LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXX

Quando l'Orsa Maggiore (il settentrion: le sette stelle dell'Orsa Maggiore indicano qui i sette candelabri) dell'Empireo, che non conobbe mai né tramonto né aurora né altra nebbia che la offuscasse se non il velo del peccato,

e che lì nel paradiso terrestre (guidando la processione) rendeva ciascuno consapevole di ciò che doveva fare, come la sottostante costellazione dell'Orsa Minore rende consapevole (della rotta da seguire) ogni nocchiero che manovra il timone della nave per giungere in porto,

quando, dico, i sette candelabri si fermarono, i ventiquattro seniori, testimoni della verità, che si erano fatti avanti per primi tra il grifone e i candelabri (esso: riferito a settentrion), si rivolsero al carro come al principio e fine dei loro desideri;

I sette candelabri che aprono la processione sono indicati attraverso una complessa immagine, ancora una volta attinta al difficile campo dell'astronomia: essi ricordano al Poeta la costellazione dell'Orsa Maggiore, qui chiamata settentrion dal latino septem triones, poiché le sue sette stelle sembrano formare la figura di un carro con sette (septem) buoi (triones) aggiogati. Infatti uguale è il loro numero e identica è la funzione, perché i candelabri additano la strada al corteo e l'Orsa Maggiore mostra la via ai naviganti, per quanto i primi risplendano nel cielo dell'Empireo e la seconda ruoti nel cielo ottavo (o cielo stellato), posto sotto l'Empireo, passando attraverso i tramonti, le albe, le nebbie, laddove i sette candelabri conoscono solo il velo della colpa che nasconde all'uomo i doni dello Spirito Santo, da essi simboleggiati.

e uno di loro, come fosse ispirato dal cielo, per tre volte gridò cantando « Vieni, o sposa, dal Libano », e tutti gli altri ripeterono l'invocazione.

Quello dei ventiquattro seniori che rappresenta il Cantico dei Cantici canta un versetto del libro: "Veni de Libano, sponsa mea" (IV, 8) . L'esegesi del Cantico ha visto di volta in volta nella "sposa' la Sinagoga, l'anima, la Chiesa e proprio quest'ultima compare in un passo del Paradiso (Xl, 31-33) come sposa di Cristo. In questo momento, tuttavia, l'invocazione è rivolta a Beatrice, simbolo della scienza rivelata, cioè del magistero dottrinale e morale della Chiesa.

Come all'ultimo appello del giudizio universale risorgeranno i beati uscendo prontamente ognuno dalla sua sepoltura, mentre saluteranno con un alleluia il corpo risorto di cui tornano a rivestirsi,

allo stesso modo, all'invito di così venerando vecchio, si levarono sul carro divino moltissimi angeli, ministri e messaggeri di vita eterna.

I primi versi del canto ripropongono, in forma di proposizione subordinata (quando il settentrion... fermo s'affisse), la notazione con cui si era concluso il canto precedente (fermandosi ivi con le prime insegne), ma la introducono in un contesto assai più ricco e contrastato, destinato a culminare nella drammatica contrapposizione del penitente (Dante) al suo giudice (Beatrice). Laddove, infatti, la descrizione del corteo sacro è stata caratterizzata da una certa schematicità e quasi fretta enunciativa, a partire dal momento in cui il carro si ferma, la parola del Poeta esprime il senso di una sacra aspettazione, l'attesa di un prodigio cui è conferito il compito di dare un significato a tutto l'itinerario del pellegrino. Al verso I, il termine settentrion conferisce ampiezza di spazi e raccoglimento meditativo al simbolo dei sette doni dello Spirìto Santo. Tale simbolo nel canto precedente è apparso circoscritto in forme rituali, cui l'affollarsi della processione toglieva vastità di prospettive per dar luogo a variazioni, in fondo ancora profane e compiaciute, sul terna della luce. Qui i sette candelabri si allontanano infinitamente dalle proporzioni che l'uomo può definire, splendono come un enigma non ancora svelato se non nella sua funzione di guida, nel buio richiamano le stelle su cui Dante ha fissato lo sguardo prima di addormentarsi, superata la barriera di fuoco, sotto la vigilanza di Stazio e Virgilio. Il Poeta mette chiaramente in luce la base concettuale su cui tale metafora poggia attraverso la specificazione del primo cielo, ma questa indicazione non rimane astratta, caricandosi, nei due versi che seguono, di tutto l'empito di commozione che è nell'animo del pellegrino, ormai certo di poter raggiungere questo primo cielo, la patria intemporale dei beati. Di questa commozione è indice la struttura dei versi 2 e 3, articolata su di una triplice negazione, che induce ad un tono di trionfo, ad un senso di liberazione raggiunta. La salda compagine dell'esordio risulta attenuata nei versi 10-12. Qui, quale protagonista, si sostituisce, all'insieme robusto di questo presagio del cielo, una figura meno emblematica e grave, tutta risolta in un atteggiamento di grazia immediata. Il verso e un di loro, quasi da ciel messo, riferito ad uno dei maestosi vecchi che abbiamo veduto incedere nel canto precedente, ne riporta l'età - attraverso l'evidente richiamo alla scena evangelica dell'Annunciazione - a quella dell'angelo apparso a Maria, immune dal peso degli anni, determinando, in quelle che fin qui erano apparse fredde allegorie, una partecipazione al dramma del rinnovato incontro fra Dante - in veste di peccatore penitente - e Beatrice - in veste di sacerdote - che incita alla necessaria confessione dei peccati. Tale partecipazione è ulteriormente rilevata dalla similitudine dei versi 13-15, la quale colloca anticipatamente il giudizio di Beatrice nella prospettiva del giudizio universale. La vicenda di Dante perde, in virtù di suggerimenti come questo, qualsiasi residuo di ristretto autobiografismo, per coincidere con quella dell'anima che si redime dal peccato, oltre ogni determinazione storica o culturale. Notiamo, in questa terzina, il forte potere evocativo del termine caverna che "suscita tutto il senso delle tenebrose profondità sotterranee" (Grabher), in contrasto con la luce che si irradierà sui corpi dei risorti, nonché, al verso 15, l'ampio respiro metafisico che il Poeta infonde al quadro di questa integrale ricostituzione dell'umano. Tale quadro è pervaso da un sentimento di gaudio impetuoso ed è visto non nel particolareggiarsi di questo o quell'atteggiamento singolo, ma nella sua accezione più meditata e definitiva. La risurrezione dei corpi ha in Dante il significato di una riconciliazione, nella saldezza dell'immortalità, tra ciò che è apparso perituro nel tempo (il corpo) ed il principio che non ha mai cessato di sussistere (l'anima). Tutto il creato appare qui destinato a condividere la gloria del suo Creatore: l'elemento corruttibile testimonierà anch'esso della perfezione del suo artefice.
Se paragoniamo questo scorcio dantesco alle illustrazioni che della risurrezione dei corpi hanno dato pittori come Luca Signorelli o Michelangelo, possiamo renderci conto da un lato della saldezza del mondo di Dante, per il quale nessuna manifestazione del negativo può dar luogo ad una negazione dell'essere nel suo complesso, e dall'altro della sfiducia, del dubbio - che incrinano l'unità del reale - quali risultano agli albori dell'evo moderno. Nei due pittori citati i corpi riprendono a vivere senza gioia, esprimono la stanchezza, il peso di una carne non riscattata dal tempo. Il giudizio di Dio incombe sui risorti di Luca Signorelli e di Michelangelo come una minaccia per lungo tempo attesa ed improrogabile, laddove in Dante esso riveste un significato positivo, rappresentando anzitutto la cessazione di ogni conflitto - proprio dell'imperfezione terrena - l'armonico integrarsi di tutti gli aspetti del reale ed il loro orientarsi verso la fonte da cui emanarono.


Tutti dicevano: « Benedetto tu che vieni! », e gettando fiori sopra e intorno (al carro) soggiungevano: « Oh, datemi gigli a piene mani! »

« Benedictus qui venit in nomine Domini » ("Benedetto colui che viene nel nome del Signore") sono le parole di saluto rivolte dalla folla a Gesù che entrava in Gerusalemme (Matteo XXI, 9; cfr. anche Luca XIX, 38; Marco XI, 9). Alcuni interpreti le ritengono rivolte a Dante, altri al grifone, altri ancora, e più giustamente, a Beatrice.
Il verso 21 ripete, con la sola aggiunta dell'oh, l'espressione che Virgilio (Eneide VI, 883) fa pronunciare nell'Ade ad Anchise, padre di Enea, per celebrare le lodi di Marcello, nipote di Augusto e morto prematuramente.
Nei versi 19-21 l'uso del latino ha lo scopo di rendere più maestose le figure degli angeli, nonché il loro canto, eseguito nella solenne lingua di Roma e della Chiesa, le due grandi realtà che Dante vuole qui accostare - attraverso una citazione dal Vangelo e una dall'Eneide - nel momento in cui viene invocata la venuta di Beatrice.


Io vidi spesso al cominciare del giorno la parte orientale del cielo tutta rosa, e le altre parti adorne di un bel sereno;

e vidi il disco del sole spuntare al mattino come velato d'ombra, in modo che l'occhio lo poteva fissare per lungo tempo, perché i vapori ne temperavano il fulgore:

così velata da una nuvola di fiori che, lanciati dalle mani degli angeli, salivano e ricadevano dentro e intorno al carro,

m'apparve una donna cinta di fronde d'ulivo sopra il candido velo, vestita sotto il manto verde di una veste del colore della fiamma viva.

Beatrice, simbolo della teologia, appare rivestita dei tre colori rappresentanti la fede, la speranza e la carità, cioè le virtù teologali, mentre la ghirlanda d'ulivo simboleggia la pace, propria dell'anima che vive nella fede, e, poiché l'ulivo è sacro alla dea della sapienza, Minerva, tale corona indica anche la sapienza, propria della dottrina teologica. Nel colore delle vesti occorre rilevare un evidente richiamo alla Vita Nova: infatti Beatrice appare a Dante la prima volta vestita di rosso (II, 3), la seconda vestita di bianco (III, 1) , avvolta poi in un manto sanguigno nella visione che il Poeta ha dopo il secondo incontro (III, 4) , e con il capo ricoperto da un velo bianco durante un sogno nel quale Dante immagina di vederla già morta (XXIII, 8).

E il mio animo, che già da tanto tempo (sono trascorsi dieci anni dalla morte di Beatrice al momento del viaggio di Dante nell'oltretomba) non avvertiva, pieno di tremore, il profondo turbamento che sentiva (sempre) alla sua presenza,

senza averla quasi vista (sanza delli occhi aver più conoscenza: senza ricevere dagli occhi una più precisa conoscenza), per una misteriosa virtù che da lei emanava, avvertì la grande potenza dell'antico amore.

Non appena i miei occhi furono colpiti dalla grande bellezza che già mi aveva ferito prima di essere uscito dalla puerizia,

mi volsi verso sinistra con la stessa affannosa incertezza con la quale il bambino corre dalla mamma quando ha paura o quando prova dolore,

per dire a Virgilio: « Neppure una stilla di sangue (men che dramma: dramma, di per sé, indica l' ottava parte dell'oncia, cioè poco più di tre grammi) mi è rimasta che non tremi: conosco i segni dell'antica fiamma »;

Il Poeta ricorda che al tempo del suo primo incontro con Beatrice e delle sue prime sofferenze d'amore, egli aveva appena nove anni, non essendo ancora fuor di puerizia (cfr. Vita Nova lI). E per sottolineare la gran potenza dell'antico amor traduce letteralmente il famoso verso virgiliano, nel quale Didone rivela alla sorella Anna il suo amore per Enea "adgnosco veteris vestigia flammae " (Eneide IV, 23).

ma Virgilio aveva privato della sua presenza me e Stazio, Virgilio, il dolcissimo padre, Virgilio, al quale mi ero affidato perché mi fosse guida verso la salvezza (per mia salute: cfr. Inferno II, 140);

né tutto ciò che Eva (l'antica matre) perdette con il suo peccato (cioè il paradiso terrestre e le sue gioie), poté impedire che le mie guance, già lavate (di ogni bruttura) con la rugiada (cfr. Purgatorio I, 127-129), ritornassero a macchiarsi di lagrime.

« Dante, non piangere anche, per il fatto che Virgilio se ne è andato, non piangere ancora; poiché sarai costretto a piangere per ben altro dolore (per il rimprovero che fra poco Beatrice gli rivolgerà a causa delle sue colpe).»

Il nome proprio del Poeta viene pronunciato qui per la prima ed ultima volta in tutta la Commedia. Dante si preoccupa di sottolineare subito che esso viene riportato solo per necessità (verso 63) : non per vana ostentazione, ma per precisare a chi è rivolto il richiamo, per sottolineare - attraverso l'uso del nome proprio - il legame di affetto che unisce Beatrice a lui, per rafforzare infine il rimprovero che la donna subito dopo gli rivolge (versi 56-57) .

Simile ad un ammiraglio che si sposta sulla poppa e sulla prora della sua nave per controllare le ciurme che attendono al proprio lavoro sulle navi minori della flotta, e le esorta a compiere bene (il lavoro),

sulla sponda sinistra del carro, allorché mi volsi al suono del mio nome, che qui devo trascrivere per necessità,

vidi la donna che prima mi era apparsa coperta di un velo sotto la nuvola dei fiori lanciati dagli angeli, volgere gli occhi verso di me al di qua del Letè.

Sebbene il velo che le scendeva dal capo, coronato da fronde di ulivo (pianta sacra alla dea Minerva), non la lasciasse apparire completamente visibile,

sempre in un atteggiamento di regale fierezza continuò come l'oratore che inizia a parlare e riserva per ultimo le parole più accese:

« Guarda qui (guardaci: ci è particella avverbiale) ben fisso! Sono io, sono proprio Beatrice. Come ti sei considerato degno di accedere al monte del purgatorio? Non sapevi tu che qui l'uomo gode la felicità (che nasce dalla purificazione del peccato)? »

Gli occhi mi caddero sulla limpida acqua del Letè; ma vedendo rispecchiata in essa la mia confusione, li volsi sull'erba, tanto era il peso della vergogna che mi fece abbassare la fronte.

Come la madre (mentre lo rimprovera) sembra severa al figlio, così Beatrice apparve a me, perché riesce amaro il sapore dell'affetto materno quando (per il bene del figlio) si manifesta in modo severo.

Ella tacque; e gli angeli cantarono immediatamente « In Te io confido, o Signore »; ma (nel canto di questo salmo) si interruppero alle parole « i miei passi ».

Gli angeli che erano apparsi sul carro trionfale dopo il canto di « Veni, sponsa, de Libano » (versi 16-18) chiedono a Beatrice di avere pietà delle colpe passate e della vergogna attuale di Dante, intercedendo per lui con i primi nove versetti del Salmo XXXI, che esprime un fiducioso abbandono nella misericordia divina. Gli angeli iniziano il loro canto dalle parole « In Te io confido, o Signore » e lo terminano con l'espressione del versetto 9 « ma i miei passi ponesti in sicurtà ».

Come sui monti dell'Appennino tra i rami degli alberi si congela la neve, spinta e addensata dal soffio dei venti freddi (venti schiavi: sono i venti della Schiavonia o Illiria, provenienti quindi da nord-est),

la quale poi, sciogliendosi, gocciola dagli strati superiori della sua superficie su quelli inferiori, non appena la regione africana manda i suoi venti caldi, così che pare il fuoco che consuma la candela,

allo stesso modo (cioè gelato come la neve sotto i venti freddi) rimasi incapace di piangere e di sospirare prima che cantassero gli angeli, i quali accordano sempre il loro canto alle armonie dell'eterno ruotare dei cieli;

L'espressione del verso 89 è stata spiegata dai commentatori antichi con il fatto che nella regione africana le ombre si raccorciano e quasi scompaiono allorché il sole batte perpendicolarmente nelle ore meridiane. Tuttavia la fonte di Dante è forse Isidoro, che nelle sue Etimologie (IV, 50) riporta la credenza secondo la quale nelle regioni calde per tre giorni interi all'anno non esiste alcuna ombra. Anche Lucano (Farsaglia IX, 528-531) ricorda che in Egitto le ombre proiettate dalle cose sono molto ridotte.

ma dopo che nelle dolci modulazioni del loro canto li udii mostrare compassione verso di me, più che se avessero detto: "Donna, perché lo mortifichi così duramente?",

il gelo che mi si era addensato intorno al cuore, si sciolse in sospiri e in lagrime, e con dolore uscirono dal petto attraverso la bocca e gli occhi.

Ella, sempre rimanendo ferma sulla sponda sopra nominata (cioè la sinistra: cfr. verso 61) del carro, rivolse le sue parole agli angeli (sustanze: essi, infatti, sono sostanze separate dalla materia) che si erano mostrati pietosi verso di me, parlando in questo modo:

« Voi vegliate sempre nella eterna luce di Dio, cosicché né la tenebra (dell'ignoranza) né il sonno (che può essere indizio di pigrizia e che comunque impedisce momentaneamente di vedere) vi sottraggono la conoscenza di ogni passo (cioè di ogni pensiero o azione) che l'umanità compie sulla sua strada;

per la qual cosa la mia risposta (al vostro canto pietoso) mira soprattutto a farsi intendere da colui che piange al di là del Letè, affinché il suo dolore sia commisurato alla colpa commessa.

Non solo per l'influsso dei cieli, che indirizzano ogni essere fin dal momento del suo concepimento verso un fine preciso, secondo le caratteristiche delle stelle che sono in congiunzione (con quei cieli al momento del concepimento),

ma anche per l'abbondanza delle doti spirituali, la cui pioggia si forma da vapori (cioè: dalla volontà di Dio) così misteriosi, che l'intelletto umano non può neppure giungervi vicino,

questi (Dante) nella sua giovinezza (vita nova) fu dotato di tali possibilità, che ogni buona disposizione avrebbe potuto produrre in lui prove mirabili (qualora egli avesse assecondato queste sue attitudini naturali).

I versi 109-114 riecheggiano da vicino ciò che Marco Lombardo ha affermato (Purgatorio XVI, 73 sgg.) riguardo all'influsso dei cieli nella formazione della persona umana e all'intervento delle grazie divine, anticipando quanto ritroveremo in alcuni passi del Paradiso (1, 109-129; VIII, 97-111; XVII, 7678; XXII, 112-123) . I cieli, che prendono il nome dai singoli pianeti che in essi si trovano, influenzano, attraverso le costellazioni, la formazione dell'uomo al momento del concepimento, secondo il principio concordemente sostenuto da tutto il pensiero medievale; e poiché la loro attività è voluta da Dio, il fine che essi propongono all'uomo non può che essere un fine razionale e giusto. Dante era nato sotto la costellazione dei Gemelli (cfr. Inferno XV, 55-60; Paradiso XXII, 112-123), che predisponeva allo studio e alle lettere.

Ma un terreno, quanto più è dotato di forza produttrice, tanto più diventa arido e selvatico quando vi si getta un seme cattivo oppure quando viene lasciato incolto.

Per qualche tempo lo guidai con la mia presenza: mostrandogli il mio sguardo adolescente, lo conducevo con me rivolto verso la strada del bene.

Non appena giunsi alla soglia della giovinezza e passai dalla vita terrena a quella eterna, egli si allontanò da me, e si affidò ad un'altra.

Nei versi 121-123, Beatrice ricorda il benefico effetto che la sua presenza ebbe su Dante nel periodo che intercorse, secondo quanto ci dice il Poeta stesso nella Vita Nova, fra il maggio 1274 e il giugno 1290, cioè fra il primo incontro e la morte della donna. Egli infatti afferma che "quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute [saluto] nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso" (Vita Nova XI, 1) . Beatrice muore alla soglia della giovinezza, che sottentra all'adolescenza dopo i venticinque anni, secondo la divisione della vita umana fatta nel Convivio (IV, XXIV, 1 sgg.), e Dante si volge ad altri interessi (diessi altrui).
Un antico commentatore, il Buti, spiega così questa espressione: "ad altri studii e amori". Quasi tutti gli interpreti moderni ritengono che qui Dante alluda alla "donna gentile" della Vita Nova (XXXV-XXXVIII) da lui amate dopo la morte di Beatrice e più tardi, nel Convivio, interpretata allegoricamente, come simbolo della filosofia e degli studi filosofici ai quali si dedicò per cercare un conforto dopo la scomparsa di Beatrice (II, XII, 5 sgg.). L'allusione resta tuttavia indeterminata, perché tale Dante ha voluto restasse: "Il discorso di Beatrice è sostanziosamente generico e comprensivo e non va, nell'interpretazione, eccessivamente particolarizzato" (Mattalia).


Dopo che da creatura corporea divenni puro spirito, e la mia bellezza e le mie virtù aumentarono, io gli divenni meno cara e meno gradita;

e si incamminò per una strada sbagliata, seguendo le ingannevoli immagini dei beni terreni, che non mantengono mai interamente nessuna promessa (ingannando gli uomini con il promettere loro una felicità che non potranno mai raggiungere).

Né (per ricondurlo al bene) mi valse ottenergli da Dio buone ispirazioni, con le quali e per mezzo di visioni e con altri interventi tentai di richiamarlo (dalla strada del male); così poco si curò di tutto questo!

Cadde in uno stato di tale traviamento, che tutti i rimedi per salvarlo erano ormai insufficienti, eccetto quello di mostrargli la condizione dei dannati (affinché, ispirando gli orrore per il peccato, più facilmente egli potesse allontanarsene).

Per questo discesi nel limbo, la porta d'ingresso dell'inferno, e pregai, piangendo, colui (Virgilio) che lo ha guidato fin quassù.

Un sommo decreto di Dio sarebbe violato, se si oltrepassasse il Letè (che fa dimenticare ogni peccato) e si gustasse la dolcezza delle sue acque senza pagarne il prezzo

con un pentimento così profondo da far spargere lagrime ».



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it