IL PETRARCHISMO

  • IL PRINCIPIO D'IMITAZIONE NEL PENSIERO DEL BEMBO
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    Autore: Ferruccio Ulivi Tratto da: L'imitazione della poetica nel Rinascimento

     
         

    L'atteggiamento mentale di fronte ai modelli e il giudizio che di essi si fa, è nel Bembo palesemente intellettuale: come a dire, di sapore manieristico (e si veda come l'affermazione di Virgilio « seconda Natura », anzi una Natura migliore perché purificata, torni poi nel sistema dello Scaligero). Del resto, sovrapposta ai modelli stessi la regola imitativa, il significato artistico di costoro dipende dal fatto che essi furono capaci di riassorbire le conquiste dell'istituto linguistico e stilistico antecedente, astrattamente considerato. Insomma, anche gli ottimi non sono che un insieme di valori che li trascendono. E se è vero che il Bembo dell'epistola non ci dà una qualsiasi ragione o descrizione del rapporto che s'instaura tra sentimento e gusto personale dell'artista intento ad affinare il suo lavoro, né i paradigmi ideali a cui dovrebbe ispirarsi; possiamo affermare, anche in base alle correzioni fatte alle costruzioni e forme boccaccesche e petrarchesche delle Prose della volgar lingua, che la superiore categoria mentale a cui, secondo il Bembo, l'artista avrebbe dovuto rifarsi, consisteva non altro che in una esasperazione del decoro espressivo, in base a un virtuosissimo formalismo che è diverso dal primo impulso edonistico del veneziano: sì che la soluzione finale è sicuramente di timbro manieristico.

    Intorno al rapporto tra modelli e possibilità di superarli mediante la « emulazione » insita nell'« imitazione », può bene informarci anche il modo di concepire un'evoluzione della lingua, nel dire che è « da scriver ben più che si può, per ciò che le buone scritture, prima a' dotti e al popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresì e a' dotti e al popolo degli altri secoli parimente »; e in tal modo è previsto l'uso, sia di una lingua modernamente rinfrescata - « Sono in questa città molti... i quali, orando come si fa dinanzi alle corone de' giudici, o altramente agli orecchi della moltitudine consigliando come che sia, truovano e usano molte voci nuove e per adietro dal popolo non udite, o ne dicono molte usate, ma tuttavia le pongono con nuovo sentimento, o ancora da altre lingue ne pigliano, per fare il loro parlare più riguardevole e più vago, le quali sono tuttavia dal popolo intese... » - sia della lingua del passato - « Ma quante volte avviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo » -; e in sostanza, anche se la posizione del Bembo non è esclusiva come quella dei puristi ottocenteschi, prevede una sottospecie di purismo determinato da un'ideologia estetica (e non, come gli ottocentisti, da un motivo del gusto).
    Lingua vecchia o rinnovata poco importa, purché sia la lingua migliore (e difatti, scopo degli scrittori è di badare a non « piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono... ma a quelle ancora, e per avventura molto più, che sono a vivere dopo loro ») ; e così, modelli del passato o nuove opere animate dall'emulazione poco interessa, purché anche in quest'ultime si attuino dei valori capaci di costituirsi a loro volta a modelli. È una tesi di esemplarità ideologica che domina il sistema bembiano; e se essa non si cristallizza in una enumerazione chiusa di archetipi, si ferma in un'astrazione indeclinabile: l'imitazione dell'optimum......

    L'estetica bembiana (a dirla così) nasce dimezzata in retorica; e il concetto moderno che concentra nella forma i valori dell'opera d'arte sorge qui da un terreno sdrammatizzato, dove la forma non è affatto la sintesi di un processo di ricerca, ma semplicemente l'unico terreno d'azione dell'arte. Nel Bembo, la forma è un mezzo suasorio (così, la poesia è Retorica); anzi, è il mezzo tipico di quella suasione poetica « che fa la verità della scrittura » (Sansone). Ed ha al suo servizio, perfettamente aderenti alla sua linea, lingua e stile.
    Il concetto di lingua opera, come si sa, al centro dell'opera maggiore e più significativa del Bembo.
    La prima constatazione che dobbiamo fare a vantaggio di esso è che la mentalità dello scrittore si rivela alquanto più concreta che in altri (e si pensi al concetto della lingua dello stesso G. F. Pico), tanto più che la lingua è vista in una prospettiva di esperienze imitative che ha quasi un effetto di sequenza « storica » (si pensi alle giuste considerazioni sulla successione del volgare al latino).
    Ma come di fronte al libro non possiamo non avvertire il limite di un intellettualismo finemente rarefatto, di una volontà di comunicativa rispondente a un principio alquanto tenue di cultura e, in fondo, il tono e l'accento di un agiato gusto edonistico che ci fa pensare, più che a libere ambientazioni, a certi « interni » della pittura aulica del tempo (e si pensi all'ordinato succedersi dei « tempi » del « racconto » linguistico, e al troppo logico elevarsi dei « gesti » dei personaggi a concetti, il che non toglie il riconoscimento della sveltezza e del nitore del discorso): così, nel giudizio sull'evoluzione della lingua s'avverte l'attenzione alla serie dei modelli.
    Sentimento della storia, come sentimento dell'ambiente sono al di là delle mète previste dal Bembo, anche se qualcosa ne circola nelle sue pagine.
    Nel parlare del presunto trapasso dal greco al latino, il letterato mostra di apprezzarlo per quanto la nuova lingua fu capace di aggiungere in « dignità e grandezza »; ed anche in altre successioni e derivazioni - come il depurarsi dell'italiano dei peggiori modi popolareschi per attendere a quelli letterari, e magari per tornare alla « maniera della lingua » di « passate stagioni » - l'elemento motore è sempre il senso di grandezza, bellezza e decoro del linguaggio: sì che il tratto storico non fa che risolversi in quello estetico e formale.

    È vero che il Bembo evita un volgare illustre e biasima chi vi ha ricorso, come il Calmeta; ma quel che evidentemente gli preme non è di fondare una bella lingua, bensì di vedere come possa attuarsi un ideale di bellezza nei confini della lingua esistente. La sua astrattezza non inerisce al problema ipotetico dell'invenzione di una lingua (come il mediocre ed espressamente antistorico Calmeta), ma al modo con cui la bellezza viene a realizzarsi in una lingua esistente e viva. Non ha torto il Sansone di notare che la dottrina bembiana è ben diversa da ogni formula di chiuso trecentismo e fiorentinismo, e ch'egli mira a una concezione del bello avverantesi di volta in volta negli scrittori; pure, ciò, se dà un aspetto di concretezza al sistema, non elide l'astrattezza per quel che concerne il modo di verificarsi dell'ideale del bello. In tal senso la concezione è puntualmente rigida, chiusa contro i suoi limiti: si tratta di osservare come, soprattutto i non toscani, « da' buoni libri la lingua apprendendo, l'apprendono vaga e gentile »; di relegare a termini di sciatteria e sguaiataggine il parlare popolaresco, di contra al « vago e gentile stato » derivante dai libri: di introdurre un concetto di lingua «d'uso » dotta in confronto alla lingua letteraria per salvare l'attualità del linguaggio; di scegliere (come si è visto) 1a « maniera » del passato quando è migliore dell'attuale, e finalmente, di illustrare la « proprietà » del comporre con la famosa scelta delle « voci ». E qui l'iniziale difesa di una lingua letteraria in confronto alla lingua d'uso si fa subito espressamente difesa della lingua di un'ideologia letteraria, retta da un principio di retorica; pur essendo vero che in questa retorica si dispiega una sensibilità estetica e una capacità di dar voce a certe lievi inflessioni d'accento dilatate all'infinito che anche oggi non cessano di colpire il lettore.

    Non è, dunque, che la mentalità del Bembo sia improduttiva o negativa. Si deve dire piuttosto che è una forma mentis tipicamente limitata. Entro il suo sistema, egli si muove con un'intelligenza e una penetrazione eccezionali. La sua è una caratteristica attitudine analitica, l'attitudine del critico che opera su un quid datum, e ne svolge le possibilità recondite. Ma dire ciò è ben diverso dal riconoscere in lui quella libera immaginativa, quel senso di libertà morale e spirituale, quella ardita facoltà di giudizio, e infine quella capacità di trarre a luce spunti e principi innovatori - come il senso storico, che indubbiamente ebbe luogo in seno al tardo umanesimo, o una più libera nozione estetica che altri più libero e vigoroso, come il Poliziano, era capace di presentire. Nel Bembo si ha continuo il senso di un intervento di schemi, che opera direttamente sul nucleo concettuale; e che mentre gli inibisce l'intelligenza poetica di Dante, con l'assurdo rifiuto della stupenda similitudine degli scabbiosi, gli fa porre, poi, anche l'intelligenza del Petrarca sul piano di un'abile convenienza retorica della scelta delle voci e locuzioni: che sarà la causa prima del fatale spostarsi dell'asse del giudizio petrarchesco al grado di una analisi formale.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis