IL TRECENTO MINORE

  • I FIORETTI DI SAN FRANCESCO
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    Autore: Attilio Momigliano Tratto da: Studi in poesia

     
         

    Si trova nei Fioretti un realismo, che rara volta è anche crudo - e ci meraviglia -, e sempre ci dà l'impressione schietta dell'ambiente povero in mezzo al quale si svolge quella vita di dedizione. Voi non potete staccare i sacrifizi dei fraticelli dai loro miseri «luoghi», dalle casupole, dalle piazze dei villaggi affollate di contadini e di monelli che li tirano per il capuccio, li urtano, li coprono di polvere; come non li potete staccare dalle foreste solitarie e mute e da quel paesaggio che, per virtù di san Francesco, sembra anche ora il più contemplativo del mondo. Voi non dimenticate più la campagna invernale, dove il santo insegna a frate Leone « quelle cose che sono perfetta letizia », perché quella è una scena unica nel libro: ma da tutte le visioni e meditazioni dei Fioretti spira continuamente, per una virtù più religiosa che descrittiva, una suggestione di solitudine santa. Le parole piane, il ritmo placido e uguale dipingono, senza parere, un paesaggio limpido, dentro il quale naturalmente l'anima si fa chiara e vede le verità nascoste e vitali.
    Quella dei Fioretti è proprio la prosa del rapimento, della mansuetudine e dell'affetto. Ha una semplicità che non è dei poveri di mente, ma di coloro che sono abituati a sfrondare le cose del mondo. È quasi scarna, e sembra alleggerita dalla meditazione costante sui pochi sentimenti che reggono davvero la vita, fatta trasparente dalla dimestichezza con la povertà che insegna quanto poche siano. le cose necessarie a vivere.

    E perché chi scrive ha una lunga abitudine alla riflessione, ha lo sguardo sicuro, penetra facilmente i caratteri, delinea con poche parole una scena, riflette in un dialogo brevissimo i personaggi e le consuetudini del loro spirito. Anche qui le impressioni che si staccano dal fondo del libro, sono rare, perché quasi dovunque si tratta di uomini umili e pii. Ma dove la materia cambia, si rivela una vivacità drammatica insospettata, la quale - tuttavia - ha sempre la stessa fonte spirituale. Un giorno, mentre san Francesco è in orazione nella selva, un giovane picchia « in fretta e forte e per grande spazio » alla porta del convento: Frate Masseo apre: - Onde vieni tu, figliolo, che non pare che tu ci fossi mai più; sì hai picchiato disusatamente? - E come si deve picchiare? - Picchia tre volte, l'una dopo l'altra, di rado: poi aspetta tanto che il frate abbia detto il pater noster e venga a te; e se in questo intervallo e' non viene, picchia un'altra volta. Il giovane ha fretta: vorrebbe parlare con san Francesco, ma poiché questi è in contemplazione, fa chiamare frate Elia. Frate Masseo tarda a tornare: il giovane picchia un'altra volta come prima. Poco dopo frate Masseo viene alla porta e dice: - Tu non hai osservata la mia dottrina nel picchiare. - Il giovane sa che frate Elia non vuol muoversi, e gli fa comandare da san Francesco di ubbidire. « Udendo frate Elia l'ubbidienza di santo Francesco, andò alla porta molto turbato, e con grande impeto e romore l'aperse, e disse al giovane: - Che vuoi tu? - Il pellegrino gli pone la sua questione; Elia gli risponde superbamente; - Io so bene questo, ma non ti voglio rispondere; va' per gli fatti tuoi. - Il giovane replica; - Io saprei meglio rispondere a questa quistione, che tu. Allora frate Elia, turbato, con furia chiuse l'uscio e partissi. Poi cominciò a pensare della detta quistione... » E non sapendola risolvere, torna alla porta per domandarne al giovane: « ma egli s'era già partito; imperocché la superbia di frate Elia non era degna di parlare coll'Agnolo ». Che il pellegrino sia un angelo si presente dal modo com'è delineata la sua figura, dal modo com'egli arriva alla porta, dalle cose che egli mostra miracolosamente di sapere, dal misterioso significato che ci sembra d'intravedere nel fatto che proprio durante questa visita san Francesco « orava nella selva colla faccia levata verso il cielo»: ma più si sente la sua natura sovrumana in questa scena dove è accennato con un tocco così leggero e reale il profilo flemmatico del frate portiere, e colla stessa sicurezza e con un atteggiamento più riflessivo l'impetuosità di frate Elia.

    Questi quadretti rapidi e sottili sono rari, e per la loro brevità si dimenticano. Ma anch'essi guidano a comprendere la fisonomia e i modi dominanti del libro. Come poco basta allo scrittore per cogliere un movimento o un'abitudine dello spirito, così poco gli basta per dare l'impressione della santità e della campagna romita. Egli ha una rara esperienza della vita morale: e una sfumatura e certe pause naturali e significative valgono per lui più di molte parole. Ha la sobrietà che nasce dalla lucidità interiore, dall'avere per guida costante un sentimento risoluto: qualità necessaria così al santo come al poeta.
    I Fioretti sono il poema dell'umiltà, dell'aspettazione fiduciosa tutto il resto, tutto ciò che non giova a questo sentimento, non è veduto, è come se non esistesse. La realtà è orientata in un certo modo, e ridotta, come avviene sempre nell'opera di un poeta: nulla vi è di estraneo a quell'orizzonte. E perciò il libro è pieno di armonia, ed è tutto consapevole del suo fine; e questo fine, purissimo, spira nella sua prosa come il soffio che informa una fiala di cristallo.
    Bisogna aggiungere, per dire tutta la verità, che il volume è più uguale che ricco, che la sua arte è inconsapevole, che perciò la materia è spesso ripetuta, non molto ordinata né collegata, e a lungo andare anche gli atteggiamenti stilistici rivelano i limiti di quella poesia. I Fioretti nascono da un solo motivo generatore: ma questo motivo è poco fecondo. Perciò la lettura continua stanca, e i capitoli famosi non sono molti: quello di frate Leone, a periodi lirici e calmi, come un inno alla perfetta letizia; quello del lupo che, mansuefatto da san Francesco, « entra dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare male a persona, e senza esserne fatto a lui », e « giammai nessun cane gli abbaiava dietro »; quello della predica agli uccelli, che alle parole del santo aprono i becchi e distendono i colli e aprono le ali e reverentemente inchinano i capi infino a terra, e poi si levano in aria con meravigliosi canti evolano per i quattro punti dell'orizzonte, presagio dolce e solenne della fortuna dei poverelli di Cristo. Ma qualche altro meriterebbe la stessa fama: quello di sant'Antonio che predica ai pesci, stesi dinanzi alla riva in un cerchio ordinato e grandioso, descritti con lo stesso nitore degli uccelli, e come accarezzati dallo stesso effetto; e quello di san Francesco che loda a frate Masseo la povertà, ciò che non è procurato dall'industria umana ma apparecchiato dalla provvidenza divina, il «pane accattato », « la mensa della pietra così bella », « la fonte così chiara ».

    Tutto il libro è una lode, ora sommessa, ora alta, della creazione. Ma quando lo scrittore è dinanzi alle creature semplici - gli animali -, e alle cose che Dio ha fatto per i bisogni immediati dell'uomo, la sua parola si fa più commossa, acquista una tenerezza piena di gratitudine e d'innocenza.
    Così la sua ammirazione è per i tuguri coperti di graticci, per i letti fatti di poca paglia distesa sulla nuda terra, per le anime che ignorano il desiderio o l'orgoglio.
    In questa solitudine a cui bastano un sorso e un pane, l'anima si fa più fine e più penetrante, si sgombra dalle passioni, e la sua parola diviene persuasiva e amorevole. Chi scrisse questo libro, dovette partecipare delle stesse esperienze spirituali di san Francesco: altrimenti non si spiegherebbe la naturalezza e la brevità convincente, con cui egli ritrae la facile chiaroveggenza psicologica del protagonista e la sua spontaneità nell'indovinare e soggiogare le anime.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis