CRITICA: TORQUATO TASSO

 L'ULTIMO TASSO E IL "MONDO CREATO"

 AUTORE: Giovanni Getto    TRATTO DA: Interpretazione del Tasso

 

Il Tasso non è evidentemente il religioso cantore delle creature né l'ispirato interprete della creazione. Il lirico motivo biblico della lode delle creature aveva trovato un'eco commossa in Francesco d'Assisi, mentre l'epos della creazione trovava riflessi di grandiosa originalità nella pittura di Michelangelo. I germi poetici contenuti nella Bibbia saranno ripresi in tutta la loro complessità di motivi soltanto da Milton.
Nel Tasso invece, qualunque sia stata la sua intenzione, passerà semmai solo qualche accento della elegia della morte o qualche bagliore della apocalisse della fine del mondo.
Evidentemente, alla base del poema c'è un'esplicita intenzione religiosa, di celebrazione e di epopea del Dio creatore, un'intenzione che costituisce un « pensiero » che rimane presente all'intero complesso di queste nove migliaia di endecasillabi. Che poi l'effettiva animata parola vada oltre questo disegno, e che non si verifichi quindi una coincidenza fra l'astratto proposito e la concreta espressione, è fatto abbastanza naturale e da valutarsi con oculata serenità, anche per evitare di cadere in un gratuito giudizio negativo, ripetendo l'errore del Donadoni, che dall'esame del poema, estrinsecamente limitato alla sua « fabula », derivò una sentenza di fondamentale svalutazione. Ed in effetti la constatata negatività del mondo religioso introdotto dal Tasso nei suoi versi non deve risolversi necessariamente in una negazione del significato umano e stilistico del poema.

Comunque varrà la pena di esaminare nella sua configurazione questo mondo religioso, che, del resto, non serberà possibilità di troppi nuovi accertamenti rispetto ai risultati cui siamo pervenuti attraverso la analisi delle altre opere. Potrà anzi riuscire sufficientemente indicativo un semplice sguardo sulla apertura del poema, che si risolve in un'invocazione alla Trinità, prolungata in un discorso di un centinaio di versi, che prendono al nostro assunto un valore fortemente emblematico:

 

Padre del Cielo, e tu del Padre eterno
Eterno Figlio, e non creata prole,
De l'immutabil mente unico parto:
Divina imago al tuo divino esempio
Eguale; e lume pur di lume ardente:
E tu, che d'ambo spiri, e d'ambo splendi,
O di genuina luce acceso Spirto,
Che se' pur sacro lume, e sacra fiamma,
Quasi lucido rivo in chiara fonte,
E vera imago ancor di vera imago,
In cui se stesso 'l primo esempio agguaglia,
(Se dir conviensi) e triplicato Sole,
Che Palme accendi, e i puri ingegni illustri;
Santo don, santo messo, e santo nodo,
Che tre sante Persone in un congiungi
Dio non solingo, in cui s'aduna 'l tutto,
Che 'n varie parti poi si scema, e sparge;
Termine d'infinito alto consiglio,
E de l'ordine suo: divino Amore,
Tu dal Padre e dal Figlio in me discendi
(I, 1-20)


In tutti questi versi, e in quelli che seguono, non c'è il battito di un'ansia schiettamente religiosa, l'adorante emozione del divino, quale si può trovare nelle pagine di alcuni mistici. Piuttosto si determina in essi un movimento liturgico, e vi suona l'aria maestosa e un po' facile di un canto corale. L'effetto a cui il poeta tende è quello di un'azione spettacolare, di una musica da parata, oratoria dunque e non lirica. Il mistero si trasforma da realtà spirituale, partecipata dall'intelligenza o dall'anima, in realtà puramente liturgica; diventa insomma occasione di solennità rituale, di celebrazione misterica. Se il Dio di Manzoni è il Dio vivente nel cuore degli uomini, il Dio che atterra e suscita che affanna e che consola, e se il Dio di Dante è il Dio metafisicamente concepito come atto puro, mente e legge dell'universo, monarca universale, legislatore e giudice, fonte di grazia e di giustizia, il Dio del Tasso è invece il re maestoso, che, lungi dall'essere intuito al vertice del mondo e della natura, appare effigiato nel tempio cattolico, in alto entro le cupole dipinte di affollati trionfi di santi e di angeli librati su nubi, il re appunto di cui non i cieli « enarrant gloriam » ma le dorate chiese barocche nelle quali, come in reggie fastose, si svolge lo splendido cerimoniale del culto. La religione del Tasso si traduce dunque in vicenda esteriore e spettacolare, in un'azione liturgica, in cui le formule teologiche valgono noli solo come elementi e frammenti di prediche e di preghiere, ma ancora come forme e figure che si pongono accanto alla pompa del rito e al corpo della gerarchia.

Senonché, accanto alla religione dogmaticamente e canonicamente definita, ed entro le linee di essa, si sviluppa un intimo sentimento religioso, una personale religiosità, che non è poi altro che una sofferta convinzione che si raccoglie intorno all'uomo e al suo destino, alla sua vita dolente e faticosa, fuggevole e senza pace, alla sua morte crudele e implacabile. Gli uomini, entro il tessuto espressivo del Mondo Creato, sono nominati costantemente sotto il riflesso di un'aggettivazione carica di sentimenti di stanchezza e di pietà: « miseri mortali », « faticosi e rigidi mortali », « egri e miseri mortali », «faticosi e miseri mortali» e simili. E la loro condizione, osservata con veloci illuminazioni analitiche, si rivela in una serie di dolorosi scorci che si aprono via via lungo lo sviluppo del poema, e definiscono conclusivamente una prospettiva grondante di dolorosa malinconia. È, intanto, la coscienza della fragilità del conoscere umano: « ... nostra ragion ha corti vanni Dietro il senso fallace... »; oppure: « O vana sapienza, e vano ingegno De la natura umana in Dio superba! » (II, 157-158; 460-461) o ancora con una più suggestiva risonanza del motivo essenziale del gusto tassiano:

 

... in polve è scritta ed in minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin, che Palme illustra:
Onde ne l'imbrunir d'un breve giorno
La si porta e disperde 'l mar e 'l turbo
[IV, 814-818]


verso in cui l'accento lirico batte non certo su quell'inciso, « senza lume divin », dettato dall'ossequio formalistico alla religiosità ufficiale, ,ma sulla scontata convinzione della irrimediabile vanità di ogni conoscenza. È poi la nostalgia della pace così incerta stilla terra (« Se quiete è quaggiù fra 'l pianto e l'ira »: 1, 39) e sospirata lungo tutte le sette giornate e posta come meta fatale, unicamente in Dio (« Ma nel creator pace e riposo Han le create cose... »: VII, 144-145)...

E si ritorna fatalmente al gran tema del perenne cadere delle illusioni che sorridono per breve ora al cuore dei mortali; il tema che è al centro di tutta la meditazione poetica tassiana, e che segna l'unico autentico palpito di religiosità del suo poetico dire, il punto estremo e il più sincero del suo mondo religioso, rispetto ai temi più esteriori e gelidi del diffuso conformismo. Nel Mondo Creato si alternano e si incontrano via via i modi di questa varia contrastante tematica: e fluiscono l'uno nell'altro con unità di discorso, anche se con diversità di accento, come si può osservare nei versi finali del primo giorno, che mormorano prima una loro musica dolente, sospirosa di pace e angosciata dal senso della morte, anelante ad un giorno che non conosca tramonti, a quella luce:

 

La qual non corre faticosa al vespro
Non ha sera, o confin di fosco o d'ombra
(I, 642-643)


e poi si gonfiano in retorici squilli di esaltazione della « Santa Chiesa di Roma » e dell'«altissimo seggio» su cui sta Clemente VIII, donde quella luce è sicuramente additata.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis