QUATTROCENTO

  • IL MOTIVO DOMINANTE DELLA POESIA DEL POLIZIANO
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    Autore: Attilio Momigliano Tratto da: Introduzione ai poeti

     
         

    Nella Giostra l'anima del Poliziano è leggera, nuova e fragrante; la malinconia dolce delle cose troppo belle vela, tenuissimamente, il suo splendore e le infonde il sentimento vago della fine.
    L'esortazione a cogliere l'ora che passa, motivo giovanile e malinconico della classicità umanistica, suona nelle ballate ma è presupposta da tutta la grande lirica del poeta delle Stanze. L'incanto del suo mondo è troppo irreale, perché la coscienza non ne avverta indefinitamente la fugacità inevitabile; il pensiero:

     

    Cosa bella e mortal passa e non dura


    non gli si forma mai nella mente; ma nel cuore c'è una trepidazione non più che accennata, che non affiora mai, e dà alla visione la levità delle cose che non sono di questa terra. Simonetta è l'immagine di quella poesia: Simonetta che appare come una forma venuta da un regno fatato, e in un attimo conquide il giovine Iulio, e, pur parlandogli di questa terra, ha già nella voce come la risonanza di una musica che s'allontana. Scomparsa, ritorna in sogno già staccata dal mondo; c gli occhi innamorati quasi non la possono più raffigurare:

     

    Vedeasi tolto il suo dolce tesauro;
    Vedea sua ninfa in trista nube avvolta
    Dagli occhi crudelmente essergli tolta.


    Simonetta è l'immagine di quella poesia e l'anima della prima e pura giovinezza, che vive con le forme di un sopramondo calate per breve ora quaggiù. Con quanta finitezza e semplicità di contorni è resa quella stagione breve dello spirito, in cui gli avvertimenti della realtà non si manifestano se non nel troppo stesso di quella beatitudine, e le più leggiadre apparenze del mondo si rispecchiano sole nell'acqua calma della fantasia! È un momento che il Poliziano ha espresso quasi istintivamente, in pure immagini, senza quasi residui di sentimento. Siamo noi che leggendo il poema vi sentiamo dentro la fantasia della prima giovinezza candida e felice, con sul volto il velo, non più che adombrato, d'un destino fugace. Le Stanze nascono da un'incoscienza beata, resa più dolce e più fine da quel senso appena avvertito di soavità che soverchia: sono, in lineazioni fantastiche e mitologiche, in persone e paesaggi, la rappresentazione della giovinezza nella sua idealità più tersa, nella sua piena capacità di trasfondersi nelle apparenze delle cose.
    Si comprende che in questo stato dell'anima confluiscano rare movenze dello stil nuovo e frequenti atteggiamenti della classicità più definita e più sobria. Mala poesia di quella scuola poteva solo di quando in quando coincidere con la fantasia del Poliziano, perché, nella comunanza del sogno, subito le distaccava la fonte stessa di questo sogno, che nel poeta delle Stanze è quella concordia idillica con la fragranza della natura, quell'immergersi naturale dell'anima nelle cose, mentre nell'antica scuola è l'estraniarsi assoluto da queste dietro un sentimento nato più da una parvenza che da una forma salda. Perciò la poesia della Giostra è ben più giovanile che quella del Cavalcatiti, piena com'è del senso che prova l'anima quando si affaccia sopra questa:

     

    Bella d'erbe famiglia e d'animali,


    fisa com'è sopra lo spettacolo nuovo del mondo; ed è ben più vicina alla grande poesia classica dell'antichità, nella quale le linee esteriori del mondo si disegnano colla purezza immobile della contemplazione senza pensiero.
    In questo sfondo di cristallina serenità tutte le parvenze dell'umanità e della terra si dipingono fresche e schiette e rendono l'immagine della vita nelle ore più limpide della giovinezza. Di qui quella grazia del nucleo immortale delle Stanze, quei contorni chiari e appena segnati che si fondono con la temperata luminosità del quadro, e sono la caratteristica superiore della lirica del Poliziano. Di qui quel nitore che non è più astrattismo e non è nemmeno concretezza, quel senso di vita fluente e felice che è uguale dovunque e non culmina in nessun luogo, quel trasvolare della fantasia di cosa in cosa delibandole appena, come se dovunque fosse la medesima pace e la medesima bellezza:

     

    E la ingegnosa pecchia al primo albore
    Giva predando or uno or altro fiore.


    L'attività di quella fantasia è proprio l'operosità idillica dell'ape che trova il miele saporoso in ogni calice: una mobilità tranquilla e uguale, da cui nascono naturalmente certe mosse dominanti che ne tradiscono il ritmo caratteristico, e si ripetono talvolta con una leggera monotonia: il lento mormorio delle fronde, delle acque, dei canti; il venticello che appena spira; i capelli e le vesti all'aura sparsi; i campi che si coprono di fiori. Anche i movimenti rapidi non hanno nulla di brusco e non scompongono la fisonomia di quell'arte, dove il mondo assume l'apparenza facile d'uno spettacolo che lega l'anima e i sensi: la corsa ha l'agevolezza e l'agilità delle membra giovani che godono di esercitarsi; e Iulio va attraverso la foresta, con il cavallo che ha Pale ai piedi:

     

    Con verde ramo intorno al capo avvolto,


    come con un segno della sua giovinezza intatta e fiorita. Tutto intorno il mondo è mosso e dipinto, ed ha la lucentezza molle, sana, irreale che nell'erba appena nata dura pochi giorni e poi si fa più rigogliosa e quasi sensuale: e la terra perde, direi, il suo candore. La poesia più alta del Poliziano, quella più sua, nasce in quest'atmosfera spirituale, in questo breve giorno della vita, al di là del quale il sogno si gonfia e freme, e vi fermenta già dentro la sensualità in cui troppo spesso si esaurisce e muore.
    Vi corre dentro una melodia d'acqua vellutata e smorzata dall'erba, che scene nell'anima come un lavacro. Il verso trapassa di cosa in cosa, sempre mutevole e uguale, come l'onda:

     

    E vanne e vien, come alla riva l'onde.


    La passione non la turba, perché l'anima è ancora soltanto capace di contemplazione e di abbandono.

     

    Quanto è più dolce, quanto è più sicuro
    Seguir le fere fuggitive in caccia
    Fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
    E spiar lor covil per lunga traccia!
    Veder la valle e '1 colle e l'aer puro,
    L'erbe e' fior, l'acqua viva chiara e ghiaccia!
    Udir gli augei svernar, rimbombar l'onde,
    E dolce al vento mormorar le fronde!
    Quanto giova a mirar...


    Voi sentite la foga leggera dell'età che ha ancora il cuore sgombro, vedete il giovane silvano che è trascinato dalla natura come da una musica; e sentite che Julio è tutt'uno con le cose, che quelle piagge, quella foresta, quelle onde mormoranti; quel canto di uccelli nascosti tra le fronde, quelle immagini e quei suoni sono la stessa anima del protagonista fisa su quel dono di Dio che è il mondo a vent'anni per le creature privilegiate. E istintivamente separate dal poema le adulazioni, i toni epici, i luoghi comuni, e conservate nella fantasia la maliosa storia di Julio, quella fiaba e realtà insieme, dove è rimasta dipinta nei secoli quella divina stagione dell'anima in cui essa vaga per il mondo come per un giardino incantato, fatto perché essa vi spazi sfogandovi la sua giovane forza.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis