LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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DANTE





Dante: introduzione al Convivio


Introduzione al Convivio
- Giuseppe Bonghi -

         Dante comincia a scrivere il Convivio quasi certamente nel 1304, due anni dopo essere stato esiliato da Firenze; la data è desumibile anche da quel che lo stesso Dante scrive nel Cap. V del Primo Trattato: "Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza", a proposito della mutabilità del volgare. Ricordiamo che Dante cominciò a scrivere il De Vulgari eloquentia, anch'esso incompleto, prima del febbraio 1305. La composizione dell'opera procedette a rilento; tra il 1306 e il 1308 (secondo due accenni contenuti nei capp. III e XIV) lavorava al quarto Trattato, che viene concluso: ma l'opera, proprio in quel periodo, non verrà più ripresa, forse a causa della composizione della Divina Commedia, che non lasciava spazio sufficiente alla prosecuzione di un'opera così importante e vasta.
         Il Convivio è la prima opera in cui Dante dà un inquadramento dottrinario alle sue meditazioni etiche e politiche e alla sua esigenza di rinnovamento politico e morale, e viene scritto in volgare per iniziare alla scienza e alla conquista del vero i laici che non conoscono il latino: al trattato sono interessati innanzitutto quelli che non conoscono il latino e non sono letterati, ma amici, cioè coloro che hanno come fine il bene comune.
         Il Convivio avrebbe dovuto contenere quattordici trattati su altrettante canzoni e un proemio come introduzione generale.

Trattato 1
Il volgare e il ruolo dell'intellettuale


Nel primo Trattato viene indicato il titolo dell'opera con la metafora con la quale Dante presenta questa sua opera: un banchetto di sapienza, in cui le vivande sono le canzoni e il pane il commento in prosa. I convitati sono tutti selezionati: nobili d'animo, sia uomini che donne, tutti affamati di sapere, tenuti lontani dagli studi da impegni civili e politici. Non è un pubblico di dotti e letterati, che parlano in latino, una lingua immutevole e immutabile, ma laici che parlano in volgare, fino a quel momento usato solo nella poesia amorosa, ed ora per la prima volta usato per in un'opera dal carattere dottrinario. Il XIII capitolo si conclude proprio con un elogio appassionato e profetico del volgare, che sorgerà là dove tramonterà il latino.
         Chiaro il ruolo dell'intellettuale, che è quello di ammaestrare, di divulgare esperienze e conoscenze: di inducere li uomini a scienza e vertù. Alla consapevolezza di questa funzione, culturale e morale, si collegano sia la scelta del volgare, come lingua da usare, sia la difesa della sua fama, intaccata dalla condanna all'esilio.
         Concezione del linguaggio come organismo vivo, mutabile, dotato della stessa "infinita" perfettibilità che è propria dell'esperienza umana alla quale esso dà forma.

Trattato 2
lode della filosofia - i quattro sensi della scrittura
Canzone: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete


La canzone risale alla fine del 1293 o agli inizi del 1294, e illustra il conflitto fra l'amore per Beatrice e quello, recente e vittorioso, per la donna gentile, la stessa di cui si parla anche nei capp. 35-39 della Vita Nova. Il commento è preceduto dal passo sui quattro sensi della scritture: letterale, allegorico, morale, anagogico, e sulla distinzione fra l'allegoria dei poeti (che è veritade ascosa sotto bella menzogna) e l'allegoria dei teologi (che si basa su un significato letterale e veritiero.
         Nel commento della canzone Dante affronta l'esposizione dell'ordine dei cieli, delle gerarchie angeliche e dell'immortalità dell'anima. Dal cap. XII, dopo aver ricordato la scomparsa di Beatrice e le letture consolatorie di Boezio e Cassiodoro, il Poeta accenna alle difficoltà affrontate nei trenta mesi della sua formazione filosofica.
         Nell'interpretazione allegorica la donna gentile viene presentata come simbolo della Filosofia.
         Dante pone se stesso come protagonista di una vicenda segnata dal progressivo ampliarsi degli orizzonti di conoscenza e dall'aricchirsi e il mutarsi dei problemi legati alla realtà culturale e politica.
         La dinamica e l'apertura del II trattato si trasferiscono nel campo delle virtù sociali e individuano come proprio interlocutore privilegiato una nuova classe dirigente.

Trattato 3
lode della filosofia - la donna gentile
Canzone: Amor che ne la mente mi ragiona


Il terzo Trattato è strettamente collegato col secondo. La canzone è dedicata alla lode della donna gentile, che personifica la Filosofia, e presenta le tematiche:
         a) della donna angelo
        b) della donna venuta dal cielo in terra a miracol mostrare e a portare beatificazione;
         Il fine della presenza sulla terra della donna gentile è di rendere virtuosi gli uomini e di confortarli nella fede, perché possano raggiungere il vero fine della vita umana, che è quello della felicità eterna, cioè la visione eterna di Dio.
         Le due tematiche sono inserite in un contesto sociale e culturale già differente da quello predominante nel medioevo, con una cultura religiosa dalle caratteristiche più moderne in cui la coscienza dell'uomo comincia a delinearsi sul piano del raggiungimento di una personale autonomia rispetto ai poteri (politico e religioso) costituiti.
         Il commento letterale evidenzia alcuni temi di fondamentale importanza
         a) l'amore
         b) la Terra come centro del mondo;
         c) l'ordine gerarchico dell'Universo e il sistema delle cause e degli effetti che ne sono alla base;
         d) il desiderio di difendere la propria fama, che spinge il Poeta a prevenire e contestare eventuali accuse di leggerezza per aver abbandonato l'antico amore in favore del nuovo.
         Nell'interpretazione allegorica "Per donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua propia potestate, che è la ragione", che "avvalora e accende amore dovunque ella si mostra, con la suavitade de li atti, ché sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio alcuno"; sul piano dell'identità tra la donna gentile e la filosofia, abbiamo la lode appunto della Filosofia e della sua suprema nobiltà e perfezione, per cui "filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede". Niente è più nobile agli occhi di Dio della Sapienza; ma soltanto Dio la possiede perfettamente, perché "in Lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede.", in quanto Dio è il principio e la causa prima dell'universo. Da Dio discendono le creature, ordinate, sia in relazione a Dio stesso che in relazione tra loro, in una scala gerarchica i cui gradi sono legati dal principio di causa effetto, senza che siano ammessi salti tra l'uno e l'altro. Nell'uomo la sapienza trova perciò un limite insuperabile proprio nel fatto che l'uomo è un effetto rispetto alla causa prima che è Dio ed anche perché gli uomini sostanzialmente vivono più "secondo lo senso che secondo ragione" e vivendo secondo lo senso diventa impossibile provare quell'amore che è la condizione indispensabile per "filosofare", cioè per arrivare alla Verità e alla luce divina. L'uomo, attraverso l'amore e la speculazione filosofica, raggiungerà la felicità celeste, innalzandosi nella Conoscenza e confermandosi nella Fede.
         La donna accende amore, da questo "la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare". Per arrivare alla felicità celezte occorrono dunque le tre virtù teologali, Fede - Speranza - Carità, mosse comunque dall'Amore.
         Il movimento vitale del linguaggio, dell'esperienza umana, dela società stessa, che tende alla perfezione di cui solo l'Impero universale sarà garanzia, trova la sua spiegazione, nella vita del creato, nel'amore che lo informa.

Trattato 4
concetto di nobiltà
Canzone: Le dolci rime d'amor ch'io solia


Nel quarto Trattato abbiamo da un lato l'abbandono del tema amoroso con la contemporanea rinuncia all'allegoria e dall'altro un tema dottrinario che si caratterizza per aspetti diversi sul piano dell'ideologia e della forma letterale ed espositiva (non a caso il numero dei capitoli di questo Trattato è 30 in confronto ai 15 mediamente dei precedenti. L'abbandono del tema amoroso lo troviamo già nel titolo della canzone, colla quale Dante intende "inducer la gente in diritta via sopra la propria conoscenza de la verace nobilitate la vera nobiltà, adottando una forma "aspr'e sottile". Nella concezione dantesca, la nobiltà è una concezione individuale, non legata alla ricchezza o alla condizione della famiglia: è un dono di Dio all'anima ben disposta a riceverlo: "a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che «seme di felicitade», messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte disposto perfettamente", e la buona disposizione si ottiene attraverso l'esercizio delle virtù morali. È una concezione nuova che decreta un cambiamento di rotta nella concezione della vita Trecentesca, che in qualche modo aveva trovato già una affermazione politica e giuridica negli "Ordinamenti di Giano della Bella" del 1293, una concezione apparentemente più democratica e sicuramente più vicina agli interessi della nascente borghesia che a quella di una nobiltà, che basa l'organizzazione della società sui privilegi di nascita, e che comincia ad attraversare un periodo di crisi e deve cercare di riciclarsi.
         Dante rifiuta la definizione di nobiltà come antica ricchezza accompagnata da bei costumi, attribuita all'Imperatore Federico II di Svevia e accolta da molti: la nobiltà non è ereditaria, non dipende dalla ricchezza o dal possesso di titoli nobiliari, ma è dote individuale. La nobiltà da un lato è "perfezione di propria natura in ciascuna cosa" (come perfetta è la circonferenza che presenta ogni suo punto equidistante dal centro); dall'altro la nobiltà è frutto delle azioni umane: "per lo cammino diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra nobilitade è seme, sì come ne la sua diffinizione sarà pienamente manifesto".
         In questa vita l'uomo può avere due felicità, secondo due diversi cammini, buono e ottimo: l'una è la vita attiva, l'altra è quella contemplativa; alla felicità si arriva attraverso l'esercizio delle virtù, un esercizio che è la manifestazione della nobiltà stessa.
         L'esercizio delle virtù morali conduce alla beatitudine della vita attiva; così le elenca Dante:
         La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l'audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corr[u]zione de la nostra vita.
         La seconda è Temperanza, che è regola e freno de la nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le cose che conservano la nostra vita.
         La terza si è Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali.
         La quarta si è Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese, quelle facendo e sostenendo a certo termine.
         La quinta si è Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama.
         La sesta si è Amativa d'onore, la quale è moderatrice e ordina noi a li onori di questo mondo.
         La settima si è Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri mali esteriori.
         L'ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri.
         La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone.
         La decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente.
         L'undecima si è Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose.
         Tutte le virtù morali hanno due nemici: l'eccesso nel troppo e l'eccesso nel troppo poco, e conducono alla beatitudine della vita attiva.
         L'altra via, quella ottima, che è l'esercizio delle virtù speculative o intellettuali, conduce alla beatitudine della vita contemplativa.
         Il concetto di nobiltà (gentilezza) è più vasto ed importante del concetto di virtù che trova la sua naturale collocazione proprio in quello di nobiltà: come tutte le stelle sono in cielo, ma non tutto il cielo è occupato da stelle, così la virtù presuppone la nobiltà, mentre la nobiltà in sè, quale pura "potenza" può nei fatti estrinsecarsi nelle singole virtù.
La nobilà, inoltre, si manifesta con perfezioni particolari in relazione alle quattro età dell'uomo, tenendo presente sia che la durata delle vita umana è fissata in settantanni, sia che la durata di ciascuna età dipende da "la complessione nostra e la composizione", perché "altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati":

      1 - Adolescenza, cioè accrescimento di vita, e dura fino al venticinquesimo anno di età; in questo periodo si verificano molti mutamenti nella persona: l'anima è troppo intenta al crescere e all'abbellimento del corpo e non può intendere la parte razionale per cui l'uomo non può fare certe cose se non sotto la guida di un uomo adulto; l'inizio dell'adolescenza non comincia tuttavia col cominciare della vita, ma con l'ottavo mese. L'Adolescenza è la porta attraverso la quale si entra nella buona vita, e deve avere quattro cose necessarie: l'Obedienza, la Soavitade, la Vergogna (composta da Stupore, Pudore e Verecundia), l'Adornezza corporale. Nell'Adolescenza è necessario essere riverenti e desiderosi di sapere, essere riservati, non eccedere, pentirsi e pagare per gli errori commessi
      2 - Gioventute, cioè età che puote giovare, e dare perfezione: nulla può dare se non ciò che possiede; la Gioventù è il colmo della nostra vita, e dura venti anni, dieci di ulteriore ascesa, fino al trentacinquesimo anno che è il medio della nostra vita (il mezzo del cammin di nostra vita), e dieci di discesa; la Gioventude deve essere temperata e forte, amorosa, cortese e leale, cinque caratteristiche ognuno deve possedere sia rispetto a se stesso che rispetto agli altri
      3 - Senettute, come l'Adolescenza dura venticinque anni, e termina col settantesimo anno, ma i 25 anni non sono pieni; la Senettude deve essere
   * prudente (cioè savio, con buona memoria delle cose vedute, buona conoscenza delle cose presenti e buona provedenza delle cose future),
   * giusta, lume e norma di comportamento per gli altri; poichè apparve agli antichi filosofi che questa virtù fosse somma in questa età, parve opportuno affidare a coloro che vivessero nella Senettude il governo delle città e degli stati e la partecipazione all'assemblea, che per questo venne chiamata Senato, cioè composta da senes
   * larga, capacità d'essere liberale con gli altri, in modo che la liberalità non nuoccia a se stesso o agli altri, per cui deve essere usata a tempo e luogo debito, con giustizia e prudenza, virtù che è impossibile avere prima di questa età;
   * affabile, allegra (che dice bene degli altri)
      4 -Senio, "oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio", per cui la durata della vita dovrebbe essere all'incirca di 81 anni, tanti quanti ne visse Platone, come testimonia Cicerone nell'opera De senectute. Nella quarta parte de la vita,due cose rendono nobile l'anima:
1) ritorno a Dio, come a un porto dal quale è partita entrando nel mondo della vita
2) l'anima benedice il cammino che ha fatto nella vita, perché è stato diritto e buono senza l'amarezza di tempeste e difficoltà: la morte non è dolore nè acerbità, ma come un pomo maturo senza violenza si distacca dal ramo, così la nostra anima senza dolore si parte dal corpo nel quale è stata.

         Un particolare significato assumono nel quarto Trattato le digressioni su argomenti di interesse morale, religioso ed etico-politico, che formano nel complesso una sintesi delle convinzioni di Dante sia sul piano politico (verso la giustificazone della Monarchia universale e la sua romanità e la limitazione del potere imperiale), che su quello religioso da riportare nell'ambito di una vera coscienza dei dettami del Vangelo (vedi la diatriba con Bonifacio VIII).





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