma moderno e pascoliano. Il mio venerato collega, Attilio Momigliano, che ammira molto i poemi cristiani, ha scritto che «il Pascoli non si è mai ritrovato in una atmosfera così adatta a esprimere la storia intima del suo spirito come quando descriveva la malinconia del paganesimo morente e la fiducia indefinita e triste del cristianesimo nel suo primo sorgere». Questo significa che il Pascoli non è umanista, che egli rimane uomo moderno anche in ciò, che la dottrina etica del cristianesimo è per lui come per ognuno di noi uomini del ventesimo secolo, credenti e non credenti, qualche cosa di incondizionato.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis