LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXXII

I miei occhi erano così fissi e attenti a saziare la decennale sete (che nasceva dal desiderio di rivedere Beatrice, ormai morta da dieci anni), che tutti gli altri miei sensi avevano cessato la loro attività.

Ed essi venivano separati con un muro di noncuranza (avean parete di non valer) dalla realtà circostante (quinci e quindi: da una parte e dall'altra) - con tale forza il santo sorriso di Beatrice li attirava a sé con la rete dell'amore di un tempo (antica)! -,

quando il mio sguardo fu costretto a volgersi verso la mia sinistra da un imperioso richiamo delle divine creature (quelle dee: le virtù teologali), perché io le udii esclamare "Troppo fissamente (guardi Beatrice)! ";

e quella debole capacità visiva che rimane (èe: è) negli occhi appena abbagliati dal sole, mi fece restare per qualche momento senza poter vedere.

Ma dopo che la vista diventò di nuovo capace di percepire la luce minore della processione (io dico "minore" in confronto al grande splendore [al molto sensibile] del volto di Beatrice dal quale mi distolsi forzatamente) ,

vidi che il trionfale corteo si era voltato verso destra, e tornava indietro avendo davanti a sé il sole e le luci (fiamme) dei sette candelabri.

Come una schiera di soldati proteggendosi con gli scudi opera una conversione per salvarsi (dal nemico), e si volge indietro seguendo il vessillo, (formando un semicerchio) prima che tutta la schiera cambi direzione,

allo stesso modo quella avanguardia (milizia... che procedeva) del regno celeste (formata dai ventiquattro seniori) ci passò davanti tutta quanta prima che il carro voltasse il timone (incominciando anch'esso, la sua conversione).

Poi le virtù ritornarono accanto alle ruote, e il grifone mosse il carro (benedetto varco: benedetto carico, perché portava Beatrice), senza che, per questo, alcuna sua penna si agitasse,

Matelda, la bella donna che mi aveva fatto varcare (il Letè) e Stazio e io seguivamo la ruota che (volgendosi il carro verso destra) segnò la sua curva con un arco minore (di quello compiuto dall'altra ruota).

Così percorrendo la profonda foresta disabitata, per colpa di colei (Eva) che credette al serpente, un canto angelico regolava i nostri passi.

Ci eravamo allontanati (dal punto di partenza) di uno spazio forse triplo di quello che percorre una saetta scoccata dall'arco, quando Beatrice scese dal carro.

Io udii mormorare da tutti "Adamo"; poi si disposero in cerchio attorno ad una pianta priva di foglie
e di ogni fronda in tutti i suoi rami.

La pianta dispogliata intorno alla quale avvengono tutte le trasformazioni che caratterizzeranno la seconda parte del canto XXXII rappresenta l'albero della scienza del bene e del male, da Dio posto nel paradiso terrestre con il divieto per Adamo ed Eva di gustarne i frutti (Genesi II, 9 e 17). Se tutti gli interpreti sono d'accordo sul significato letterale, non altrettanto avviene per quello allegorico. In un primo tempo la pianta venne considerata simbolo dell'ubbidienza che gli uomini devono a Dio e che fu violata dai progenitori: per questo essa è dispogliata di foglie e d'altra fronda, finché la venuta di Cristo la fa rifiorire a nuova vita (cfr. versi 49 sgg.). A questa interpretazione fu poi sostituita un'altra, secondo la quale la pianta sarebbe simbolo della legge o ius naturale che coincide con la volontà di Dio, come Dante stesso afferma in un passo della Monarchia (II, II), e che si esprime concretamente in terra attraverso l'Impero, con il quale Dio attua la sua giustizia nel mondo. Questa esegesi - sostenuta particolarmente dal Parodi - identificando l'albero con l'Impero, trova una difficoltà nel fatto che poco dopo l'Impero appare raffigurato dall'aquila. Altri interpreti, invece, videro nella pianta la Croce, l'umanità, la Chiesa, Roma, la dottrina morale. Il Nardi, tuttavia, ha indicato nel modo migliore quale deve essere la posizione del lettore di fronte a questo passo: "La pianta altissima dell'Eden, verso la quale trae la mistica processione negli ultimi canti del Purgatorio, significa in senso morale la « giustizia di Dio », cioè la « rectitudo voluntatis propter se servata » [retta volontà conservata per un motivo trascendente], la quale ha il suo primo fondamento nel volere divino".

La sua chioma, che tanto più si allarga quanto più si innalza, per la sua altezza sarebbe ammirata anche dagli Indiani nei loro boschi.

Di fronte all'altezza della pianta dispogliata proverebbero profonda meraviglia anche gli Indiani, nei cui boschi gli alberi sono tanto alti che "nessuna freccia ha mai potuto giungere alla cima" (Virgilio - Georgiche II, 122-124). Nel rilevare l'altezza dell'albero Dante si è certamente ispirato, oltre che al già citato passo della Genesi, anche al libro di Daniele (IV, 7-8) , nel quale si narra che a Nabucodonosor in sogno apparve un albero - simbolo del suo impero - la cui cima si ergeva fino al cielo. Per la forma, invece, esso ricorda i due alberi del girone dei golosi, che da esso sono derivati (Purgatorio XXII, 133135; XXIV, 103-104 e 116-117).

« Beato sei tu, o grifone, che con il becco non strappi da questa pianta il frutto dolce al gusto, poiché il veritre di chi ne mangia si contorce dal dolore a causa di esso. »

Mentre precedentemente era stato ricordato il peccato di Adamo (verso 37) , ora viene esaltata la figura di Cristo, che con la sua venuta reintegrò la giustizia nel mondo dopo il peccato originale. Se si accetta l'interpretazione che vede nell'albero l'Impero, in questi versi Dante vorrebbe sottolineare che Cristo non solo predicò l'ubbidienza alla autorità temporale (Matteo XXII, 21), ma che vi fu egli stesso sottomesso, nascendo e morendo sotto la legittima giurisdizione dell'Impero.

Così attorno all'albero robusto gridarono i componenti della processione; e l'animale dalla duplice natura: « Così si conserva il principio di ogni giustizia».

E voltosi al timone che egli aveva tirato, lo portò ai piedi della pianta spoglia, e lo lasciò legato a lei per mezzo di un ramoscello.

Come le piante della terra (in primavera), quando scende la grande luce (del sole) congiunta a quella della costellazione dell'Ariete che splende seguendo la costellazione dei Pesci,

diventano turgide di gemme, e poi ciascuna rinnova il colore dei propri fiori, prima che il sole passi (giunga li del tempo di Dante con il significato di "pesce"). Il rinnovamento della natura si completa nel breve giro di un mese, prima cioè che il sole, lasciata la costellazione dell'Ariete, entri in congiunzione con quella del Toro (che segue l'ariete).

così la pianta che prima aveva i rami tanto spogli, si rinnivò, facendo sbocciare fiori di un colore meno vivo di quello delle rose e più acceso di quello delle viole.

In primavera la luce del sole illumina la terra in congiunzione con quella dell'Ariete, la quale, nello Zodiaco, segue immediatamente quella dei pesci (lasca era usato nel linguaggio toscano del tempo di Dante con il significato di "pesce") Il rinnovamento della natura si completa nel breve giro di un mese, prima cioé che il sole, lasciata la costellazione dell'Ariete, entri in congiunzione con quella del Toro.

lo non ne compresi le parole, né sulla terra si canta l'inno che in quel momento cantò quella gente, né fui capace di ascoltare fino alla fine il dolce canto.

Se io potessi descrivere come gli spietati occhi (di Argo) cedettero al sonno udendo cantare (da Mercurio) gli amori della ninfa Siringa, quegli occhi ai quali costò così caro il vegliare continuamente;

riuscirei a rappresentare in che modo mi addormentai, come un pittore che dipinga tenendo davanti un modello; ma un altro, se vorrà, provi a ben descrivere l'addormentarsi.

Per la seconda volta Dante ricorda la mitica figura di Argo (cfr. Purgatorio XXIX, 95-96), il cane dai cento occhi che Giunone pose a guardia di lo, amata da Giove; quest'ultimo inviò Mercurio, il quale fece addormentare Argo cantandogli gli amori del dio Pan con la ninfa Siringa e poi lo uccise nel sonno (Ovidio - Metamorfosi I, 601-746).

Perciò passo senz'altro al momento in cui mi svegliai, e dico che uno splendore mi squarciò il velo del sonno e che una voce (quella di Matelda) mi chiamò dicendo: « Alzati: che fai? »

Come nel vedere il primo saggio di quell'albero (Cristo), il quale in cielo rende gli angeli bramosi della sua visione, e li fornisce di cibo come in una perpetua festa nuziale,

Pietro e Giovanni e Giacomo quando furono condotti (sul Tabor) e furono tramortiti (dallo splendore della trasfigurazione di Gesù), ritornarono in sé al suono della voce di Cristo la quale ruppe sonni ben più profondi,

e si accorsero che dal loro gruppo erano scomparsi tanto Mosè quanto Elia, e che il Maestro aveva cambiato la veste (con la quale era apparso durante la trasfigurazione),

allo stesso modo ripresi io i sensi, e vidi china su di me Matelda che prima aveva guidato i miei passi lungo la riva del Letè.

È un episodio evangelico quello che aiuta Dante a spiegare come egli riprende conoscenza dopo il dolcissimo canto innalzato dai membri della processione (versi 61-63), come non vede più Beatrice sul carro trionfale e come il grifone e il corteo sono scomparsi. Gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni assistettero, sul monte Tabor, alla trasfigurazione di Gesù, gustando un primo saggio del gaudio paradisiaco: "il suo volto risplendette come il sole, e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che parlavano con Lui... i discepoli caddero bocconi per terra ed ebbero gran paura. Ma Gesù si avvicinò e, toccandoli, disse: « Alzatevi, non temete! ». Ed essi, alzando gli occhi, non videro che il solo Gesù" (Matteo XVII, 1-9).

E tutto timoroso (di essere stato abbandonato da Beatrice) dissi: « Dov'è Beatrice?» Per questo Matelda rispose: « La puoi vedere sotto l'albero che ha rinnovato le fronde seduta sulla sua radice:

vedi il gruppo che la circonda (le virtù cardinali e teologali) : gli altri personaggi della processione risalgono in cielo dietro al grifone intonando un canto più dolce (per la melodia) e più profondo (per il significato) (di quelli che tu hai potuto ascoltare sulla terra) ».

E se Matelda disse altre cose, non lo so, poiché ero già tutto intento ad osservare Beatrice, la cui vista mi impediva di prestare attenzione ad altre cose.

Sedeva sola sulla nuda terra, lasciata lì a guardia del carro che avevo visto legare (all'albero) dal grifone (biforme fera: la fiera dalle due nature).

Le sette virtù la chiudevano come in un cerchio, tenendo in mano i candelabri che non possono essere spenti da nessun vento (d'Aquilone e d'Austro: sono qui indicati i due venti più impetuosi) .

Beatrice - la verità rivelata - resta a guardia e difesa della fronda nova, cioè del nuovo rapporto da Cristo stabilito fra la giustizia di Dio e la sua Chiesa. La circondano, come corona e presidio, solo le sette virtù, le quali durante il sonno di Dante hanno preso i sette candelabri, per testimoniare la continuità del retaggio dei sette doni lasciati dallo Spirito Santo alla Chiesa dopo la Pentecoste. Altri interpreti, tuttavia, sostengono che i lumi indicano in questo momento i sette sacramenti.
L'espressione in su la terra vera è stata da alcuni critici spiegata come uri allusione al paradiso terrestre, che fu creato per essere la vera sede dell'umanità, ma è più verosimile - attraverso l'accenno alla nuda terra - il richiamo all'umiltà e alla povertà della Chiesa primitiva. La processione che ha riempito della sua presenza la divina foresta risale al cielo "perché, allegoricamente, quanto si è svolto fin qui ha rappresentato la Chiesa formatasi e poi costituitasi nei suoi fondamenti essenziali e permanenti; quanto segue è la concreta vicenda storica, fino ai tempi moderni" (Mattalia).


« Qui resterai nella selva per poco tempo: e poi sarai insieme con me per sempre cittadino di quella Roma celeste (cioè: del paradiso) della quale Cristo è cittadino.

Romano nel linguaggio antico indicava colui che godeva del diritto di cittadinanza e quindi era sinonimo di « cittadino ». Tuttavia il Mattalia nota che "romano ha qui senso più pregnante, e richiama indirettamente il significato universalistico che nel linguaggio di Dante ha l'epiteto romano: la funzione universale di Roma come sede dei due poteri, e come centro di diffusione del messaggio di Cristo; e le lunghe argomentazioni di Dante (Convivio e Monarchia) sulla convalida rilasciata da Dio a Roma e per mezzo di Cristo, e in numerosi altri modi".

Perciò, ad ammaestramento dell'umanità traviata, osserva ora il carro, e fa in modo di descrivere quello che vedi, dopo sere ritornato nel mondo. »

Così disse Beatrice; ed io, che ero del tutto disposto a seguire con umiltà i suoi comandi, rivolsi la mente e gli occhi dove ella voleva.

Un fulmine non scende mai da una densa nube con un moto così veloce, quando precipita dalle più alte regioni dell'aria,

come quello con il quale l'aquila calava verso l'albero, squarciandone la corteccia, oltre che i fiori e le nuove foglie;

e colpì il carro con tutta la sua forza; per la qual cosa esso sbandò come una nave (sbanda) ora su un fianco (da poggia: la poggia è la fune che regge l'antenna sul fianco destro della nave), ora sull'altro (da orza: l'orza è la fune che regge l'antenna sul fianco sinistro della nave) durante la tempesta, quando è in balia delle onde.

Attraverso la potente immagine dell'uccel di Giove che piomba con tutta la sua forza devastatrice sull'albero e sul carro Dante rappresenta un momento storico particolare: le persecuzioni portate dall'impero romano (in tutto il poema, infatti, l'aquila è sempre simbolo dell'Impero) contro il Cristianesimo nascente fino al periodo di Domiziano, persecuzioni che ferirono profondamente la giustizia divina (rompendo della scorza, non che de' fiori e delle toglie nove) e quasi mortalmente l'organismo della Chiesa (ferì 'l carro... ond'el piegò come nave in fortuna).

Poi vidi avventarsi sulla parte interna del carro trionfale una volpe che sembrava digiuna di ogni cibo che potesse ben nutrirla.

Ma Beatrice, rimproverandola per le sue colpe vergognose, la costrinse ad una fuga tanto veloce quanto lo consentivano le sue smagrite membra.

Nella figura della volpe Dante riassume tutte le eresie che travagliarono attraverso i tempi la Chiesa, anche se alcuni interpreti hanno pensato alle eresie dei primi secoli, in modo particolare a quella di Ario. Mentre l'aquila « cala » sull'albero e sul carro, la volpe penetra nella cuna; "il pericolo è portato nell'interno stesso della Chiesa, nei suoi fondamenti dottrinali" (Mattalia) e solo l'intervento della dottrina rivelata - attraverso la figura di Beatrice - può allontanarlo.

Poi per la stessa via dalla quale era venuta la prima volta, vidi l'aquila scendere nella parte interna del carro e lasciarla cosparsa delle sue penne;

e con lo stesso tono di una voce accorata (esce di cuor che si rammarca), uscì dal cielo una voce e disse: « O navicella mia, di quale cattiva merce sei carica! »

Il ritorno dell'aquila sul carro, che resta questa volta coperto in parte delle sue penne, allude alla famosa donazione territoriale fatta da Costantino a papa Silvestro e della quale Dante ha già parlato nel canto XIX dell'Inferno (versi 115-117), rilevando in essa la fonte di tutti i mali ed errori della Chiesa, anche se questa donazione fu decisa con intenzione retta e generosa (verso 138: cfr. anche Paradiso XX, 56; Monarchia II, XII). Essa, tuttavia, rappresentò una diminuzione delle prerogative e della giurisdizione dell'Impero nel mondo: infatti l'aquila lascia l'arca del carro... di sé pennuta. La posizione di Dante riguardo alla necessità della divisione del potere temporale e di quello spirituale è basilare non solo per la Commedia, ma anche per la Monarchia, essendo la chiave di volta del pensiero politico dell'Alighieri.
I versi 128-129 sono spiegati dai commentatori antichi come un riferimento diretto a un episodio della leggenda che ha per protagonisti Costantino e Silvestro: subito dopo la donazione si udì una voce dal cielo che diceva: "Hodie diffusum est venenum in Ecclesía Dei" ("Oggi si è sparso il veleno sulla Chiesa di Dio"). La Chiesa è ricordata come la barca di Pietro anche nel Paradiso (XI, 119-120).


Poi mi sembrò che la terra fra l'una e l'altra ruota si aprisse, e vidi uscirne un drago che conficcò la coda nel carro;

e come la vespa che ritira il pungiglione, ritraendo a sé la sua coda pericolosa, asportò una parte del fondo del carro, e se ne andò tutto soddisfatto.

Il drago rappresenta, come già il "gran dragone" dell'Apocalisse (XII, 3-9), Satana, che insidia con la sua azione la vita della Chiesa: questa azione culmina negli scismi (il più importante era considerato quello musulmano: occorre, infatti, ricordare che nel medioevo si riteneva che Maometto fosse un cardinale allontanatosi dalla Chiesa) e in una sempre più grande cupidigia dei beni materiali. L'espressione vago vago è stata variamente spiegata: « lento », « orgoglioso » , « errante da una dottrina all'altra » , « desideroso di mali peggiori ».

Quella parte del carro che rimase, come accade per la terra fertile che si ricopre di gramigna (se è lasciata incolta), dalle penne, offerte forse con intenzione retta e generosa,

fu ricoperta, e ne furono ricoperte entrambe le ruote e il timone, in un tempo più breve di quello che impiega la bocca ad emettere un sospiro.

La degenerazione della Chiesa, dopo la donazione di Costantino e l'intervento di Satana, si completa in breve tempo: il carro, le ruote e il timone si coprono della piuma dell'aquila - cioè del potere temporale che è la causa prima della corruzione morale - e la figura della Chiesa si trasforma nel mostro dell'Apocalisse.

Il carro sacro così trasformato mise fuori delle teste nelle singole parti, tre sopra il timone e una in ciascuno degli angoli:

le prime erano fornite di due corna come quelle dei buoi, ma le altre quattro avevano un corno solo nella parte mediana della fronte: mai fu visto un mostro simile.

Dante - ispirandosi ad un passo dell'Apocalisse (XVII. 3), nel quale si descrive "una bestia di color rosso scarlatto, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna" - crea una figura di complesso significato allegorico, perché ogni suo attributo ha un valore simbolico. Le sette teste, che nell'Inferno (XIX, 109) indicavano i sette sacramenti o i sette doni dello Spirito Santo, simboleggiano ora i sette peccati capitali.
Le teste con due corna rappresentano i peccati peggiori, che offendono Dio e il prossimo (superbia, invidia, ira), quelle con un sol corno i peccati che offendono solo il prossimo (accidia, avarizia, lussuria, gola), laddove le dieci corna erano, nell'Inferno (XIX, 110) , simboli dei dieci comandamenti.


Seduta sopra di esso, sicura, come una rocca sulla cima di un monte, mi apparve una sfrontata meretrice, che guardava intorno con occhi impudichi;

Fonte di questa immagine è ancora l'Apocalisse: "Vieni, e ti farò vedere la condanna della gran meretrice, che è assisa sopra le vaste acque, con la quale hanno fornicato i re della terra, e che ha inebriati gli abitanti della terra col vino della sua lussuria" (XVII, 1-2; cfr. poi il resto del capitolo). Anche qui, come già nell'Inferno (canto XIX, 107-111), la figura della meretrice rappresenta la corrotta Curia romana del tempo di Dante. Alcuni critici pensano che essa indichi più direttamente qualche pontefice al quale il Poeta faceva risalire la responsabilità della degenerazione ecclesiastica: Bonifacio VIII o Clemente V.

e quasi (a vigilare) affinché nessuno gliela rapisse, vidi ritto di fianco a lei un gigante; e si baciavano l'un l'altra di tanto in tanto.

Secondo Pietro di Dante il gigante rappresenta i re di Francia che in questo momento tengono sotto la loro sovranità il papato; in particolare esso indicherebbe Filippo il Bello, sotto il cui regno avvenne l'asservimento pressoché completo della cattedra di Pietro alla corona di Francia, con il trasporto della sede papale da Roma ad Avignone sotto Clemente V: da qui l'espressione baciavansi insieme alcuna volta.

Ma poiché volse verso di me i suoi occhi desiderosi e vaganti, quel crudele amante la flagellò dalla testa ai piedi;

Dante, che rappresenta in questo momento la giusta concezione di quella che dovrebbe essere la missione della Chiesa; viene guardato dallo sguardo cupido e vagante della meretrice, il quale simboleggia un tentativo della Chiesa di ritornare sulla giusta via, o comunque di liberarsi dalla soggezione ai re francesi; ma l'intervento del gigante é rapido e feroce: la flagellò dal capo infin le piante. Molti critici ricordano, a proposito dei versi 155-156, la lunga lotta sostenuta da Bonifacio VIII contro Filippo il Bello, e culminata nell'oltraggio di Anagni.

poi, pieno di sospetto e reso crudele dall'ira, slegò il mostro, e lo condusse nella selva, tanto che soltanto con gli alberi (sol di lei: riferito a selva) mi impedì (di vedere)

la meretrice e la bestia mostruosa.

Il mostro nel quale si è trasformato il carro della Chiesa viene trascinato lontano dal gigante per indicare il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone, avvenuto nel 1305 e il successivo periodo della « cattività avignonese ».



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