LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO

 

Luigi De Bellis

 


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Il Cinquecento

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Niccolò Macchiavelli: le opere

Tra le opere anteriori all'esilio sono da ricordare "Belfagor", novella arguta e succosa; "Decennale primo" e "Decennale secondo", in cui espone in terzine le sciagurate vicende italiche dal 1494 al 1508; "Ritratto delle cose dell' Alemagna"; "Ritratto delle cose di Francia"; Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nell'ammazzare Vitellozzo Vitelli, ecc.".

Durante l'esilio scrisse le sue opere maggiori: "Il Principe" ed i "Discorsi sopra la Prima deca di Tito Livio".

"Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio", è un trattato che commentando passi dei primi dieci libri delle Storie di Livio, ma tenendo conto anche di altre parti dell’opera dello storico antico, illustra i grandi princìpi informatori del realismo politico. Iniziati prima del Principe, in quanto opera più specificamente dottrinale, vennero sottoposti a lunga elaborazione (1513-1521). I tre libri in cui si dividono sono dedicati a tre questioni fondamentali: il primo alla costituzione dello Stato, il secondo ai suoi allargamenti territoriali, il terzo alla sua stabilità e alle trasformazioni che tuttavia subisce nel corso degli anni sino al momento della decadenza. Ma la divisione in libri è tutt’altro che rigida, né la lezione estratta da Livio basta a spiegare la ricchezza e la complessità del pensiero qui contenuto.

Il "Principe", di 26 capitoli, intitolato latinamente De principatibus, scritto nel 1513, completato e ritoccato non più tardi del primo semestre del 1514; venne dedicato a Lorenzo di Piero de’ Medici, al quale è pure rivolto l’ultimo capitolo (XXVI), scritto verosimilmente al tempo della dedica (1515), per esortarlo a liberare e unificare politicamente l’Italia. Il trattato, nato da eccezionale fervore intellettuale, e più di ogni altro scritto del Machiavelli atto a farne conoscere il pensiero e lo stile, retto da una logica serrata, sprezzante di abbellimenti letterari ma ricco di estro immaginativo, è strutturato in tre parti: una prima (capp. II -XI) sui vari tipi di principati con interesse speciale per i principati di nuova costituzione e contenente un acuto esame della politica di Cesare Borgia; una seconda (capp. XII- XIV) sul problema delle milizie; una terza (capp. XV -XXV) nella quale, posta la distinzione tra politica e morale, sono illustrate con spregiudicatezza le norme cui deve attenersi il principe. Benché il breve trattato per la sua ispirazione sia opera fortemente unitaria e tra capitolo e capitolo, tra argomento e argomento siano strettissimi i rapporti logici, è nella terza parte che si trova compendiata nella forma più suggestiva la teoria machiavelliana. Qui il riconoscimento dell’autonomia della politica assume il forte colorito drammatico per il quale Machiavelli, anziché assertore di immoralismo, ci appare il fondatore di un’etica nuova, decisamente realistica. Qui il destino dell’uomo politico che deve usare la ragione e la forza e sapere "stare in su la golpe e in sul lione", risulta tutt’altro che una celebrazione della tirannide. Ed è pure nella terza parte che trova la sua formulazione più limpida il concetto di virtù e fortuna, nel quale sta il fondamento della concezione moderna della storia, intesa come fatto tutto umano, regolato dal rapporto dialettico tra l’azione dell’individuo e la realtà nella quale egli si trova a operare.

Sono ancora da ricordare:

"Dell’arte della guerra", trattato in sette libri, composto negli anni 1519-1520. Dedicato a Lorenzo Strozzi, finge di riferire conversazioni avvenute negli Orti Oricellari, a Firenze, tra Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla, Luigi Alamanni e il grande condottiero Fabrizio Colonna, al quale l’autore fa esporre le sue stesse idee. Dal punto di vista tecnico sono importanti la difesa della fanteria rispetto alla cavalleria, la svalutazione dell’artiglieria, il tentativo di ricavare dall’organizzazione dell’antico esercito romano una lezione valida per i tempi moderni. Ma più importa nel trattato l’ispirazione politica, per quello che vi è detto sulla necessità delle milizie cittadine e per il modo nel quale il problema militare è connesso a quello della libertà d’Italia.

"La Mandrágola", commedia in prosa con prologo e brevi intermezzi in versi scritta nel 1518 e probabilmente rappresentata per la prima volta a Firenze nel carnevale dello stesso anno. L’azione si svolge a Firenze: il giovane Callimaco, innamoratosi di Lucrezia, moglie giovane e onesta del vecchio e sciocco messer Nicia, con la complicità del parassita Ligurio e la connivenza di Sostrata, madre di Lucrezia, e di frate Timoteo, confessore delle due donne, riesce a possedere l’amata. Il titolo viene dalla pozione d’erba mandragola che Callimaco, fingendosi conoscitore di medicina, prescrive a Lucrezia perché possa aver figli. Nonostante i tratti buffoneschi coi quali è rappresentato messer Nicia, la commedia, che è il capolavoro del teatro italiano del Cinquecento, si ispira a una concezione morale fortemente pessimistica, accentuata nei personaggi di frate Timoteo e Sostrata.

Nei "Discorsi", che furono iniziati prima ancora del "Principe", poi sospesi e ripresi dopo la stesura dell'opera maggiore, il Machiavelli afferma che se per far divenire forte uno stato occorre l'opera d'un solo, quando lo stato è forte è preferibile che venga retto da un governo repubblicano.

"Clizia", recitata nel 1525. Derivato dalla Casina di Plauto e rappresenta l’amore di un padre e d’un figlio, Nicomaco e Cleandro, per Clizia, con la conclusione delle nozze tra i due giovani.

 
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